Stefania Filippi
Il carteggio fra D'Annunzio e Debussy

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Sommario
I. Aspetti del carteggio
II. Considerazioni conclusive


§ II. Considerazioni conclusive

I. Aspetti del carteggio

Nello studiare approfonditamente il rapporto privilegiato dell'opera dannunziana con la civiltà musicale sembrerebbe mancare tuttora una ricerca organica su Le Martyre de Saint Sébastien, dramma in ottonari francesi scritto in comune con Claude Debussy negli anni 1910-11, quindi nel periodo di più intensa produzione per le scene, durante il volontario esilio parigino del poeta.
Tra tutte le opere di D'Annunzio concepite per il teatro musicale, che delineano una lunga vicenda di collaborazioni coi compositori, forse il Martyre è quella che per gli studiosi di oggi rappresenta il momento più felice di questo sviluppo e che più di altre rivela una stretta compenetrazione di metodi di lavoro, come attesta l'elaborazione parallela e comune del testo poetico e della partitura musicale. Attraverso un'indagine condotta sull'epistolario tra i due artisti, si può procedere infatti a una prima ricognizione sull'elaborazione testuale del dramma, sebbene la partitura di Debussy sia altrettanto interessante e anzi presenti sicuramente aspetti di maggiore modernità rispetto all'estetica sottesa al testo dannunziano, ma entro un ciclo sui «generi marginali» sembra più pertinente privilegiare i dati letterari dell'opera, richiamandone poi l'aspetto musicale nei momenti in cui esso si inserirà più opportunamente.
I documenti di questa vicenda compositiva, indispensabili per ricostruire "l'officina" di un'opera così singolare, si possono ritrovare per prima cosa nel fittissimo epistolario tra i due artisti, iniziato nel 1910 e mai interrotto durante il periodo della composizione testuale e musicale del dramma, rappresentato a Parigi nel maggio del 1911. Il carteggio si completa poi con le lettere scambiate fino al 1917 - quindi fin quasi alla prematura morte di Debussy, avvenuta nel 1918 -, che attestano le fasi dell'elaborazione dell'opera dalla prima intuizione dannunziana di «[…] un Mystère longuement médité», fino alla volontà reciproca di nuovi progetti comuni, dando conto anche dell'esperienza concreta della "prima" e delle successive rappresentazioni dell'opera a Parigi. L'epistolario si svolge infatti serratamente tra il 25 novembre 1910 e il 19 giugno 1911, interrompendosi poi nel 1912 -perché sostituito da una frequentazione più stretta tra i due artisti - come afferma Guy Tosi - per poi proseguire, sebbene con minore frequenza, dal 1913 al 1917, nel periodo in cui essi furono più lungamente separati, dapprima per i rispettivi impegni di composizione poetica e musicale, poi anche per le vicende belliche; e si conclude infine improvvisamente il 7 settembre 1917, a pochi mesi dalla prematura morte di Debussy. Il carteggio contiene anche una lettera molto più tarda, inviata a D'Annunzio da Emma Debussy il 20 novembre 1932 per la commemorazione ufficiale del compositore a cura di un Comitato per le celebrazioni di cui D'Annunzio stesso era Presidente, in cui si trova una gentile richiesta di autorizzazione a pubblicare l'intero carteggio e quindi un invito al poeta a donare le lettere del musicista ancora in suo possesso.
L'epistolario dannunziano con Debussy, integralmente in francese, ha subito inoltre una singolare vicenda editoriale: pubblicato per la prima volta soltanto nel 1948 a cura di Guy Tosi presso Denoël a Parigi (col titolo D'Annunzio-Debussy. Corréspondence inédite), sembrerebbe caduto nell'oblio fino al 1993, anno della sua seconda edizione - coincidente con la sua prima pubblicazione assoluta italiana - edita da Passigli a Firenze (Mon cher ami. Epistolario 1910-1917), con testo italiano a fronte e curata da Cesare Mazzonis, che alle 60 lettere tra i due artisti ha aggiunto anche le 6 missive intercorse tra l'impresario Gabriel Astruc, che si occupò delle rappresentazioni del dramma, e i protagonisti dell'epistolario. In realtà, scorrendo la copiosa bibliografia sul Martyre de Saint Sébastien - grazie ai cataloghi della Biblioteca del Vittoriale - si può notare come questo importante carteggio non abbia smesso di suscitare interesse soprattutto tra gli studiosi francesi e tra i musicologi (meno fra gli italianisti), come attestano in primis gli scritti di Guy Tosi che ne ripercorrono l'elaborazione testuale e la storia della mise en scène del Martyre e che considerano anche le fonti sacre e profane del testo poetico - latine e antico-francesi, con volgarizzamenti italiani -, ma soprattutto l'uso singolare che D'Annunzio fa della lingua francese sia nel testo del dramma sia, con sorprendente mimetismo, nell'uso della comunicazione quotidiana con Debussy. Al di là del suo puro valore documentario e umano infatti (e anche su questo si potrebbe discutere, riprendendo la riflessione sulla presunta o presumibile "sincerità" dell'autore nelle scritture "marginali" quali diari e carteggi di cui si parlava, in questo ciclo, con l'intervento di Stefano Colangelo sul diario come forma),1 l'interesse di questa corrispondenza esemplare è dato anche dagli strumenti retorici che D'Annunzio sa dispiegare con maestria insuperabile nella comunicazione epistolare, e che sembrano estranei invece al carattere della scrittura di Debussy, almeno in un primo tempo, poiché con l'approfondirsi della conoscenza e col procedere del lavoro comune anche la lingua del musicista sembra appropriarsi delle movenze e dei "travestimenti" lessicali messi in opera dal poeta.
Volendo infatti scegliere tra i numerosi frammenti del carteggio interessanti a tal riguardo, tralasciando talvolta l'aspetto della storia compositiva dell'opera comune, appare chiaro che, fin dall'inizio, D'Annunzio sembra voler avvolgere la parola scritta di elegantissime formule retoriche che, pur non annullando la sincerità fondamentale del discorso, dissimulano abilmente una sottile e insinuante captatio benevolentiae. Un esempio illuminante di questa attitudine dannunziana è la prima lettera dell'epistolario - che merita di essere citata per intero - datata 25 novembre 1910 da Arcachon, in cui il poeta propone a Debussy un lavoro comune per un dramma musicale, presente già da alcuni mesi tra i suoi progetti creativi:

«Mon cher maître,
un jour lointain, sur la colline de Settignano qui est le pays de plus melodieux des sculpteurs toscans [Desiderio da Settignano], Gabriel Mourey me parla de vous et de Tristan avec un accent profond. Je vous connaissais et vous aimais déjà. Je fréquentais un petit cenacle florentin, où quelques artistes sévères avaient le culte de votre oeuvre et se passionnaient à votre "réforme".
Alors comme aujourd'hui je souffrais de ne pouvoir pas écrire la musique de mes tragédies. Et je songeais à la possibilité de vous rencontrer.
Cet été, tandis que je dessinais un Mystère longuement médité, une amie avait l'habitude de me chanter les plus belles de vos chansons avec la voix interieure qu'il vous faut. Mon oeuvre naissante en tremblait, parfois. Mais je n'osais pas vous espérer.
Aimez-vous ma poésie?
A Paris, il y a deux semaines, j'ai eu envie de venir frapper à votre porte. Quelqu'un m'a dit que vous n'étiez pas là.
Maintenant "je ne peux plus me taire". Je vous demande si vous voulez bien me voir et m'entendre parler de cette oeuvre et de ce rêve.
Envoyez-moi un simple mot. Je partirai.
J'aurai au moins la joie de vous dire ma reconnaissance pour les belles pensées que parfois vous avez bercées et nourries dans mon esprit sans repos».2

Come si può notare, l'aspirazione di D'Annunzio alla creazione musicale e teatrale si alimenta delle proprie immagini letterarie e il suo stile epistolare non sembra così distanziarsi molto dal suo consueto immaginario romanzesco. Non a caso in questa prima missiva il nome di Debussy - suggerito a D'Annunzio dal critico d'arte Gabriel Mourey, che fu anche traduttore di Poe e di Swinburne - appare contiguo all'evocazione della figura di Tristano, indizio di un repertorio di miti letterari e musicali attinenti all'estetismo della décadence, dai quali anche il giovane Debussy era stato attratto negli anni della diffusione del verbo wagneriano in Francia ad opera di esegeti d'eccezione quali Baudelaire e Verlaine. Non casualmente poi, ricorrono in questa prima lettera espressioni vicine al lessico dell'estetica simbolista come «voix interieure», come pure è significativo che egli stabilisca un'equazione tra «oeuvre» e «rêve» e concluda alludendo vitalisticamente al proprio «esprit sans repos». Benché meno "alata" della lingua dannunziana, la scrittura epistolare di Debussy rivela da subito un'emozione spirituale profonda; il 30 novembre egli infatti risponde:

«Aussi bien la pensée de travailler avec vous me donne à l'avance une sorte de fièvre».3

Poche settimane dopo, le fasi preliminari del progetto comune conducono felicemente ai primi impegni per la mise en scène e per la scelta degli interpreti (come protagonista, Ida Rubinstein che sarà presentata a Debussy da D'Annunzio stesso), mentre il poeta afferma di prendere ispirazione dal Bach della Passione secondo Matteo per la danza funebre conclusiva. Già il 5 gennaio 1911 infatti, D'Annunzio consegna a Debussy i versi del III atto («musicalement le plus important dans sa forme complète et définitive»),4 mentre il compositore si attarda ancora nella stesura della parte musicale. Nella lettera dell'11 gennaio 1911, D'Annunzio sembra incitarlo all'ideazione con una sottile disponibilità:

«Les parties chorales sont devéloppées en vue du livre, hélas! veuf de musique. Vous pourrez choisir les strophes qui vous conviendront».5

E conclude con un vero coup de théâtre, non volendo più distinguere la finzione scenica dalla realtà, i personaggi del dramma dai suoi interpreti:

«Saint Sébastien me télégraphie de Milan une parole fervente pour vous [alludendo appunto alla Rubinstein, che interpretava la parte del protagonista]».6

In seguito, la lettera del 23 gennaio 1911 inizia con un vero e proprio frammento lirico trasfuso nella comunicazione quotidiana: nel ringraziare la signora Debussy del dono di grappoli d'uva, D'Annunzio li assimila ai versi squisiti dei nuovi «rondels» composti per il Martyre. Anche questa lettera, per la compenetrazione degli elementi metaforici, simbolici e mitologici nella scrittura epistolare, è un pezzo di abilità retorica che merita di essere citato in alcuni punti:

«Ami,
parmi les grappes de raisin envoyées par la donatrice il y en avait une de neuf et neuf grains. Elle était parfaite, mélée de douceur et d'aigreur, de soleil et d'ombre, d'ambre et de béryl. J'en ai fait ces neuf et neuf rondels, où la rime pleine est alternée à la divine assonance qui, seule, est musique. […]
Saint Sébastien fut tenté; et vous allez donner à son combat invisible les accents sublimes que je n'ai pu trouver dans le langage humain. Or je vous tente, je vous expose à la Tentation. […] Mais vous pouvez aussi choisir, prendre de la grappe double quelques grains savoureux. Vous pouvez aussi tout jeter. Cependant je vais faire mon offrande à Proserpine pour être exaucé».7

Non può sembrare allora solo una captatio benevolentiae la sua replica di Debussy del 29 gennaio:

«… toute musique me semble inutile à côté de la splendeur sans cesse renouvelée de votre imagination».8

Non diversamente, D'Annunzio continua sempre più a confondere il piano della vita quotidiana con il travestimento teatrale: il 7 febbraio, ringraziando per una stilografica inviata in dono dalla signora Debussy, la definisce «orné d'une goutte cristallisée du sang de Sébastien»,9 mentre poco dopo, il 13 febbraio, invia idealmente all'amico «toute cette belle lumière dorée qui est l'haleine du printemps océanique»,10 dimostrando ancora una volta l'impiego costante del registro elevato della lingua francese non solo nel dramma che andava componendo, ma anche nella conversazione epistolare. Sono frequenti infatti le chiuse di lettera così elegantemente costruite, la cui artificiosità appare velata dalla ricercatezza dello stile e dall'implicito riferimento a immagini ricorrenti nella propria memoria poetica recente o, in altri casi, da intuizioni di figure che sembrano nascere spontanee. Tra queste ad esempio, la delicata figura della bambina di Debussy, Emma-Claude, chiamata Chouchou in famiglia, che percorre spesso le lettere dannunziane datate al periodo di composizione dell'opera, non sembrerebbe soltanto un'immagine poetica o l'attestazione di un affetto realmente sentito, dato che è posta ad arte nelle missive più urgenti come strumento per toccare il compositore nella sfera dei sentimenti familiari. D'Annunzio infatti sa legare abilmente la sua immagine infantile all'idea dell'invenzione musicale: la definisce «la plus fraîche mélodie de votre coeur» (dicembre 1910),11 poi «la fille de votre âme panique» e la immagina ridere di sorpresa nell'aprire la partitura del Martyre che spera compiuta in breve tempo (23 gennaio 1911);12 altrove ne fa una figura di piccola Musa consolatrice, come in una lettera databile al marzo-aprile 1911:

«Au milieu de ces tracasseries, des ondes soudaines de musique me traversent. Elles partent de votre chambre, chaque fois que Chouchou entr'ouvre la porte».13

E anche dopo la rappresentazione del dramma, in una lettera del maggio 1914, D'Annunzio scriverà alla piccola Chouchou firmadosi «Le sorcier à la barbiche jaune»,14 invitandola a «pregare la divina Musica» per la sua guarigione; in seguito, il 23 luglio 1914, inviandole in regalo un braccialetto, «qui pèse moins qu'une fleur», lo associa all'idea della musica di Debussy («Il était peut-être d'une petite amie de Bilitis»),15 ricorrendo abilmente ad una citazione appena nascosta delle Trois chansons de Bilitis per soprano e pianoforte, composte nel 1900 su testi di Pierre Loüys.
Mentre i due artisti compongono le parti del Martyre e se ne definisce sempre meglio la mise en scène, le loro lettere contengono maggiori indicazioni pratiche sull'elaborazione dei cinque atti e D'Annunzio, forse quanto Debussy, dedica molto spazio a questioni di estetica musicale, a volte con considerazioni puntuali - che rivelano la conoscenza delle fonti storiografiche e critiche sulla tradizione del melodramma italiano - e altre volte in termini di pura trasfigurazione poetica. Con l'avvicinarsi della prima rappresentazione, verso aprile-maggio 1911, nel riascoltare la musica del I atto, egli interpreta la propria emozione rielaborando le stesse immagini della propria opera:

«Comme Sébastien cloué à la Cithare, la Musique et le Drame crient: "Nous sommes Un!" »16

In termini più rigorosi però, il poeta richiama in altri luoghi del carteggio la necessità di una sintesi tra la musica e il testo poetico; in una lettera all'impresario Astruc datata 27 marzo 1913,17 nell'elogiare l'arte di Ildebrando Pizzetti, autore due anni prima delle musiche di scena per la Fedra, ricorda pure un saggio di Pierre Lalo18 sulla dicotomia fra la tradizione del dramma musicale italiano del Cinque-Seicento, esemplato al massimo grado nell'opera di Monteverdi, e la degenerazione del melodramma verista in cui questo equilibrio sembra irrimediabilmente perduto. Sono questi argomenti ricorrenti e non nuovi nella formazione dell'estetica dannunziana, risalenti agli anni della professione giornalistica presso le riviste romane e napoletane (basti ricordare il pamphet polemico del 1892 contro Mascagni apparso su «Il Mattino»),19 e quindi radicati nella coscienza critica del poeta in anni anteriori alla prima "infatuazione" per la sistematica delle arti proposta negli scritti wagneriani. Su questo punto si sviluppa infatti la più forte consonanza di D'Annunzio con la "riforma" musicale realizzata da Debussy, dopo una prima fase giovanile caratterizzata da un proprio "wagnerismo" compositivo. La convergenza delle estetiche dei due artisti è confermata da una lettera del musicista, successiva alla stesura dell'opera comune, datata 12 giugno 1913, in cui non mancano però gli accenni ad una concezione discordante della mise en scène; dopo aver assistito alla "prima" di La Pisanelle, con musiche di scena di Pizzetti, Debussy infatti consiglia:

«Vous employez, si j'ose ainsi dire, une matière trop belle: pour la bouche des acteurs, pour les oreilles du public que le tumulte bigarré de la mise en scène vient encore bousculer. A mon avis ce n'est justement pas celle-là qu'il faudrait employer.
Pourquoi occuper tant les yeux quand les oreillles ont tout à retenir? Depuis quelques années nous obéissons à des influences où le Nord se concerte avec Byzance pour étouffer notre génie latin fait de grâce et de clarté».20

In una lettera interessante sia sul piano dell'estetica musicale, sia per la preziosità dello stile, sia per le autocitazioni che contiene e databile al 3-4 maggio 1914, inizialmente D'Annunzio allude alla propria convalescenza con un riecheggiamento concettuale dell'incipit della lirica dedicata a Pisa nel ciclo Le città del silenzio:21

«… et la vie dans le coeur tremble et vacille encore comme les songes de l'aube».22

Poco più oltre, si incontra una definizione che proviene dagli scritti dannunziani "di memoria":

«Quelqu'un m'a dit que toute maladie est un problème musical. En effet, seules la Musique et l'Amitié peuvent me guérir».23

Trascorre qui infatti il ricordo di un frammento del 1906, Della malattia e dell'arte musica, poi confluito nel tomo II delle Faville del maglio,24 un lungo brano interamente consacrato a narrare una visita a Giuseppe Giacosa convalescente e dedicato postumo alla sua memoria. Questa frase del librettista ricorre spesso negli scritti diaristici dannunziani con forte pregnanza di significati e permarrà nella memoria compositiva del D'Annunzio poeta fino a queste date e oltre. Il tono di trasognamento e di nostalgia della lettera appare subito dopo accentuato dal ricordo della musica di Debussy - il dramma Pélleas et Mélisand - che facilmente conduce a quello dell'opera composta insieme («Quel bonheur si j'allais avec vous réentrendre Pelléas ou bien notre Saint Sébastien»).25 Improvvisamente poi, D'Annunzio cita l'Otello di Verdi, che da pochi giorni era stato rappresentato al Théâtre des Champs-Elysées, e ne sottolinea «quelques mesures éparses qui annoncent l'inattendu printemps sénile de Falstaff».26 Anche se il melodramma verdiano potrebbe sembrare estraneo al gusto musicale maturato da D'Annunzio negli anni di formazione, ricordiamo che non era sopita in lui l'ammirazione per il genio di Verdi: di questo è testimonianza la canzone In morte di Giuseppe Verdi composta per la sua cerimonia funebre, dapprima apparsa su «La Tribuna» del 28 febbraio 1901, poi recitata nell'Aula Magna dell'Università di Firenze, infine confluita in Elettra.27
D'altra parte, soprattutto nelle lettere seguenti la fine dell'opera comune, le citazioni di musiche e di musicisti presenti nell'epistolario non sono così eterogenee, poiché è il ricordo delle composizioni debussiane a condurre il poeta, sul filo della memoria, a riscrivere all'amico; anche negli anni di guerra, - le lettere e i telegrammi dell'8 aprile 1916,28 del 20 gennaio e del 7 settembre 1917 -29 spedite dal fronte italiano sono frammenti nostalgici in cui i Préludes per pianoforte e il Quartetto per archi accompagnano e caratterizzano prima le pause musicali del capitano D'Annunzio, poi la sua convalescenza nella «Casetta rossa» a Venezia dove, ferito all'occhio destro, si fa eseguire dal pianista Giorgio Levi e da «virtuosi in uniforme» le musiche di Debussy insieme con quelle di Skrjabin e di Beethoven. In queste ultime lettere, di poco precedenti alla morte dell'amico, l'epistolario si sovrappone a quei cartigli del Notturno più intensamente dedicati alle «imaginazioni musicali», mentre il ricordo di Debussy inspirerà ancora le prose di memoria e di ricerca degli anni del Vittoriale, occupando in parte anche uno tra i più riusciti frammenti accolti nel 1924 nel tomo II delle Faville del maglio (Di una pausa musicale nel tumulto di Fiume, originariamente intitolato Ritratto di Luisa Bàccara).30 Se da una parte esso può apparire come l'ultima "cronaca" musicale dannunziana, essendo interamente dedicato ad un concerto della pianista Luisa Bàccara per i legionari fiumani, subito la dimensione cronistica si disperde nella forma più frammentata della nostalgia, del trasognamento e del ricordo. A tal riguardo, i brani sulle musiche di Debussy in programma in quel singolare concerto sono quelli più intensamente narrati, e da cui si dispiega la commemorazione per la morte dell'amico:

«Ecco Claudio di Francia; e il vento della montagna vertiginosa che solleva le pieghe e le bende della danzatrice di Delfo. […]
Penso a quel che può essere il sepolcro di Claudio. Dove? nell'isola di Francia tremolante di pioppi e di rivi? Non so immaginare la tomba di questo aereo inventore. Non so immaginare sopra lui quel che pesa e suggella. L'epigramma greco, che invoca la leggerezza della terra coprente, conviene alla sua sensualità senza carne.
Credevo che non sarebbe morto prima di me, e che forse l'avrei riveduto su la soglia della sua casa lirica affacciata verso i binarii brutali di tutte le partenze e di tutti gli arrivi.
Sera lontana sopra un campo di volo terminato da montagne di zaffiro, dove la notizia improvvisa giunse per entro il rombo della guerra e non fece tremare nessuna ala! Un lembo dell'antico lamento di Sicilia palpitò fra le macchine alate pronte alla distruzione atroce, governate dal ritmo assordante dello scoppio. "Usignuoli, annunziate ad Aretusa ch'egli è morto e che il canto è perito con lui … Omai chi canterà su le sue canne?"
Taluno de' miei giovani distruttori, come quel che taciturno aspetta a sacrificarsi alla divinità del Dinara, non ha dimenticato lo schianto della mia voce nel mio comando di partenza. A me il premio della mia guerra non era se non il compimento dell'opera di poesia e di musica che avevamo disegnata e che sentivamo di poter condurre di là dalla nostra ansia di rinnovazione e di perfezione. Ecco un'altra causa a sopravvivere mi veniva meno. Dal rombo della mia macchina alata mi sorgeva il più inebriante degli inni funebri. Con le mie armi pesanti e con la frenesia spirabile io portavo meco il mio fratello latino avvolto nella mia laconica porpora.
Ma io sono qui: gli sopravvivo forse per la fatalità di un altro compimento.
Se egli vivesse, io gli condurrei questa flessibile compagna di Bilitis, a cui sembra ch'egli abbia appreso in sogno il suo divino segreto».

Ma la persistenza del ricordo di Debussy e del Martyre si spinge fino all'estrema testimonianza della "officina" dannunziana: siamo quindi al Libro Segreto, nel 1935, in cui D'Annunzio inserisce, con pochissime varianti, alcuni frammenti sull'incontro col musicista francese e sul loro comune lavoro compositivo. Sono questi brani presenti nella Biblioteca e negli Archivi del Vittoriale, pubblicati da Annamaria Andreoli sulla base dei manoscritti dannunziani catalogati da Antonio Bruers negli anni Trenta.31

«San Sebastiano

L'incontro con Claudio Debussy, dopo aver cercato per la selva parigina le fonti della musica giovine, come un "sourcier".
In che modo la sua altera diffidenza e la sua difensiva ironia furon da me subito vinte. L'alleanza spirituale suggellata fin dalle prime note. Il suo stupore della ininterrotta attenzione e della costante infallibilità di questo orecchio, che certo aiutò Saffo ad accordare la sua cetra e Riccardo Wagner a scatenare e a contenere le procelle della sua Orchestra non classicamente domata come dal solingo Orfeo il bestiame sanguinario […].
[…] Claudio di Francia, al mio primo modo di leggergli le parti del poema ansiose di compirsi nella musica, comprese: e non si meravigliò se non per amarmi, se non per donarsi intiero e puro, egli che pareva tuttora offeso dalla prosuntuosa ottusità di un altro poeta affascinato in ogni stagione dal merlo melenso e inemendabile [Maurice Maeterlinck, autore del testo di Pélleas et Mélisande]».

 

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II. Considerazioni conclusive

Come si può notare, in una ricerca sulle forme molteplici e anche contraddittorie che assume la politica dannunziana delle collaborazioni poetico-musicali negli anni Dieci, questo documento epistolare appare di particolare interesse anche per il suo trovarsi al centro di un sistema di scritture frammentarie successive. Il carteggio diventa ancor più importante se si cerca di ricostruire un itinerario della cultura europea che in quegli anni aveva il suo centro a Parigi, dove giunse a maturazione l'estetica delle correnti simboliste della fin de siècle e luogo privilegiato di sperimentazioni significative per la storia musicale e letteraria tra le quali il Martyre assume rilevanza, benché ai lettori di oggi essa appaia irrimediabilmente datata, sia sul piano simbolico-ideale e tematico, sia per il linguaggio teatrale che essa esplora e dispiega, portando alla sua estrema elaborazione un'estetica fin troppo legata alla contaminazione dei linguaggi artistici e fin troppo costruita sull'oratoria del gesto scenico, come pure sul gusto medievalistico ed esotico del bizantinismo arcaizzante che spesse volte ha ispirato la drammaturgia dannunziana e quella della décadence.32
Attraverso lo studio dell'epistolario, quindi, è possibile esaminare il metodo compositivo parallelo di Debussy e di D'Annunzio e ancor più la loro collaborazione artistica, esemplare nella cultura europea di quel tempo per il suo svilupparsi come ricerca comune sulle potenzialità espressive del testo scenico, con una forte carica innovativa nei confronti della prassi teatrale del tempo, e con una convergenza - forse solo apparente - delle rispettive estetiche musicali e teatrali. Nella sua analisi non va dimenticato però che si vi congiungono due aspetti rilevanti della poetica dannunziana più feconda e persistente: in primis la realizzazione di un remoto progetto di creazione poetica in langue d'oïl, documentato, secondo altri epistolari e secondo i Taccuini, dallo studio costante dell'epica e della lirica medievale francese fin dagli anni giovanili e reso ancor più vitale dall'incontro con filologi romanzi quali Francesco Novati, Joseph Bédier e Gaston Paris. D'altro lato, collegata a questo sogno creativo - che potrebbe anche apparire come l'ennesima sfida realizzata del "dilettantismo" dannunziano - persiste nel poeta quell'estetica musicale e teatrale da lui assimilata negli anni di formazione e di apprendistato letterario, dunque, come si diceva, nel corso della professione giornalistica. Si trattava allora per D'Annunzio di realizzare anche l'antica aspirazione all'«arte totale», proposta da tutte le correnti del simbolismo europeo in seguito alla diffusione dei saggi wagneriani Opera e dramma e L'opera d'arte dell'avvenire; di dare forma, quindi, a quella ricerca musicale e teatrale che Wagner sostanziava di motivazioni ideali, definendola come recupero della perduta sintesi delle tre «arti sorelle» musica, poesia e danza. Ricordiamo che, già maturata dopo il 1890, fra Il trionfo della morte e Il Fuoco, quell'aspirazione dannunziana al "teatro totale" era così radicata nel suo progetto creativo che divenne il sogno ricorrente e irrealizzato del Teatro di Albano, poi trasposto nella narrazione come Teatro del Gianicolo, e auspicato da Stelio Effrena come luogo di autocelebrazione del patrimonio musicale italiano. Si scoprono così le fonti testuali delle parti "programmatiche" del romanzo nei saggi wagneriani citati e nella teoria nietzscheiana sulla nascita della tragedia (il saggio La nascita della tragedia dallo spirito della musica).
Non a caso allora, il Martyre de Saint Sébastien fu salutato da alcuni critici d'Oltralpe come «il Parsifal francese», benché la sua composizione sia del 1910-11, e cioè di anni già lontani da quelli della più vasta ricezione della poetica wagneriana in Europa -cioè gli ultimi due decenni dell'Ottocento- come pure dal primo innamoramento dannunziano per l'opera del «creatore barbarico», com'è definito nel Fuoco. In realtà quest'opera in cinque atti, modellata sui mystères in langue d'oïl e quindi suddivisa in cinque mansions corrispondenti ai momenti della leggenda agiografica di San Sebastiano, non ha molto in comune con la struttura dei drammi musicali wagneriani, se non il richiamarsi anch'esso a svariate fonti medievali: la Legenda Aurea di Jacopo da Varagine e l'anonima Passio Sancti Sebastiani, insieme ai volgarizzamenti più tardi, toscani e francesi.33 Nell'elaborazione scenica di un soggetto sacro, non privo di forti componenti pagane e profane, il Martyre dispiega quel gusto arcaizzante del teatro degli anni Dieci trovando il suo luogo ideale nell'ambientazione ellenistica e si impreziosisce delle musiche di scena di Debussy come di un naturale complemento sonoro, nella riuscita compenetrazione tra l'essenziale melodia debussiana, ormai tendente al recupero del genere diatonico e modale, e la declamazione dell'ottonario francese che D'Annunzio ricrea appunto sull'antica langue d'oïl dei mystères e delle agiografie medievali. Nella convergenza - forse solo apparente, come si diceva - dell'estetica musicale del Debussy maturo con la sperimentazione teatrale del periodo parigino di D'Annunzio, quest'opera si pone come realizzazione di quelle istanze teoriche che la sensibilità e lo spirito di ricerca di fine secolo avevano portato ad un estremo grado di intellettualistica elaborazione.
Se si procede infatti ad uno studio parallelo della partitura musicale e del testo poetico, ne vanno considerati sia i complementari aspetti di sperimentazione, sia le vicende compositive, attestate appunto dal fitto epistolario tra i due artisti, che documenta così le fasi dell'elaborazione testuale della parte poetica in francese, con le ricerche linguistiche e stilistiche che essa comportò, per D'Annunzio, nella continua volontà di adeguare la propria lingua alla raffinata sonorità debussiana. Questo carteggio in francese attesta poi anche la volontà di nuovi progetti comuni per i due artisti, come sembra dalle lettere scambiate nell'estate del 1914, insieme con la storia della mise en scène e delle rappresentazioni dell'opera, come pure, intersecandosi con altri epistolari di entrambi gli artisti, contribuisce a delineare la complessa vicenda delle collaborazioni teatrali ricercate dal poeta a partire dagli anni Dieci, e solo in parte realizzate coi più diversi compositori del tempo (Pizzetti per Fedra, Mascagni per Parisina, Malipiero per Sogno d'un tramonto d'autunno e Zandonai per Francesca da Rimini), oppure non riuscite (è il caso di Puccini per La vergine e la città, e di Perosi per La crociata degli innocenti); d'altro canto l'epistolario si inserisce entro un sistema complesso di altri carteggi, appunti, saggi e comunque di scritture "marginali" che sostanziano il percorso dell'elaborazione testuale del Martyre de Saint Sébastien. D'altra parte, anche le lettere di Debussy sono particolarmente significative per aggiungere nuovi dati sul percorso del musicista alla ricerca di un proprio stile, dopo il superamento del cromatismo delle opere giovanili e dopo prove teatrali già consacrate quali Pelléas et Mélisande, verso scelte meno consuete di soggetti e di fonti poetiche. I materiali già esaminati e quelli da analizzare per questa ricerca sono numerosi ed eterogenei: l'epistolario e le fonti già citate del testo poetico consultabili al Vittoriale, interessanti per i chiari segni di lettura che marcano i prestiti e anche le appropriazioni di interi brani. Sono di approfondimento inoltre gli scritti di estetica musicale circolanti in Europa tra i due secoli, da cui emerge la rielaborazione e poi il superamento delle teorie wagneriane nella prassi poetico-musicale: il percorso, quindi, che condusse Debussy al recupero della modalità medievale e alla sua ricerca sulle forme metriche e musicali della più tarda langue d'oil (Charles d'Orléans e François Villon); e infine l'esame di un diffuso gusto medievalistico presente nella drammaturgia e nelle arti figurative durante gli anni Dieci.

 

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Dicembre 2001, n. 2


 
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