Carlo Schiavo
Identità italiana e identità regionale tra letteratura e cinema

Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni Pieno schermo Torna all'indice del seminario


Sommario
I. Introduzione
II. Fuori e dentro il borgo / Radiofreccia
III. Comici spaventati guerrieri / Musica per vecchi animali
IV. Il poema dei lunatici / La voce della luna
V. Conclusioni


§ II. Fuori e dentro il borgo / Radiofreccia

I. Introduzione

Il concetto di identità italiana è sempre stato, e rimane tuttora, sfuggente ed inafferrabile. Entro questa vera e propria costante storica, ci sembra che il panorama attuale presenti una sorta di doppio movimento. Appare innegabile, da una parte, il raggiungimento di una certa uniformità, il trionfo di una fondamentale medietà che ha conosciuto la sua definitiva consacrazione a partire dagli anni Ottanta. Allo stesso tempo, però, stiamo assistendo ad un ritorno e ad una riscoperta di realtà specifiche e particolari. Tenteremo allora, in questa sede, una ricognizione di matrice geografica sull'identità regionale dell'Emilia-Romagna. Più precisamente, cercheremo di vedere, senza alcuna pretesa di esaustività, come questa identità si sia manifestata attraverso i libri e i film dell'ultimo ventennio, e in maniera particolare attraverso quelle pellicole che sono state tratte da testi narrativi. Organizzeremo la discussione secondo l'età anagrafica dei registi, per motivi che speriamo si chiariranno in seguito.

 

§ III. Comici spaventati guerrieri / Musica per vecchi animali Torna al sommario dell'articolo

II. Fuori e dentro il borgo / Radiofreccia

Apriamo questa breve rassegna ricordando la doppia tensione che fu già del correggese Tondelli, sospeso tra la realtà locale e rurale dell'Emilia-Romagna e gli ampi spazi delle metropoli americane. Tale dualità si connette ad un doppio percorso: dalla città alla campagna e dalla campagna alla città. E se è vero che questa tensione si è manifestata anche in altre zone d'Italia, rimane però peculiare di poche regioni oltre all'Emilia il fatto che «la campagna arriva fino al cuore delle città».1 A questo proposito, merita almeno un veloce accenno l'immagine di Bologna che il parmigiano Carlo Lucarelli tratteggia in Almost Blue dove appunto la città appare «una cosa grande che va da Parma fino a Cattolica [...] Una strana metropoli di duemila chilometri quadrati e due milioni di abitanti, che [...] non ha un vero centro ma una periferia diffusa che si chiama Ferrara, Imola, Ravenna o la Riviera».2 La celebre formula gucciniana «tra la via Emilia e il West» sembra, insomma, un indiscutibile punto di riferimento per alcuni nuovi autori che in vario modo testimoniano l'attuale condizione in cui la cultura locale s'incontra con quella globale. L'apparizione dello stesso Guccini nel film Radiofreccia di Luciano Ligabue, liberamente tratto dal libro Fuori e dentro il borgo,3 assume in tal senso una valenza simbolica. Ligabue, del resto, chiama «Ameribassa» la particolare realtà geografico-culturale in cui ambienta le sue storie (cantate, scritte o filmate), e in un racconto del libro, quasi a confermare l'origine di questa immagine, riporta per intero il finale di Autobhan4 dopo aver reso un omaggio letterario al suo compaesano «Vicky».
Ligabue, tuttavia, oltre a non possedere l'abilità e la sapienza narrative di Tondelli, scrive circa quindici anni più tardi: cosicché il suo borgo sembra propendere più decisamente verso un'identità generalizzata. Poche e per lo più asfittiche risultano le impronte di deciso localismo. Tanto che la sua opera potrebbe quasi servire a dimostrare il raggiungimento di un profilo comune da parte di una determinata tipologia di italiani. Un esempio per tutti potrebbe essere il racconto E figli maschi, dove le millantate «nozze all'emiliana», con il loro «trionfo di riti incrollabilmente uguali a se stessi», si traducono poi nella descrizione di una serie di situazioni per lo più comuni a riti e comportamenti di molti altri luoghi della Penisola. Allo stesso modo, il Pork party (e si noti già la significatività del titolo in inglese) potrebbe essere visto come il realizzarsi della malinconica profezia che Tondelli faceva in Alba di sangue.5 Dopo aver descritto lo scannamento del maiale nella campagna del reggiano secondo un'antica tradizione immutata nel tempo, egli infatti così concludeva: «... tutto questo se ne andrà. Anche questo rito scomparirà, assorbito e distrutto dall'inesorabile sviluppo». Ligabue, difatti, si limita a raccontarci di un'occasione in cui i prodotti del maiale vengono semplicemente consumati. Eppure, resta in Ligabue, incontrovertibile, il dato forse più puro della tradizione emiliano-romagnola: la facilità e il piacere di raccontare, e la tendenza ed il gusto di mostrare (e di mostrarsi) mentre lo si sta facendo. («In Emilia-Romagna dominano la favola, la leggenda popolare, il racconto epico e seduttivo, con tutti gli abbellimenti e le esagerazioni delle menzogne, delle memorie rielaborate e delle invenzioni annesse»).6 Oltre alla strutturazione stessa del libro (una raccolta di storie), in più di un'occasione si parla proprio del narrare e della soddisfazione che produce. Alcuni brani, poi, similmente alla prima maniera del sondriese ma emiliano d'adozione Gianni Celati (e si potrebbe risalire anche più indietro, fino a Giulio Cesare Croce), si configurano quali autentiche imprese epico-cavalleresche da parte di personaggi buffi e un po' stralunati, come il simpatico Bonanza in Bonanza ai tempi del kung fu; oppure, quando il soggetto diviene lo stesso cantante, subentra la dimensione epico-eroica dei concerti e dei relativi viaggi.
Anche nel film viene mantenuto il tratto caratteristico del narrare, che prende forma innanzitutto nella presentazione della vicenda. La storia, infatti, si manifesta inizialmente al grado secondo: un personaggio racconta le vicende accadute diciotto anni prima a lui e ai suoi amici del borgo. Gli eventi, inoltre, vengono narrati alla radio, un mezzo che in accordo con il pensiero di alcuni studiosi del fenomeno, si configura quale produttore di una «seconda oralità»7 (e il dato risulta tanto più significativo in quanto, ipotizziamo, è improbabile che Ligabue lo utilizzi con consapevolezza: esso parrebbe insomma derivare dalle stesse citate qualità emiliano-romagnole). Eppure, la voce della radio non si fa troppo sentire, e il racconto assume, in alcuni tratti in modo pieno, una propria autonomia diegetica al grado primo. In tale direzione, interviene poi anche il raggiungimento di una buona coesione dei vari racconti ridotti all'unità filmica. L'emiliano-romagnolità della qualità del narrare, allora, si dispiega e si manifesta più compiutamente nelle ridotte misure delle short story del libro, mentre la cornice unificante del film tende a eliminare la sua visibilità. In questo senso, il fondatore e speaker della radio è l'unico che tenti di far parlare i personaggi: riesce a convincere il protagonista Freccia a raccontare se stesso in trasmissione, ma fallisce nell'approccio comunicativo con lui e un altro amico in un locale. Le storie, insomma, sono assai più agite e vissute che non raccontate. Una sorte simile capita alla dimensione epica (eroica o buffa che sia), anch'essa risucchiata e appiattita in una medietà, che finisce col contraddistinguere il siffatto prodotto filmico. Radiofreccia, in definitiva, non sfugge dalla cosiddetta diffusa «carineria» della maggior parte delle pellicole nazionali dell'ultimo ventennio, in nome di una acquisita identità unitaria all'insegna del livellamento. Ci accorgiamo, inoltre, del peso che ha avuto l'influsso esterno e globalizzatore della cultura e della mitografia americane. Vero leitmotiv è, infatti, la musica, o meglio certo tipo di musica di provenienza statunitense (Radiofreccia costituisce un caso singolare e forse unico: la quota maggiore del budget di realizzazione è stata spesa per i diritti della colonna sonora non originale). La realtà culturale americana ha subito un processo di filtraggio nel (e dal) nostro retroterra, locale e nazionale, e ad esso si è amalgamata. I racconti più significativi, in tal senso, risultano Le strade blu dell'Ameribassa e Ho fatto un giro. Nel primo viene a formarsi una specie di affinità elettiva tra il modo d'essere di una particolare realtà emiliana (ma a questo punto potrebbe anche dirsi: italiana), e la significatività in qualche modo esistenziale del blues. Nel secondo, le tappe della formazione del bimbo-Ligabue nel borgo sono pressoché identiche a quelle dei bimbi della stessa estrazione sociale in ogni parte d'Italia.
Tornando solo per un attimo al già citato libro di Lucarelli, ci si può rendere conto di come questi dati non costituiscano un unicum. La quota di americanità sembra pure qui più che evidente. A parte la già vista realtà geografica, Almost Blue è denso di riferimenti alla cultura statunitense, a partire dal testo cui esplicitamente si riferisce (Il silenzio degli innocenti, e più il film che non il libro). Inoltre, i suoi tre personaggi principali sono caratterizzati, con intento anche diegetico, da una canzone o da un genere musicale, di lingua anglofona e di cultura americana. Il contesto locale, qui come in Ligabue, rimane forse nella presenza stessa della musica, visto che l'Emilia-Romagna è la «regione del Nord d'Italia più musicale in assoluto».8
Per quanto riguarda Radiofreccia vi è da fare un'ultima notazione, forse meno insignificante di quanto possa apparire, sul cast dei comprimari. Al valido comico teatrale Vito (bolognese) viene affidata la parte di un macchiettistico cameriere. Serena Grandi (bolognese anche lei) interpreta una madre, diciamo così, non troppo morigerata, sulla falsariga di altre parti pecorecce. Viene dunque da chiedersi se siano questi i ruoli, stereotipati, che la cultura ufficiale ha stabilito per alcuni attori/personaggi. Un Guccini in evidente disagio nei panni del personaggio di cui veste i panni (un barista) testimonia forse, anche al di là della propria volontà, il fatto che non a tutti sta bene tale stato di cose (se ci possiamo permettere questo appunto, tendente ad una marca psicologica e forse creditore di una più attenta e diversa analisi). Ricordando anche ciò che si è detto prima sul suo essere una sorta di simbolo, risulta significativo che Guccini abbia sì risentito della musica americana degli anni Cinquanta e Sessanta, ma l'abbia assai meglio metabolizzata e reimpastata con il background culturale della propria regione.9 Vent'anni dopo, per Ligabue, il pop-corn ha invece avuto, anche se non sempre, un sapore più intenso rispetto al Lambrusco.

 

§ IV. Il poema dei lunatici / La voce della luna Torna al sommario dell'articolo

III. Comici spaventati guerrieri / Musica per vecchi animali

Diverso è, quasi a conferma, il ruolo di Guccini in Musica per vecchi animali, come diversa è l'impostazione ideologica di Stefano Benni. Ma andiamo con ordine e partiamo di nuovo dal testo narrativo.
Comici spaventati guerrieri10 ha sullo sfondo una Bologna dai contorni vaghi e onirici. La città, inoltre, non viene mai nominata in maniera diretta. A ricondurci ad essa sono comunque due elementi piuttosto pregni di significazione: la maglietta rossoblù con cui il bambino Lupetto va a giocare a calcio, e le biciclette che accompagnano il tentativo d'impresa epico-eroica del protagonista Lucertola e del suo amico Astice. I colori della maglietta sono quelli della squadra di calcio del Bologna, e non si può allora non considerare la forte valenza di questo gioco quale veicolo di identità ed identificazione.11 Allo stesso modo, la bicicletta è una sorta di simbolo, cittadino e regionale, che ha caratterizzato con la sua presenza il paesaggio di numerose opere letterarie e filmiche (una per tutte, come caso esemplare, il film Bellezze in bicicletta di Campogalliani, del 1950). Sempre Guccini, con la sua attenzione al passato e alle tradizioni, dedica alle «cicclo» un intero capitolo di Vacca d'un cane;12 ancora più notevole, l'immagine energica o trafelata del Jack Frusciante interpretato da Stefano Accorsi (nel film di Enza Negroni ricavato dal libro di Brizzi), che macina chilometri pedalando su un simbolo vivente di quella cultura e di quella memoria che egli vorrebbe invece rifiutare e dimenticare, secondo una topica di questi anni.
In ogni caso, sembra esserci una precisa motivazione ideologico/narrativa per cui il nome di Bologna non viene mai reso esplicito, e tenteremo di prenderla in considerazione più avanti. Per il momento, importa vedere come Comici spaventati guerrieri ponga in gioco alcuni dei concetti chiave del paesaggio culturale emiliano-romagnolo. Per cominciare, la dicotomia sogno/realtà, ove per sogno s'intenda quello stato lunare e trasfigurante della coscienza che costituisce uno dei cardini della poetica del romagnolo Fellini. Nel libro di Benni il sogno acquista un potere cognitivo che sarebbe altrimenti negato alla realtà e nella realtà: Lucertola viene a capo dell'inghippo sognandone la risoluzione; mentre un altro personaggio, Lee, vive perennemente sospeso tra lo stato onirico e quello reale, i quali fluiscono di continuo l'uno nell'altro, e in lui divengono anzi delle vere e proprie categorie ontologiche. Tanto che la loro dicotomia tende a tramutarsi, anche per via metaforica, nell'altrettanto caratteristico dualismo utopia/repressione. (Lee, difatti, è un militante di sinistra rinchiuso in un istituto psichiatrico che sostituisce il carcere a cui era stato destinato per non meglio definiti scontri con le forze dell'ordine.) Ed invero, sembra essere proprio questo il referente centrale che informa il libro, e che si riveste di valenze ideologiche in dipendenza dagli intenti moralisti di Benni. Altro dato precipuo della cultura emiliana sono difatti i forti contrasti e le decise dialettiche, di cui le viste dicotomie non sono che le varie rappresentazioni. Raramente nei prodotti di detta cultura esse raggiungono una sintesi, e rimangono invece in una condizione che si estrinseca in atteggiamenti e posizioni per lo più manichei, seppur ricchi di sfumature (si pensi, per esempio, al Peppone e don Camillo di Guareschi). Da questo versante, Comici spaventati guerrieri rappresenta, forse, l'apice della produzione benniana, che in seguito tenderà a farsi moralistica più che moralista. Nel libro, infatti, le considerazioni etico-sociali e le prese di posizione appaiono come sfumate dietro un onirico indiretto libero, oppure lo stile di trasognato flusso di coscienza riesce a stemperare un eccessivo didascalismo. Equilibrio, questo, che il film non riesce a riprodurre.
Musica per vecchi animali non intende ricalcare fedelmente il romanzo, ma i suoi nuclei concettuali e i suoi assunti sono pressoché identici. Uscito tre anni dopo il libro, con la regia dello stesso Benni e di Umberto Angelucci, sembra risentire della parabola discendente che è andata disegnando la narrativa dello scrittore bolognese.13 Nel film si tenta di allargare e generalizzare ancora di più il discorso etico ed ideologico, oltre a renderlo maggiormente visibile ed esplicito. Cosicché, la maglietta rossoblù diviene quella rossa con la scritta «CCCP» della Nazionale sovietica, e le biciclette sono sostituite da un side-car. La stessa Bologna appare irriconoscibile: di essa s'inquadrano unicamente i futuristici palazzi e quartieri della Zona Fiera. Persino il cast, Dario Fo e Paolo Rossi su tutti, ha assai poco a che spartire con l'Emilia-Romagna, e anzi contribuisce in via indiretta (ossia per la carriera artistica e le scelte di campo dei due) ad una marcata politicizzazione legata al contingente storico del crollo del comunismo. Esemplare, allora, risulta il personaggio di Guccini (ancora lui): l'unico emiliano del cast interpreta il ruolo di organizzatore e custode di un museo di oggetti provenienti da un passato/presente che va perdendosi assieme alle sue «vecchie» ideologie (il tramonto delle quali ha segnato come la storia così quasi tutta la produzione cinematografica -e letteraria- del periodo in considerazione: periodo di passaggio, in cui il nuovo stenta ancora a definirsi). Sembra, davvero, che quello di Guccini sia il solo personaggio nel film a non stonare con l'ambiente.
Il manicheismo diviene dunque bozzettistico, il didascalismo di discorsi anche troppo lunghi non s'inserisce in un insieme organato. Tutta la prima parte, insomma, quella cioè più vicina al libro, appare piuttosto malriuscita. La sceneggiatura, allora, tenta di salvarsi pigiando sul pedale di certo surrealismo che era rimasto allo stato latente. Proprio l'inizio della seconda parte ci sembra il pezzo migliore, in quanto la troppo scoperta metaforicità si traveste di ambientazione e di atmosfere felliniane, che pertanto, grazie allo stile, rimandano il discorso a contesti più generali e pregni di metafore strutturali eterne.

 

§ V. Conclusioni Torna al sommario dell'articolo

IV. Il poema dei lunatici / La voce della luna

Proprio Fellini riesce, un anno dopo, a presentare quell'immagine della contemporaneità cui Benni forse aspirava, allargando il fulcro metaforico dal politico contingente all'universale. Anche questa volta, però, procediamo con ordine. La voce della Luna è un'assai libera trasposizione de Il poema dei lunatici14 del reggiano Ermanno Cavazzoni. Il libro appare profondamente imbevuto di istanze regionali, a partire dal tema in qualche modo centrale del rapporto tra realtà e finzione. Inoltre, si rifà esplicitamente, fin dalla breve citazione in epigrafe, ad Ariosto, con le peregrinazioni e le ricerche dei suoi personaggi; quête che coinvolge anche il senso e, metaletterariamente, la cornice di tutta la serie di racconti e narrazioni che come un insieme di storie brevi strutturano il libro. Chi vuole rintracciare questa trama è Salvini, il personaggio che dice io, uno stralunato e un po' poetico pazzerello alle immaginarie dipendenze dell'ex-prefetto Gonnella, che ha la coscienza ancora più alterata da manie di persecuzione. La follia, è bene ricordarlo, passa di frequente da queste parti: da quella furiosa a quella trasognata, da Orlando e dai fanciulli di Simona Vinci (milanese, ma oramai anche lei adottata da Bologna, che ambienta in Emilia una storia di bambini pazzi e sanguinari),15 ad alcuni «narratori delle pianure» di Celati. Valendosi dello straniamento che lo sguardo dei due protagonisti sulle cose contribuisce a creare, Cavazzoni dispiega una rete continua di metafore sui più vari ambiti, dal sociale al civile, dallo storico al politico e via discorrendo: campi metaforici che si intrecciano e si compenetrano su molti livelli. Alla lunga, però, l'effettiva mancanza di coesione tra le varie parti finisce con lo stancare il lettore, così come il forse troppo scoperto didascalismo e la relativa facilità di svelamento dei trucchi. Le metafore, infatti, vengono in tal modo private di forza, e insieme di quella sensazione di vaghezza che pure l'onirismo e la fantasticheria dovrebbero ingenerare.
Fellini si sbarazza allora dell'intero apparato dei rimandi metaforici, mantenendo solo i riferimenti a quelli che da sempre sono i suoi temi caratteristici. L'alleggerimento dagli eccessi didascalici s'accompagna, poi, ad una maggiore compattezza della struttura narrativa. Il film, al contrario del libro, riesce a mantenere ben coesa la cornice, calandola e circonfondendola in un'atmosfera d'unitario respiro; allo stesso tempo, però, non manca ugualmente di distribuirla in miriadi di storie, sia raccontate dai personaggi sia vissute nel presente narrativo (e dietro queste ultime pare sempre di sentire la voce del regista/narratore). Fellini, insomma, sembra realizzare quello che Ligabue non aveva forse neanche tentato.
Allo stesso modo, Fellini perviene anche all'attuazione di ciò che avrebbe dovuto compiere Benni in Musica per vecchi animali. La lunare poeticità di Salvini si manifesta infatti con le oniriche riflessioni che erano già di Lucertola nel libro, e che non si è saputo riportare nel film. Di più, i trasognati flussi e passaggi del Benni narratore vengono in La voce della Luna resi con i salti e i flussi del discorso e del montaggio filmici, laddove l'atmosfera evocata dal Benni regista, seppur presente, era piuttosto impercettibile e quasi meccanica.
Proprio la meccanicità ci consente quindi di tornare a Cavazzoni, al suo uso rigorosissimo della lingua e della sintassi, e ai procedimenti narrativi considerati prima. L'automaticità delle scoperte ed insistenti allusioni metaforiche in Il poema dei lunatici diventa in Fellini una fisicità corporale che non perde però contatto con l'atmosfera rarefatta in cui è immersa. «Non in senso metaforico, ma proprio fisicamente», dice Salvini (Benigni) a Gonnella (Villaggio) a proposito della sensazione di scivolare e cadere. La fisicità tutta romagnola del «più evidente trasfiguratore e traduttore nel linguaggio del cinema della sua cultura regionale»16 torna insomma ne La voce della Luna assieme a molti altri suoi topoi. Primo fra tutti, per la sua centralità nella poetica dell'autore, la presenza della donna, alla quale possiamo qui solo accennare. Basti segnalare che Fellini amplifica ed arricchisce di sfumature la tematica femminile, che in Cavazzoni appare trattata in due momenti tra loro scollegati. Fellini, in definitiva, calandolo in un comune denominatore tematico, evidenzia la fondamentalità del dato donnesco; in Cavazzoni, invece, questo dato rimane solo uno fra i tanti. (Pure qui, insomma, la coesione ha la sua importanza.) Nel film la donna incarna la Grande Madre Terra e l'Avversario dell'uomo, come sempre accade in Fellini secondo anche la tradizione regionale. Allo stesso tempo la pallida Aldina è la Luna, che sogna e fa sognare, e che ispira il poeta/innamorato Salvini.
Altro tratto peculiare è poi quello (del tutto assente nel libro) relativo alla provincia. Anche per Fellini, in questo caso, sembra che il livellamento abbia avuto la meglio. Nel paesino emiliano del film si parlano tutti i dialetti della Penisola,17 e ci sono anche giapponesi e africani, ma i guasti ed il degrado del paesaggio urbano e di quello umano appaiono senza distinzioni di sorta. E per la prima volta Fellini utilizza un commento di musica leggera, sullo scenario di un non-luogo simil-riminese che ricorda tondelliane apocalissi: The way you make me feel di Michael Jackson ingoia, letteralmente, il breve luminoso respiro di una parentesi di Strauss. La provincia sembra insomma giunta alla fine, così come il Sogno si ritrova ad essere stato colonizzato dalla televisione. La già ricordata Luna, allora, non è più quella di Ariosto (o di Pascoli) ma diventa quella di Leopardi: la follia di Salvini è più malinconia adulta che non fanciullesca emozione o inquieto errare. Allo stesso tempo, in accordo col duplice assunto del film e con la vena latamente politica dell'ultimo Fellini, per Leopardi la luna era anche indifferente e materiale. La finzione e la menzogna della Poesia appaiono quindi innocue sul piano pratico se a contemplarle (e a produrle) è un animo puro ed ingenuo; altrimenti, diventano strumenti di inganno e di falsa coscienza nelle mani del potere.

 

Vai alla fine dell'articolo Torna al sommario dell'articolo

V. Conclusioni

La voce della Luna è forse stato l'ultimo grande film della regione sulla regione, l'ultimo in grado di promuovere tematiche profondamente radicate nei caratteri locali a una condizione universale. Forse l'affresco di Fellini sulle attuali condizioni dell'Emilia-Romagna è, nel cinema come nella letteratura, il migliore e il più compiuto. Da questa considerazione si possono inoltre provare a trarre alcune ulteriori riflessioni. Per cominciare, la figura di Fellini e la sua capacità di sguardo rimandano a tutto un periodo, all'apparenza superato o in crisi, in cui il cinema ha saputo offrirci abilità di osservazione e visioni d'insieme che la maggior parte della letteratura non appariva più in grado di promuovere e realizzare. Benni non sembra riuscire a districarsi tra la fine di un'epoca e l'inizio di un'altra; Ligabue non si mostra in grado di andare al di là di un superficialismo postmodernista costantemente sopra le righe. Di qui, allora, la scelta di percorso presentata all'inizio, nel segno appunto di un impoverimento delle capacità di sguardo e di discorso. Ciononostante, anche Ligabue appare a suo modo esemplare per la condizione dei nuovi registi, emiliano-romagnoli ma non solo, nei riguardi dell'identità locale (che siamo convinti esista): impegnato in una ricerca del contemporaneo paesaggio umano e culturale dietro anni di sedimentazioni storiche e retoriche.18
Perfino in questo nuovo contesto forse il cinema è, di nuovo, un passo avanti rispetto alla letteratura. La ricerca prende le mosse, tra le altre motivazioni, dal decentramento e dal conseguente policentrismo realizzativo e produttivo che ha subito l'industria cinematografica. Dietro tali coordinate, la situazione dell'Emilia-Romagna appare però in controtendenza nei riguardi tanto della sua tradizione quanto di ciò che accade nelle altre regioni (specialmente in Lombardia, in Toscana e in tutto il Sud, Campania in testa). Qui, infatti, ad un panorama letterario piuttosto variegato ed in salute non corrisponde in ambito cinematografico un movimento altrettanto vivace, né fecondo come negli anni passati. I nuovi autori non sembrano capaci di scrollarsi di dosso le pesanti eredità accumulate, e il terreno appare reso sterile dopo frequenti abbondanti raccolti.
Fellini, invece, ci ha donato uno sguardo che implica una riflessione complessiva sul passato e sulla tradizione, rifiutando però la posizione immobile e fallimentare del passatista Gonnella (così come dei «vecchi» Lucertola, Lee e Lupetto). Allo stesso tempo, e al contrario dei personaggi appena citati, è ben saldato al presente e si apre al futuro, in maniera diversa da Ligabue e dallo stesso Benni dei Celestini, i cui occhi sono troppo legati al contingente per avere una visione completa ed acuta. Fellini attinge al profondo e all'universale, come nessuno dei nuovi sembra ancora riuscire a fare. Alla fine del film Salvini pensa: «Eppure io credo che se ci fosse un po' più di silenzio, se tutti facessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire». E si china su un pozzo per sentire le fole.


* * *


Proprio mentre stiamo portando a termine questo lavoro, ci giunge la notizia della scomparsa di Horst Fantazzini, anarchico bolognese detto il «rapinatore gentiluomo». Egli infatti, alla stregua degli eroi epico-buffi di tanta narrativa locale, era uso rapinare le banche con una pistola giocattolo; una volta, addirittura, spedì un mazzo di rose ad una cassiera che era svenuta durante un suo colpo. Era stato arrestato per l'ultima volta il 23 dicembre mentre, dopo una rapina, tentava di fuggire in bicicletta. Le sue imprese sono state da lui stesso raccontate nel libro Ormai è fatta (Verona, Bertani, 1976), divenuto nel 1999 un film col medesimo titolo, e con Stefano Accorsi nella parte del bandito e Francesco Guccini in una breve comparsata nelle vesti del padre (a sua volta anarchico).


Precedente Successivo Scheda bibliografica Torna al sommario dell'articolo Torna all'indice completo del numero Mostra indice delle sezioni


Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2001

Dicembre 2001, n. 2


 
Free counter and web stats