Giulio Iacoli
Rohmer, Celati e il racconto morale:
Tarda modernità e visione

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Sommario
I. L'opposizone tra campagna e città
II. L'epifania della grazia
III. Le strutture esibite
IV. L'illuminazione consolatrice


§ II. L'epifania della grazia

I. L'opposizone tra campagna e città

Si intende qui proporre un'identificazione di genere - il racconto morale - e un avvicinamento di visuale narrativa tra due differenti pratiche del discorso, letteratura e cinema. Tra gli autori in questione muta lo stile, ma permane un certo modo d'essere della visione, una volta che questa si confronti con l'esterno, riguardi ossia il fuori, quanto esula dal dominio della soggettività. È da queste parti che il racconto di Gianni Celati, narratore padano nomade, entra nella sua piena maturità, virando da un decennio di scritture comiche, riproposizioni in chiave narrativa di tratti comuni ai classici del gag come i fratelli Marx, il «gran filosofo» Buster Keaton, e altri, verso l'acquisizione di una forma filosofica, o meglio gnoseologica, per la propria ricerca letteraria: titoli come Narratori delle pianure, Quattro novelle sulle apparenze, Verso la foce, recano con sé l'indicazione del dove vada situata la nuova direzione della scrittura, in un percorso geografico cioè ben preciso, che investe la pianura padana per giungere a lambire il delta del Po, a sua volta teatro di una riflessione sul tragitto dell'uomo nella sua vita terrena, in bilico tra Storia e oblio, immaginazione e destino.1 Il percorso è in sé un movente narrativo: la spinta a compiere una cartografia del reale porta l'autore-narratore a mettersi a vagabondare per le pianure e, di lì, a raccogliere storie, cartelli stradali in disuso, frammenti di vita. Si delinea così un'opposizione tra la forma urbana (divenuta nell'immaginario collettivo, dalla fine del XIX secolo, luogo dell'inautentico, della corruzione, secondo, tra gli altri, Franco Moretti e Remo Ceserani) e la campagna, spazio dell'indistinto, dell'avventura dai connotati quasi esotici. Se questa opposizione risulta in Celati connotata da toni sfumati, da tocchi di stupore, di una disposizione ingenua all'irrompere del fantastico, colti nelle espressioni e nella lingua dei personaggi, in Rohmer, autore di formazione classica, il divario assume le tinte di un discorso morale alla La Fontaine, nelle figure del topo di città e del topo di campagna, impersonate dalle protagoniste di Reinette e Mirabelle, del 1986.
La metropoli, le sue architetture e il marivaudage che sconvolge le vite di pendolari tra centro e periferia (L'amore il pomeriggio, Le notti di luna piena, L'amico della mia amica etc...) si percepiscono solo in lontananza, sullo sfondo di una natura campestre che, per usare parole di Paolo Marocco, va a integrare «il cinema di parola rohmeriano» costituendo «il suo "côtè cosmologique" […] dove le riprese si addentrano in uno spazio di suoni e rumori che richiamano […] Jean Renoir […] e il documentarismo di Rossellini e Murnau».2 § III. Le strutture esibite Torna al sommario dell'articolo

II. L'epifania della grazia

L'esterno nella natura è dunque il set della rappresentazione di un cosmos primigenio, luogo di presentificazione ed emanazione della grazia, sia essa attesa all'orizzonte nei segni eccezionali della natura (l'heure bleue di Reinette e Mirabelle, il momento in cui, all'alba, intercorre silenzio tra i rumori degli animali notturni e di quelli diurni, o raggio verde nell'omonimo film che appare per consolare la protagonista Delphine, ma anche i segni di pienezza di un'epoca, ravvisati nella natura cangiante dei Racconti delle quattro stagioni), oppure accolta dal personaggio come condizione di comunione con la vita, raro istante che si sprigiona nei dettagli del quotidiano: sono particolari che riassumono l'essenza di un vissuto o perlomeno di un'esperienza, da vivificare attraverso il ricordo in chi si incarica del racconto, come l'attrazione esercitata dalla fornaia di Monceau e la funzione di straniamento e insieme di gioco amoroso imperniata sul sablé da lei venduto, o la bellezza di Hélène, moglie del protagonista di L'amour l'après-midi, che per lui è l'epitome e il necessario prolungamento di quella di tutte le altre, che egli pure non può fare a meno di desiderare, o ancora, il ginocchio-feticcio di Claire, l'intelligenza dialettica di Maud ma anche, ab ovo, la generosità di Pierre, il bohémien protagonista di Il segno del leone, capace, per amicizia, di una donazione di sé che lo apparenta sì alle eroine rosselliniane, ma anche a tutta una tipologia di straniti sognatori toccati da illuminazioni, che serpeggia per il Novecento, da Renoir a Olmi, da Dreyer a Kitano.
Il dettaglio interseca l'esistenza e il destino in un incontro, un momento di pienezza che è un frammento di un più ampio discorso morale. Perché il reale verso il quale il cinema, per Rohmer, deve procedere, essendone esso stesso parte, è intessuto di attimi di immediata consapevolezza, acquisita tramite segni esterni o provenienti da un'intima tensione, da una spinta in profondità dei caratteri morali. Sergio Toffetti ha individuato la zona su cui insiste la forma narrativa: «questa forma morale, consustanziale ai Racconti, è molto più intimamente legata alla loro struttura che al loro contenuto - il suo contrario non è infatti l'immoralità, ma la fisicità - e sta a indicare che la trama non affida il suo sviluppo a peripezie esteriori, ma all'evoluzione interiore dei personaggi».3Il discorso, dunque, reca in superficie le tracce di un'avventura dell'animo: la «metafisica della grazia»4 sottesa al cinema rohmeriano necessita di un quadro che realizzi il naturale venire alla luce di occasioni e pulsioni dell'interiorità. Di qui, la composizione testuale di una poetica che «non sfrutta movimenti di macchina sofisticati né un'enunciazione filmica molto spiccata»; siamo, prima di tutto, di fronte a un «regista del quadro, per cui anche il montaggio finisce per essere solo un montaggio interno».5 In regime di comédie de moeurs, dai Contes moraux ai Contes des quatre saisons, la dimensione di profondità non accede al territorio del non detto e dell'allusione (tutt'al più trova un riparo nella significazione ambigua, come nel finale interrogativo del Racconto d'autunno), ma approda direttamente all'atto del guardare. § IV. L'illuminazione consolatrice Torna al sommario dell'articolo

III. Le strutture esibite

E qui il cinema di Rohmer si inserisce in una linea di scritture che esibiscono il testo nel suo pieno valore strutturale e significante: qui, «come del resto in Godard, in Georges Perec o Italo Calvino, tutto quello che ci viene presentato nella narrazione appartiene alla superficie e al mondo delle apparenze: perché tutto è in esteriorità, e questo abolisce la classica ricerca d'un segreto che starebbe dietro le apparenze». Nei personaggi non sussiste nulla «che debba essere portato all'evidenza. Questo tipo di approccio […] cambia tutto il rapporto con lo spettatore: ciò verso cui lo spettatore è portato, con vari mezzi, è l'esperienza della superficie».6 In queste parole della francesista Anita Licari, sembra echeggiare il senso di un saggio fondamentale per comprendere i meccanismi testuali delle Città invisibili di Calvino, Il racconto di superficie7 di Gianni Celati, che per Marco Belpoliti costituisce uno dei primi scritti di quello che un decennio dopo verrà chiamato il postmoderno. Nella sperimentazione critica dello scrittore ferrarese all'inizio degli anni Settanta andranno allora intravisti i prodromi di un discorso possibile su Rohmer e più in generale sulla proiezione filmica del mondo delle apparenze: un discorso, questo, che procede con il reperimento dello svelarsi del tempo nell'Avventura di Antonioni, di un tempo ineluttabile al quale i protagonisti del film non possono sfuggire, nel quale restano sospesi.8 È, questa, una coscienza che si sprigiona nei medesimi spazi delle retoriche narrative di Rohmer e dello stesso Celati, nelle figure del paesaggio e della grazia. Se ci accingiamo ad accertare alcune tangenze tematico-espressive tra i due autori, verifichiamo come, nelle pagine delle Quattro novelle di Celati, a salvare l'essere umano dalla sua sterilità e cristallizzazione entro le forme delle apparenze, in un paesaggio che comunica estraneità, intervengano brevi, istantanee occasioni di grazia, luci e visioni che sprigionano il senso ultimo delle cose: veri racconti filosofici si rivelano queste descrizioni delle pieghe della vita, più stilizzate e ironiche (Baratto e I lettori di libri sono sempre più falsi), o più intime ed enigmatiche (la Scomparsa d'un uomo lodevole e in modo particolare le Condizioni di luce sulla Via Emilia). Lucidi racconti morali, le fabulazioni di Celati rivestono tonalità sommesse, intrecciano danze con i giochi dell'amore e del caso, risolvono forse stati di prigionia e di infelicità, scacchi alle proprie ricerche, in schiarite durante le quali è possibile, se non interpretare i segni circostanti, vedere dentro di sé, riuscire a pensare un futuro (per il pittore di giostre Emanuele Menini, dopo la morte): è il percorso consentito, e sperimentato da Delphine, dall'apparizione, nell'ora del tramonto, del raggio verde.

 

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IV. L'illuminazione consolatrice

L'apparizione del raggio consolatore porta chiarezza all'interno di chi lo contempla; allo stesso modo, in Condizioni di luce sulla Via Emilia, in un sospeso paesaggio padano invernale, la visione di Menini viene a porsi entro la soglia tra vita e morte, momento nel quale è possibile rivedere, come in un flashback, tutta la propria esistenza.

«A Emanuele Menini, in quanto pittore di paesaggi, interessava soprattutto capire come appaiono le cose che stanno ferme, quando sono toccate dalla luce».9

«Quell'inverno è stato molto rigido, uno tra i più rigidi del secolo. Verso Natale c'è stata una forte nevicata su tutte le pianure che la lunga strada attraversa, e l'indomani il pittore di paesaggi Emanuele Menini è stato trovato morto nella neve, in un fosso a lato della strada, nei pressi d'una cabina telefonica.
Da quella stessa cabina telefonica Menini aveva poco prima chiamato il giovane industriale delle scale a chiocciola, per parlargli di qualcosa che aveva visto. Aveva detto d'aver visto una palazzina nelle campagne, lì vicino, e d'esser riuscito ad osservarla bene perché l'aria era molto limpida dopo la nevicata, e la neve lasciava spuntare bene i contorni delle cose ».10

Queste immagini ci richiamiano per un attimo alla mente Luci d'inverno di Bergman, nella scena di un esterno dal bianco abbacinante, in netto contrasto con il cupo interno della chiesa protestante di un villaggio svedese. Il paesaggio, qui, si fa portatore, per il pastore in crisi Thomas Eriksson, di una non-comunicazione, del messaggio della verità negativa di Dio: la sua inesistenza, come assenza della visione. Ugualmente, in Rohmer e Celati, il paesaggio (come, nelle versioni urbane, le architetture - nella Fornaia di Monceau, la minuta topografia dell'arrondissement) assume pieno valore compositivo, esprimendo la rispondenza o la dissociazione tra paesaggio reale e paesaggio interiore, nei personaggi ; ma in esso si dà la visione, si realizzano attimi di grazia se vi è una disposizione all'ascolto, una disponibilità al «mistero dell'accadere».11 Mutano i linguaggi e gli estremi geografici (il punto di partenza, di osservazione, la campagna padana e quella francese), ma non le modalità della visione: nella novella di Celati ci vogliono particolari condizioni atmosferiche, condizioni di luce per riuscire a fotografare il reale, per cogliere una visione che può essere quella decisiva, quella di tutta la vita. Parimenti, il raggio verde si manifesta solo in concomitanza di occasione atmosferica e occasione dello spirito: da questo parallelo emerge il senso della costruzione delle Quattro novelle, «organizzare una storia confrontandosi con la resistenza opposta dalle cose "che stanno oltre e non si curano dei nostri sguardi"».12
Il raggio della grazia che si può scorgere solo all'interno del cinematografo, alimenta anche la scrittura contemporanea (un influsso possibile: Il raggio verde viene insignito del Leone d'Oro a Venezia nel 1985; le novelle all'epoca sono in fase di scrittura), con il potere di squarciare il velo fenomenico delle apparenze in una folgorazione poetica improvvisa, se è vero, come lo è per Rohmer, che l'oggi vede nel cinema la sola arte in grado di «dare ancora spazio a quella categoria estetica del sublime che un comprensibile pudore ci fa rifiutare altrove».13 E, a fianco, scorre l'infelicità umana, la misera condizione di esseri mortali: la pietas dello sguardo morale coglie Menini di fronte alla propria visione, come Delphine accanto alle sue lacrime, o come ancora Leonor Silveira nella maschera di Susie in Inquietudine di Manoel de Oliveira, mentre guarda in macchina di fronte a un destino di morte, e può affermare «Ce n'est qu'un détail».

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2001

Dicembre 2001, n. 2


 
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