Gabriele Veggetti
Alla ricerca di instabili equilibri.
Mobilità, spaesamento e crisi d'identità nel cinema di Silvio Soldini

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Sommario
I.
II.
III.
Ricerca di identità
Lungometraggi e cortometraggi
Raffronti


 

«Quando non può lottare contro il vento ed il mare per seguire la sua rotta, il veliero ha due possibilità: l'andatura di cappa (il fiocco a collo e la barra sottovento) che lo fa andare alla deriva, e la fuga davanti alla tempesta con il mare in poppa e un minimo di tela. La fuga è spesso, quando si è lontani dalla costa, il solo modo di salvare barca ed equipaggio. E in più permette di scoprire rive sconosciute che spuntano all'orizzonte delle acque tornate calme. Rive sconosciute che saranno per sempre ignorate da coloro che hanno l'illusoria fortuna di poter seguire la rotta dei carghi e delle petroliere, la rotta senza imprevisti imposta dalle compagnie di navigazione.
Forse conoscete quella barca che si chiama Desiderio».
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§ II. Lungometraggi e cortometraggi

I. Ricerca di identità

C'è qualcosa che accomuna gran parte dei personaggi dei film di Silvio Soldini, una sorta di perdita dell'orizzonte comune, uno spaesamento o, per meglio dire, una confusa consapevolezza di abitare un paese che non c'è, disancorato oramai dalle grandi tensioni ideali e politiche che hanno animato la vita sociale italiana del secondo dopoguerra e del boom economico.
Quello della disunità dell'Italia e della crisi di identità come forza centrifuga in grado di portare alla fuga e alla ricerca di nuovi equilibri è un tema che, in maniere diverse, è stato affrontato da molti registi italiani degli ultimi due decenni e, come ricorda Gian Piero Brunetta nel suo interessante saggio La ricerca dell'identità nel cinema italiano del dopoguerra: «Alla maggioranza dei registi di più generazioni da Fellini a Tornatore, da Scola a Mazzacurati, da Rosi a Salvatores, da Amelio a Soldini, l'Italia si presenta sempre più come un paese "senza": senza presente, senza spinta per il futuro, senza paesaggio, senza identità, senza capacità comunicativa, senza capacità di rinnovarsi, senza veri elementi di riconoscibilità. Un paese inafferrabile, incapace di ricreare interessi comuni, avviato verso un inarrestabile e crescente processo di degrado ideale, ambientale, umano, morale, economico».2
Ripensare alla mobilità irrequieta e talvolta inconcludente di molti personaggi di Soldini, richiama alla mente il protagonista di una pièce teatrale di diversi anni fa di un autore come Mario Giorgi, da sempre interessato all'inquietudine generata dallo spaesamento e dalla perdita dei riferimenti culturali e sociali: in Polo Est/Ost pole, il protagonista, un altoatesino che parla una strana lingua, mezza italiana, mezza tedesca e ladina, quando la propria confusione giunge a un punto di non ritorno e di totale incapacità di percepire la realtà circostante, parte alla ricerca di un ipotetico polo est.3
Allo stesso modo cercano il proprio polo est Pietro e Pabe in Un'anima divisa in due, così come Rosalba in Pane e tulipani o Le acrobate Maria, Elena e Teresa che da Taranto e Treviso cercano un punto di riferimento provvisorio, costituito dall'incontaminato candore delle falde del Monte Bianco, o ancora come Veronica di L'aria serena dell'Ovest che ricerca nuova vita ed equilibrio come infermiera in un centro termale di un paesino francese.
In L'aria serena dell'Ovest, al di là della "fuga" in Francia di Veronica, i personaggi che compongono questo curioso puzzle policentrico milanese vivono la propria solitudine e le proprie inquietudini in un motus continuo e nervoso rappresentato da una mobilità irrequieta (a piedi, in auto, in treno o in metro). Un viaggiare circolare inconcludente, dove Milano rappresenta sia la partenza, sia l'arrivo, sia lo scenario del viaggio. Lo spaesamento, vissuto dai personaggi di questo primo lungometraggio che ha segnalato Soldini all'attenzione del pubblico europeo, è reso filmicamente mediante un andamento particolarmente frammentato del montaggio, un susseguirsi di inquadrature, specialmente nella prima parte del film, che riportano particolari e dettagli del paesaggio milanese, raramente assolato, spesso ripreso nella luce piatta e «lattiginosa» dell'alba. Questa frammentarietà visiva e, talvolta, narrativa, sembra evidenziare l'incapacità dei personaggi di percepire un paesaggio integro e armonico, ed è sottolineata, tra l'altro, dagli interni spesso moderni e disadorni, quasi asettici. In questo contesto scenografico i personaggi, sia all'interno di un rapporto di coppia sia singolarmente, rivelano un senso profondo di solitudine, nella meccanicità e freddezza dei rapporti a due e in un tessuto sociale ed economico fatto di scambi, tanto materiali che simbolici, dove i protagonisti il più delle volte non si incontrano, tutt'al più si incrociano, senza in realtà riconoscere la rete di circostanze che, sottilmente ma inesorabilmente, li unisce.
Soldini riesce a tenere coeso un quadro narrativo così articolato anche grazie a un sapiente gioco di raccordi, di sovrapposizioni tanto sonore che visive, in grado di denotare una tramatura e una connessione tra paesaggio, personaggi ed eventi. La radio o la televisione, in taluni momenti accese, sono in grado di fornire, con frammenti sonori e talvolta visivi, lo scenario geopolitico mondiale in rapida trasformazione in quei giorni del 1989, in cui accadde Tien-An-Men e la caduta del muro di Berlino (il film è del 1990); avvenimenti che, tuttavia, non sembrano toccare la vita dei personaggi, compresi e assorbiti dalle microvicende personali, contribuendo forse ad aumentare in loro il disancoramento da una realtà politica incomprensibile e inaspettata.

 

§ III. Raffronti Torna al sommario dell'articolo

II. Lungometraggi e cortometraggi

Mobilità, spaesamento e una faticosa ricerca di un'identità culturale e di un'integrazione tra culture contigue ma difficilmente armonizzabili, sono i temi su cui verte un film complesso e volutamente irrisolto come Un'anima divisa in due.
Il viaggio di Pietro, responsabile della sicurezza in un grande magazzino, e di Pabe, giovane rom, ha i connotati di un'anabasi all'interno di un paese dell'utopia, dove le distanze si possono annullare in nome dell'amore e della reciproca comprensione. Soldini evita qui i rischi moralistici dell'happy end, lasciando aperto un finale in cui Pabe, che ha cambiato il suo nome in Rosy, compie un viaggio a ritroso per ritrovare la propria identità rom. Anche qui come in tutti i suoi film, con l'unica eccezione di Pane e tulipani, Soldini non chiude le sue storie, confinando invece i suoi personaggi in uno stato di sospensione non risolta, come se una seconda storia, che lui non racconta, riportasse i suoi eroi in procinto di nuove partenze, alla ricerca di un'«isola» materiale o mentale, di una terra sulla quale finalmente riposare.
Solo Pane e tulipani rivela un finale in forma di approdo felice, ma Pane e tulipani è in definitiva una commedia e, come tale, visita il terreno dell'irrealtà e del desiderio, o meglio ancora della favola, dove principi e principesse possono coronare il proprio sogno d'amore: la balera dell'ultima sequenza del film è un ritorno ad un passato, tanto musicale che ambientale, una sorta di regressione onirica verso l'infanzia e la purezza.
Ma, ritornando a Un'anima divisa in due, è il caso di sottolineare il processo evolutivo dei due personaggi, la mimesi e la metamorfosi che entrambi i soggetti compiono per comprendere l'altro e accettarne la diversità. Pietro, presentato nella prima parte del film come un piccolo borghese, scontento e solo, ai limiti della disperazione, vestito di abiti grigi ineleganti e strettini, dopo la fuga con Pabe trasforma la sua barba in vistosi baffoni e i suoi vestiti borghesi sono sostituiti da giubbotti e bluse di aspetto più giovanile e trasandato. Tuttavia questa piccola metamorfosi si rivela più esteriore che sostanziale se raffrontata al tentativo di mimesi operato da Pabe: il nuovo taglio di capelli, l'abbandono dell'estetica fiorata del vestiario rom e, soprattutto, il traumatico tentativo di lavorare in fabbrica prima e come inserviente in un hotel in un secondo momento, denota un travaglio interiore generato da una ricerca di annullamento della propria identità culturale.
Milano, la città di Soldini, è il punto di partenza del viaggio che porterà i due giovani prima a Livorno poi ad Ancona, da un lato all'altro di un'Italia omologata nei suoi comportamenti nei confronti del diverso. Ancona sarà in grado di rappresentare un approdo momentaneo solo grazie alla presenza di Savino, il padre della precedente compagna di Pietro che, con la sua disponibilità e dolcezza, contribuisce a creare un ambiente rassicurante attorno ai due fuggitivi. Con la morte di Savino, l'ambiente esterno e l'ostilità latente prenderà di nuovo il sopravvento, facendo prevalere la diversità sui sentimenti e riportando all'interno della coppia la distanza lacerante tra due realtà non facilmente conciliabili.
Può rivelarsi di qualche interesse raffrontare, per sommi capi, la storia di Un'anima divisa in due con quella di Gadjo Dilo, lo straniero pazzo (1998) del regista gitano Tony Gatlif, dove un giovane musicologo francese, Stéphane, tenta di integrarsi in una comunità rom della romania. L'amore e la passione per la cultura e la musica rom spinge il giovane a rompere i propri legami con la sua cultura gadja, prendendo gli abiti e i modi del vivere zingaro. Emergono dal raffronto interessanti simmetrie tra il viaggio di Pabe e quello di Stéphane: in entrambi i casi l'abbandono della propria identità non corrisponde alla piena accettazione da parte del mondo culturale che dovrebbe accoglierli nel proprio seno, così come l'ingresso in un altro ambito lascia emergere inconciliabili sopravvivenze del proprio vissuto. Stéphane, in un epilogo dai toni drammatici, taglia, con un preciso rituale zingaro, i legami con il proprio passato di gadja, relegandolo in un limbo difficilmente abitabile e facendo di sé una sorta di apolide culturale. Sia Pabe sia Stéphane si ritrovano in una terra di nessuno, hanno rotto i propri legami con il passato, senza ritrovare un ambiente in grado di far convivere, contenere e comprendere la diversità al proprio interno, se non in termini di marginalità.
Soldini, regista gadja, e Gatlif, regista rom, giungono per vie opposte a epiloghi in qualche modo assimilabili: entrambi devono arrendersi nel constatare una realtà che, nella maggior parte dei casi, trova difficile il confronto, mancando quasi del tutto i presupposti per una reciproca accettazione di una pari dignità culturale.
Il rapporto ambivalente e difficile tra le due culture emerge dalle parole dello stesso Soldini, che mutuando categorie pasoliniane, afferma in un'intervista: «Oggi abbiamo più o meno tutti della terra bruciata alle spalle, e su questa terra bruciata si innesta una pseudocultura che annulla ogni differenza. Durante la preparazione di Un'anima divisa in due avevo fatto una piccola indagine nella comunità rom […]. Anche tra loro sta andando tutto a catafascio, sia per i rapporti forzati con il nostro mondo, che avvengono prevalentemente tra le frange più periferiche della nostra società - quindi malavita, droga ecc. - sia perché i loro bambini oggi sono molto più percettivi rispetto a ciò che imparano dalla televisione piuttosto che dai nonni».4
Una costante riscontrabile nel cinema di Soldini è la presenza di personaggi che vivono una realtà di sradicamento culturale, in conseguenza di un viaggio o comunque di un transito, talvolta doloroso, come per Pabe, da un mondo a un altro. Per lo più si tratta di personalità che abitano un presente contraddittorio disseminato da tracce del proprio passato vissuto altrove, come Anita, la vecchia Bulgara solitaria di Le acrobate. La sua casa a Treviso è un museo vivente e incartapecorito dei suoi ricordi, un antro polveroso saturo di oggetti, carte, frammenti di un vissuto e di un «altrove» che ha dovuto lasciare molti anni prima.
Anche la casa di Fernando, il cameriere islandese di Pane e tulipani che ospita la fuggiasca Rosalba a Venezia, è disseminata di oggetti fuori dal tempo, che rimandano a un senso di atemporalità più che di estraneità. Come se la casa di Fernando fosse rimasta ferma al giorno del suo arrivo in Italia quasi trent'anni prima.
È interessante notare come Soldini fa esprimere linguisticamente questi tre personaggi (Pabe, Anita e Fernando): Pabe e Anita parlano un italiano corretto, ma con espressioni dure, nette, quasi sincopate, un italiano frettoloso, talvolta sgarbato che rivela quasi un'urgenza di farsi capire rapidamente, che aggredisce verbalmente prima che gli altri aggrediscano. Altro discorso per Fernando: il suo italiano è garbato, il suo incedere linguistico è pacato, in grado di sottolineare e denotare il suo carattere timido, modesto ma elegante, ben definito da Adriano Piccardi: «Fernando parla un italiano smaterializzato, liberato dalla forza di gravità esercitata dall'uso corrente, un italiano "acrobatico", sospeso tra comunicazione e un inattuale progetto estetico. […] Attraverso Fernando irrompe nel film la parola: il rilievo che le forme desuete del suo eloquio acquistano sullo sfondo sonoro della quotidianità, sbiadito e prevedibile, restituiscono d'un colpo tutte le potenzialità di stupore, d'incanto, ma anche di conoscenza e d'amore insite ancora nell'atto di una comunicazione verbale».5
L'amarezza di fondo del carattere di Fernando è data forse anche dal suo constatare uno scarto evidente tra la realtà triviale che lo circonda e la sua immagine dell'Italia rivelata dal suo italiano colto e fuori dal tempo.
Le acrobate rappresenta probabilmente, nella filmografia di Soldini, il tentativo più ambizioso di dare forma ed equilibrio allo spaesamento evidente dei suoi personaggi. Elena, che lavora come chimica in una fabbrica di cosmetici a Treviso, è alla ricerca di un calore d'ambiente che manca negli spazi, sia lavorativi sia personali, da lei abitati, percepisce e paventa dolorosamente un'aridità circostante che sembra prosciugarla. Le fa da contraltare la vita di Maria, commessa in un supermercato di Taranto, impegnata in una lotta quotidiana per conciliare una vita coniugale quasi disastrosa con i suoi compiti di madre nei confronti di Teresa, una bambina sensibile che risente particolarmente del disagio evidente dei genitori.
Treviso è dipinta da Soldini come una città ordinata, linda e senza sole; Taranto come una metropoli disordinata del sud, assolata e caotica. Queste tre figure femminili (Elena, Maria e Teresa) entreranno in contatto per una serie di circostanze legate alla figura di Anita, la vecchia Bulgara che vive a Treviso e che muore improvvisamente.
Qui il compito di Soldini si fa arduo, ma il suo gioco regge nel costruire una trama di piccoli eventi comunque legati al viaggio e al desiderio.
Treviso-Taranto sarà il primo viaggio compiuto da Elena in aereo, poi Taranto-Treviso, in treno, da parte di Maria e Teresa; quindi le tre donne da Treviso viaggeranno in auto fino alle pendici del Monte Bianco, spinte dal desiderio di Teresa di vedere il monte più alto d'Europa. Giunte sul rifugio alpino sul Monte Bianco, lo sguardo di Soldini si allarga, la luce si fa in taluni momenti quasi accecante, il paesaggio, maestoso e inebriante, regala alle tre giovani donne un momento di vera serenità, di pura evasione, seppure provvisoria.
Questa attenzione per il viaggio viene ben sottolineata dallo stesso Soldini in un'intervista raccolta nella bella monografia a lui dedicata in occasione di una recente antologica dei suoi film a Ferrara: «è uno dei temi che sono sempre stati presenti in modo naturale nel mio cinema: personaggi che vivono in una certa situazione come in una gabbia, di cui vogliono rompere le sbarre per evadere. Trovo che nel cinema sia molto più facile rappresentare efficacemente per mezzo di riferimenti geografici il passaggio dallo spazio in cui si è cresciuti a un altro verso il quale si cerca di evadere. Magari, in realtà, senza andare in nessun posto. Credo che l'azione di spostarsi, il viaggio per arrivare a una realtà diversa dove ricostruire o costruire una vita distaccandosi dal passato sia fondamentale per marcare l'idea del cambiamento. Dietro ci sta l'idea della rottura, che potrebbe essere rappresentata anche con il semplice passaggio da una casa ad un'altra, non necessariamente da una città ad un'altra, ma più la rottura è forte e più occorre rappresentarla con un passaggio "forte"».6

 

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III. Raffronti

Il tema del viaggio e la fuga verso realtà lontane, come ricordato in apertura nel saggio di Brunetta,7 è frequentemente presente nel cinema italiano degli ultimi decenni, come una sorta di riflesso dello spaesamento comportato dai rapidi rivolgimenti del quadro geopolitico europeo. Vale la pena di ricordare brevemente alcuni esempi, in qualche modo in linea con la visione irrequieta e «migrante» di Soldini. In Il toro (1994) di Carlo Mazzacurati, due allevatori rubano un toro, particolarmente pregiato, per rivenderlo in un paese dell'Est. Qui si tratta di un road-movie, dove il viaggio è una tangente verso l'indefinito e l'incerto, una fuga senza requie in territori senza pace. La fuga diventa drammatica nel bel film di Gianni Amelio Lamerica (1994): l'assistente di un faccendiere italiano di pochi scrupoli viene lasciato solo e senza mezzi in Albania e si scontra con la realtà inquietante di un paese smarrito, dove migliaia di persone si spostano da un punto all'altro per fuggire dalla propria situazione di miseria; il giovane italiano dovrà suo malgrado condividere la sorte degli albanesi, mimetizzandosi tra coloro che cercano di entrare in Italia, stipati all'inverosimile in una vecchia carretta del mare. Spaesamento e sradicamento sono infine il tema di Vesna va veloce (1996) di Mazzacurati, dove una giovane cecoslovacca, clandestina in Italia, visita luoghi feroci e dolenti, nella sua corsa verso un approdo, verso una terra promessa che non è in grado di mantenere nessuna promessa.
Prima di concludere non si può non sottolineare alcune analogie tanto tematiche che formali del cinema di Soldini con due importanti autori europei come Krzysztof Kieslowski e Theo Anghelopulos.
Dal punto di vista delle scelte tematiche il regista greco Anghelopulos rivela interessanti affinità con Soldini, pur differendo sostanzialmente nelle scelte linguistiche. La particolarità dei lunghi piani sequenza del regista greco trova in Soldini una ben diversa sintassi filmica, costituita da un montaggio e da una ricerca di inquadrature in grado di restituire visivamente la frammentarietà delle storie e la complessità dei personaggi. Se pensiamo a film come Paesaggio nella nebbia (1988), Lo sguardo di Ulisse (1995) e L'Eternità e un giorno (1998), il tema del viaggio, dello spaesamento, dello sradicamento, con riflessi dolenti e a volte dolorosi, trova qualcosa di più che una semplice analogia con il cinema di Soldini, il cui sguardo tuttavia si rivela più lieve e arioso se confrontato con il grande regista ellenico. Ma è forse Kieslowski il regista al quale Soldini più direttamente si richiama, per sua stessa ammissione,8 per l'attenzione data al caso, al destino, per la costruzione raffinata e cercata di una rete impalpabile di circostanze, in grado di legare luoghi e persone. Una sorta di magia che, nonostante le avversità della vita, è in grado di trarre a riva, magari ad una riva molto lontana geograficamente dall'approdo sognato, i personaggi di una «commedia», il cui senso spesso sfugge sia ai protagonisti sia al piccolo demiurgo filmico che tira e crea fili invisibili. Per entrambi i registi si tratta di un cinema di idee con forti tratti morali, attento a sfuggire alle secche del moralismo e agli scogli dei luoghi comuni.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2001

Dicembre 2001, n. 2


 
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