Intervista a Janet Murray
a cura di Massimiliano Colletti

 

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Abbiamo incontrato Janet Murray a Torino durante l’edizione 2002 della fiera del libro, dove insieme a G. Longo, C. Infante, J.R. Balpe e F. Antinucci, ha parlato del tema della Scrittura mutante. L’abbiamo incontrata ancora sulla rete dove ha accettato di rispondere alle nostre domande.


Pensando al concetto di “Scrittura Mutante” viene in mente il rapporto sempre più presente tra scrittura e gioco tanto che ha portato qualcuno ad affermare che la miglior storia di avventura dei nostri tempi sia Tomb Raider. Ci può spiegare in che senso queste due cose siano collegate e come la letteratura cambi alla luce di questi nuovi collegamenti?

C’è un continuum nello storytelling che si estende dalle prime forme della tradizione orale fino alle emergenti tecnologie dei nostri giorni. Lo scopo e il piacere dello storytelling rimane lo stesso: capire la correlazione delle molteplici forme di esperienza, condividere le nostre personali conclusioni, apprezzare la ricchezza delle percezioni e dei desideri umani. Ogni nuovo medium espande la nostra abilità di raccontare storie, di capire il senso della vita, e di condividere la nostra soggettività nonostante le differenze di coscienza, di cultura e di tempo. La stampa ci ha permesso di rappresentare la coscienza stessa incrementando precisione e dettagli, e allo stesso tempo di rappresentare anche l’interconnessione di complesse culture urbane. I film e la televisione ci hanno permesso di raccontare storie che non sarebbero potute essere comprese nella stampa, inclusa «forma lunga» delle serie televisive, che coinvolgono, per centinaia di ore in drammatiche situazioni, sempre gli stessi personaggi.
Allo stesso modo che la cultura della stampa ci ha portato ad una comprensione del mondo, un ordine di comprensione che modella tutte le cose, dal nostro corpo al sistema solare, alle dinamiche familiari, come un sistema di agenti interconessi. Un libro o un film lineare non è il modo migliore per ritrarre un mondo che vediamo come un sistema. Libri e film sono diventati sempre di più come giochi durante gli ultimi decenni anche prima dell’avvento dei giochi elettronici. I racconti di Borges sono un buon esempio di questo andamento. Così sono anche quei famosi film in cui l’eroe torna indietro nel tempo per cambiare lo sviluppo degli eventi.
I giochi appartengono allo stesso momento nella cultura. Si sviluppano dallo stesso impulso di raccontare storie; ci permettono di rappresentare l’esperienza della seconda possibilità, la stessa cosa con scelte differenti.


Ha parlato più volte di Storytelling: potrebbe spiegarci che cosa intende con questo termine e che posizione ricopre nel mondo della letteratura?

Lo Storytelling precede la letteratura. Include la cultura orale e la letteratura nel senso più ristretto, riferita a storie che sono state trascritte. Lo Storytelling è il temine che comprende tutto.
Lo Storytelling è anche un’abilità cognitiva che costituisce una parte cruciale della nostra umanità. Noi organizziamo il mondo in passato, presente e futuro; vediamo gli eventi come manifestazioni di causa e effetto. La storia non è soltanto una sequenza, ma una sequenza con una causa. Raccontare storie è una maniera per predire le sorti del il mondo e modellare i comportamenti. Questo è stato vero per i primi essere umani e deve averli aiutati ad evitare di diventare cena per animali predatori e allo stesso tempo li ha aiutati a trovare il modo per procacciarsi il cibo. Ma questo è vero anche nelle nostre più complesse società in cui di fronte a buone e cattive esperienze reagiamo tessendoci una storia intorno, collegandola a qualche genere di Storytelling, a qualche modello condiviso di comprensione.
La letteratura fornisce storie-modello che focalizzano l’attenzione su di un più ampio raggio rispetto agli aneddoti che condividiamo tutti i giorni con la nostra famiglia o con gli amici. Queste storie sono mutate dall’essere state raccontate più volte e si sono affinate nella trasmissione.
Vivono dentro i confini del loro campo semantico (la commedia, la tragedia, il melodramma, l’intreccio amoroso) collegato con l’incessante Storytelling di oggi e del mondo antico, che sono parte dell’esperienza umana.


La mia idea è che allo stato attuale della ricerca nel mondo digitale non ci sia niente che possiamo veramente leggere e considerare come una buona storia. Ho visto sì, molti passi avanti nel senso delle tecnologie per la scrittura, che apportano cambiamenti nel modo con cui leggiamo le storie (per esempio gli esperimenti proposti anche a Torino da Balpe), ma niente che aggiunga veramente qualcosa di nuovo dal punto di vista qualitativo.

Questo potrebbe essere vero anche se non mi sembra giusto paragonare una tradizione che vive ora la sua infanzia con un’altra che è stata formata da più di cinquecento anni di pratica (per prendere in considerazione solamente la tradizione di stampa Occidentale). La cosa interessante da osservare è l’elaborazione delle convenzioni espressive; nella televisione interattiva e nei giochi io vedo molte convenzioni che potrebbero portare a significative forme di Storytelling che avranno forse la stessa forza della letteratura.
Per esempio i giochi sono sempre stati prevalentemente dominati dal tipo «spara-spara» o di combattimento. Ma recentemente un tipo diverso di gioco sta diventando molto diffuso. Il gioco più diffuso del mondo è The Sims di Will Wrights prodotto dalla Maxis. Questo gioco non ha niente a che fare con armi e combattimenti, il suo scopo è quello di gestire una casa borghese. E’ la traduzione di una storia del diciannovesimo secolo in formato interattivo.
Tra le cose che avvengono nel gioco quella che preferisco è quando i personaggi si scambiano grattatine sulla schiena o si fanno massaggi. Quando questo avviene tra due personaggi la loro relazione ne trae giovamento ed entrambi sono più felici. E’ soltanto una piccola cosa ma credo sia un buon esempio di come gli ideatori di giochi stiano riflettendo in termini di trame familiari e di come stiano inventando strumenti diversi con cui descrivere il mondo.
Nell’ambito della televisione interattiva, sono molto affascinata dalla possibilità di realizzare documentari che possano essere seguiti seguendo percorsi differenti. Questa è la via ideale per raccontare storie di società in conflitto e attraverso molteplici punti di vista si riescono a comprendere più compiutamente le vicende. E’ un modo di pensare di cui abbiamo bisogno più che mai nel mondo, e la Tv è un mezzo di comunicazione che può insegnarci ad espandere il circolo di empatia in questa direzione.


Recentemente sono stato a Mantova: ho visitato palazzo Tè e una delle stanze che ha più colpito la mia immaginazione è stata La stanza dei giganti . Mi sorprende pensare a l’effetto che questa stanza dalle pareti interamente dipinte potevano avere su di un uomo del sedicesimo secolo. Più recentemente, alla fine del diciannovesimo secolo un gruppetto fortunato di spettatori vide L’arrivo del treno alla stazione dei fratelli Lumiére e la loro reazione fu quella di scappare spaventati dalla sala, colpiti dal realismo estremo della pellicola.
Qualcosa di simile mi sembra stia accadendo anche ora. Che ne pensa?

Si, questi sono esempi molto appropriati per testimoniare la forza immersiva delle nuove realtà. Dei miei colleghi alla Georgia Tech stanno facendo degli esperimenti con la realtà virtuale e con la realtà accresciuta o (super realtà-iperrealtà), spazi artificiali in cui si può entrare ed essere circondati da figure spettrali (in maniera non molto diversa dai giganti manieristi di Palazzo Tè) che sono sovrapposti al mondo attuale.
Ogni nuovo mezzo di rappresentazione ha il potere di spaventarci perché ci ricorda di come siamo facilmente imbrogliabili, come cadiamo facilmente in errori trasformando un illusione nella realtà. Ci confonde anche con la forza inaspettata che è la nostra stessa forza: come è possibile che l’uomo possa creare qualcosa che imita il mondo in maniera così sconvolgente? E’ un’esperienza paradossale. Come spettatori siamo umiliati (ridimensionati) ma come esseri umani siamo esaltati dalla nostra forza creativa.
Parte della disapprovazione e dello scetticismo verso i nuovi media vengono fuori proprio da questo profondo e radicato scetticismo nei confronti delle nostre facoltà creative.


Nel suo libro(*) si legge: «la fotografia tridimensionale, collocandomi in uno spazio virtuale mi ha acceso il desiderio di muovermi dentro di essa autonomamente, di andare via dalla macchina fotografica e scoprire il mondo da sola»; questa frase, come un’epifania, evidenzia il problema del confine tra il guardare e il giocare con i prodotti multimediali, nel momento in cui gli spettatori diventano una parte attiva della storia. Come cambia il ruolo degli spettatori-lettori?

Questa domanda tocca un punto cruciale! Come designers questa è una delle sfide più importanti che affrontiamo. I mezzi di comunicazione digitali sono luoghi della partecipazione, e non possiamo più pensare a un «pubblico» (ascoltatori nel senso originario greco) o a «spettatori». Invece siamo obbligati a pensare a degli «interactors» (soggetti interattivi), attivi partecipanti del mondo dell’immaginazione (del mondo immaginato). E più coinvolgente creiamo questo mondo, più gli interactors vorranno mettersi alla prova. Un mondo ben congegnato invita a questa partecipazione. L’ideatore di giochi che capisce questa relazione riesce a «programmare» sia il computer, sia il giocatore (interactor).
I giochi di ruolo on-line forniscono un buon esempio per questo nuovo rapporto. Quello di cui ho accennato sopra, «The Sims», è stato recentemente trasposto anche in versione on-line, dove è possibile giocare con i personaggi da te creati. E’ un mondo molto complicato, e i partecipanti devono mettere alla prova la propria capacità di interazione reciproca. Cosa gli permette di fare questo? La scenografia e l’ambientazione per la maggior parte. Se porti un personaggio dentro un salotto virtuale dove c’è della musica, essi potranno ballare. E non soltanto il menù del personaggio includerà la possibilità di ballare, ma il giocatore stesso penserà a ballare e cercherà l’opzione giusta nel menù. [n.d.c. i personaggi del gioco permettono al giocatore di interagire con essi attraverso un menù dinamico, che cambia a secondo delle situazioni in atto. Ad esempio se stai flirtando con qualcuno e l’affinità tra i due personaggi raggiunge livelli alti allora nel menù comparirà l’opzione prova a baciarla/o o addirittura chiedile/gli di sposarti, allo stesso modo se scoppia un incendio avrai la possibilità di chiamare i pompieri e così via.] Non c’è bisogno di dire anticipatamente al giocatore che potrebbe ballare. L’ambiente coinvolgente determina i comportamenti.
Se lasci agli interactor comprare dei fiori e un anello di fidanzamento essi, in queste condizioni, inizieranno a seguire il copione del corteggiamento. Se invece gli permetti di comprare delle pistole, essi rappresenteranno rapine e omicidi.
L’interactor osserva sempre il contesto intorno per degli indizi rivelatori delle possibilità presenti nel mondo.


Gli ipertesti letterari sono una delle possibilità offerte ai nuovi (e vecchi) scrittori dai computer, anche se il concetto di ipertestualità è qualcosa di tutt’altro che nuovo. Mi piacerebbe sapere da lei quali caratteristiche considera proprie dell’ipertesto e se negli ultimi anni ci sono stati cambiamenti sostanziali.

La prima ondata di ipertesi erano concentrati nel sovvertire l’aspettativa dell’interactor, sciogliendo la logica del testo lineare. Il problema di molti di essi era che non creavano una più alta coerenza e così la gente si stancò. I primi scrittori di ipertesti erano più poeti che narratori, erano più interessati alla risonanza della lingua che alla creazione di sequenze di causa e effetto.
Una cosa che credo possa aiutare ad a fare sviluppare storytelling più coerenti in formati digitali è avvicinarsi a dei modelli strutturali più chiari che la mera sovversione della linearità. Il modello di rizoma di Deleuze e Guattari era un certo modello, ma un campo di patate non è particolarmente espressiva come organizzazione. Le sue qualità più grandi erano negative: la mancanza di una fine o di un inizio per esempio.
L’ho trovato di aiuto per pensare in termini di multisequenza e multiforma. La storia multisequenza è composta da differenti sequenze coerenti ed è ricostruita ricalcando solo le sequenze multiple. Non è questione di rendere qualche cosa non-sequenziale, distinto dal libro sequenziale; invece possiamo pensare a libri tradizionali e film come mono-sequenziali, e ad uno Storytelling come indirizzato verso norme multisequenziali.
Una storia multiforma è una come quella di Lola Corre dove la stessa storia è raccontata più volte con arrangiamenti diversi degli stessi elementi. (Potrebbe essere allo stesso modo multi-sequenziale).
Nella storia multi-sequenza il mondo è fisso e i percorsi al suo interno molteplici. Nella storia multi-forma ci sono molti modi con cui il mondo può essere ricostruito. Entrambe queste forme riflettono la maniera con cui vediamo la nostra vita e la comune esperienza rivelata nel ventunesimo secolo. Vediamo la maniera in cui uno stesso evento può essere osservato differentemente a secondo di chi partecipa all’evento, il criminale, la vittima, la polizia; la moglie e il marito; il paziente e il dottore. Vediamo anche i molteplici modi con cui una sequenza di eventi può essere spiegato, i molteplici futuri impliciti in ogni singolo momento presente.


Vorrei passare per un momento attraverso l’ultimo libro di Marie-Laure Ryan, La narrazione come realtà virtuale. Crede che sia veramente possibile trovare un equilibrio tra immersione ed interattività? In altre parole crede sia possibile fare della narrativa elettronica e far nascere quel misto di emozione, esperienza e riflessione che è stato proprio della letteratura moderna?

Penso che Marie-Laure Ryan sia una delle scrittrici principali riguardo questa tensione. Sono d’accordo con la maggior parte delle sue analisi.
Credo che la via per riconciliare l’immersione e l’interattività sia nel pensarle, rinforzate reciprocamente, in quello che mi piace definire come attiva creazione della credulità. In ambienti digitali non facciamo soltanto quella mera «sospensione dell’incredulità» come Coleridge ha appropriatamente definito l’esperienza letteraria. Mettiamo alla prova la nostra credulità, e se la dinamica del mondo agisce in maniera coerente allora la nostra credulità ne è rinforzata. Se posso interagire con un personaggio elettronico quel personaggio sarà più presente.


Che rapporto immagina possa istaurarsi in futuro tra la letteratura tradizionale e la narrativa digitale? Pensa che stringeranno un legame di amicizia, come è già successo tra il cinema e la letteratura o che costituiranno domini separati?

Penso che il computer sia un mezzo di rappresentazione come il cinema e la stampa e che stia ricorrendo ai mezzi di comunicazione precedenti allo stesso modo di come hanno fatto cinema e stampa. Allo stesso tempo forme contemporanee si servono l’uno dell’altro. Racconti e film stanno diventando sempre più come delle simulazioni, proprio come gli ambienti interattivi stanno assimilando strutture della storia più complesse.


Come ultima domanda le chiedo di mostrarci la direzione verso cui si stanno muovendo le sue ricerche e che genere di esperimenti porta avanti nella sua scuola.

Alla Georgia Tech, nella scuola di letteratura, comunicazione e cultura ci aspettiamo di poter annunciare nell’immediato futuro un nuovo corso specialistico (Ph.D) in Media Digitale, pensato per produrre alunni che pratichino e teorizzino i nuovi generi digitali. Quindi una delle cose a cui sono molto interessata è la formulazione di questa nuova disciplina. Sto scrivendo un manuale intitolato Inventing the medium che svilupperà le connessioni tra i nuovi esercizi di scrittura e i più vecchi media e articolerà le specifiche possibilità offerte dal computer per ampliare l’espressione e la comprensione dell’uomo.
Il mio lavoro, Hamlet on the Holodeck, è stato criticato in maniera interessante dai teorici del gioco scandinavi per aver imposto la retorica del racconto nel gioco. Penso che interpretino in maniera errata il racconto, ma hanno ragione nel credere che i giochi conservano il proprio vocabolario critico. Siccome non ho visto molto di questo vocabolario emergere da coloro che hanno criticato l’analisi narrativa, ho tentato di costruire un formalismo del gioco. Insieme ad un gruppo di miei studenti abbiamo fatto un’indagine tra studiosi e tra alcuni dei più importanti game designer chiedendogli quale fosse per loro il gioco più importante e le ragioni di questa scelta. Questi hanno mostrato lo stesso desiderio degli studiosi di un vocabolario che gli permettesse di parlare di ciò che fanno. Abbiamo poi, analizzato i risultati per identificare le peculiarità dei giochi che attraversano trasversalmente tutti i generi, e che non avessero niente a che fare con la narrazione di per sé.
Un altro ambito della mia ricerca è focalizzato sulla TV interattiva. Sono molto attratta dalla promessa delle tecnologie digitali di estendere la portata e la profondità dello storytelling.

 

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Giugno-dicembre 2002, n. 1-2