Massimiliano Colletti
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I. | Intro |
II. | Giovanni Percolla e Antonio Magnano |
III. | Quando Bolognini incontrò Brancati |
IV. | Bibliografia |
V. | Filmografia di Mauro Bolognini |
«per me [le donne] son necessarie |
I. Intro
Conquistatore, ammaliatore, don Giovanni e playboy, macho, seduttore, mandrillo e donnaiolo; da qualsiasi parte si cerchi di domare il complesso concetto d'italianità queste sono parole con cui inevitabilmente ci si trova a dover fare i conti.
Il campo d'indagine si presenta sin dalla partenza sorprendentemente vasto, dalla letteratura al cinema, dal Don Giovanni di Tirso de Molina al Neorealismo, dal Storia della mia vita di Giacomo Casanova alla commedia all'italiana di serie A e Zeta.
Noi faremo, per il momento, soltanto un piccolo passo, prendendo in considerazione il siciliano Vitaliano Brancati attraverso le opere che più esplicitamente trattano del tema del gallismo, il Don Giovanni in Sicilia e Il Bell'Antonio, per prendere poi in esame la trasposizione cinematografica di Mauro Bolognini, regista con una particolare predilezione per le opere con soggetti di derivazione letteraria.
La fase successiva dovrebbe riguardare invece come queste figure, provenienti dall'Italia, siano state accolte dall'immaginario collettivo extra-italiano e vedere che tipo di opere ne siano state prodotte.
II. Giovanni Percolla e Antonio Magnano
Siamo a Catania, nel periodo che va dal 1930 al 1943; la vita delle persone è scandita dai battiti regolari delle tradizioni familiari.
Accantonando per un attimo l'esperienza della dittatura fascista (che tuttavia riveste nel Bell'Antonio un ruolo di primaria importanza), l'autorità capillarmente più presente nella società è la mentalità bottegaia piccolo borghese. Sia nel Don Giovanni in Sicilia che nel Bell'Antonio, infatti, i personaggi vivono e agiscono rispondendo implicitamente alle regole non scritte che questo tipo di società accumulatrice si trova a condividere.
Sorge come un'aureola, allora, la fama o la mala fama che ciascuno porta con sé, conseguenza esasperata di un dire e ridire cortilesco cui nessuno può sottrarsi, e il cui unico modo di risposta è un dire di se stessi ancora più forte, ancora più efficace.
Il timore di Ermenegildo che «domani la gente si sciacquerà la bocca con le nostre cose»,1 sviluppatosi conseguentemente alle inaspettate rivelazioni del matrimonio non consumato di Antonio, si manifesta per tutta la parte conclusiva del romanzo, come la preoccupazione maggiore per tutta la famiglia Magnano. Questo porta addirittura Alfio, il padre di Antonio, ad un suicidio teso proprio a distanziarsi dalle sciagure del figlio e a ristabilire la buona fama degli uomini di casa Magnano facendosi trovare morto, dopo cinque giorni di ricerche, dentro la casa di una maladonna, tra le rovine di un quartiere malfamato, in una notte di devastanti bombardamenti.
E l'iscrizione sulla sua lapide («
morto il 6 marzo 1942 per lavare l'onore della famiglia infangata dal figlio»)2 si muove anch'essa verso la stessa direzione: ristabilire la giusta fama di Alfio e rimarcare le distanze dallo sciagurato Antonio.
«
- questi Magnano, sia lodato Dio
- I vecchi, volete dire, perché i nuovi
- avesse preso un dito, da lui suo figlio!
»3
Attorno alla reputazione, che ciascuno si porta dietro come un'ombra, è costruito anche il personaggio di Antonio. Le prime sequenze del romanzo ce lo mostrano sdegnare orgogliosamente le suppliche lamentevoli di una donna, mentre più voci descrivono, chi con disperazione come la madre ed il prete che lo accusa di far stare con il collo torto tutte le ragazze di buona famiglia della chiesa, chi con invidia come gli amici, i suoi successi amorosi. Anche il suo ritorno a Catania, che segna il passaggio da un'ambientazione mondana e attivistica ad una abitudinaria e tradizionalistica, è accompagnato, anzi preceduto dalla reputazione di implacabile seduttore che egli si era guadagnato a Roma:
«
- sarà poi vero quello che dicono di te?
- cosa dicono? [ ]
- dicono [ ] che hai una grande fortuna con le donne.4
Oppure il cugino Edoardo:
- Qui, se rimani ancora, le donne ti mangieranno con tutti i vestiti che hai addosso!5
E il padre:
- ma che gli fai tu alle donne si può sapere?
»6
Il parlare, fulcro portante attorno al quale si erge l'immagine di chi sa come comportarsi con le donne, è tale anche tra i personaggi del Don Giovanni in Sicilia, di cui Giovanni si fa portavoce ammettendo che: «Alle sensazioni troppo forti preferiva quelle più dolci e prolungate che gli davano i discorsi sul solito argomento».7 Emerge per il seduttore, quindi, anche un altro indispensabile elemento, ossia il gruppo, luogo dove eco maggiore hanno i resoconti delle proprie esperienze e che diventa branco nel momento della caccia, della ricerca del soggetto giusto per le proprie fantasticherie: «Sceglievano con cura meticolosa il tavolo meglio adatto per cavare con gli occhi le più belle vedute».8
Ma la vera natura dei nostri galli si allontana sostanzialmente dall'immagine che si muove tra le bocche della gente; tanto Antonio che Giovanni, infatti, nascondono un dramma inconfessabile agli amici e compagni di avventura, ovvero l'aver vissuto l'amore soltanto attraverso le parole. Per Giovanni è una condizione temporanea, riscattata attraverso una parabola ascendente che culmina nel matrimonio; per Antonio resterà, dolorosamente, la condizione definitiva.
Antonio è un personaggio inetto, incapace di amare carnalmente una donna e di vivere in una società «per la quale la parola onore ha il suo più alto significato nella frase farsi onore con una donna»9 che si esemplifica «nel dare da intendere di essere in possesso di una straordinaria forza virile».10
Se da una parte dunque il gallo è fondamentalmente un gran racconta-storie, «tutto apparenza e goffa vanteria verbale e qualche volta risulta persino impotente, così come su un altro piano il gerarca impettito ostenta baldanzosamente il bel gesto ed una potenza puramente verbale»,11 dall'altra emerge il suo essere persona infelice, oppressa dalle rigide imposizioni dei codici di vita borghesi.
Il gallismo come riparo dall'infelicità dell'esistenza è legato spesso a momenti della vita particolari, pre-matrimoniali, come il Giovanni di Giovani Mariti di Bolognini, o pre-lavorativi, prima che la ricerca del lavoro spinga i giovani siciliani all'esodo verso il Nord.
Da questo punto di vista, il mondo delle donne è nettamente diviso in due; c'è la donna del piacere, corpo svuotato dalla persona (al punto che la combriccola di Giovanni Percolla lascia per un po' da parte la caccia alle donne per divertirsi con una bambola gonfiabile portata dall'Olanda) e la donna di casa, le madri, le sorelle e le mogli, circondate dal più alto rispetto e venerazione e protette dagli attacchi dei maschi rivali.
A questo punto, anche a mo' di conclusione provvisoria, non sarà superfluo confrontare quanto detto con la definizione che Brancati stesso dà dei cosiddetti piaceri del gallismo:
«Nei paesi del Sud, il viso maschile è improntato a una fierezza singolare nella quale par di vedere qualche cosa di vermiglio. Cagione di questa fierezza non è l'essere stati buoni, veritieri, generosi, onesti, mansueti, giusti, misericordiosi, ecc., ma il sentirsi o immaginarsi bravi nelle faccende amorose.
I piaceri del gallismo consistenti nel credersi forniti di una veemenza superiore alla normale, arrossano le orecchie agli uomini del sud.
[
] I piaceri del gallismo non consistono tanto nell'usare questa forza gagliarda, quanto nel credere di possederla e nel confondere a tal punto le carte dei ricordi, spesso poveri e meschini, da cambiare a se stessi uno strano passato pieno di successi con le donne,
[
] un padre si metterà le mani nei capelli se verrà a sapere che al figlio non piacciono le donne».12
III. Quando Bolognini incontrò Brancati
L'incontro tra Brancati e Bolognini non è un fatto avvenuto casualmente; se si scorre, anche solo per un momento, la prolifica filmografia del regista notiamo che dal 1953, data del suo esordio cinematografico, tra i suoi trenta lungometraggi ben diciotto sono tratti da opere uscite originalmente dalla penna di scrittori quali Pratesi, Svevo, Pasolini, Chelli, Pratolini, e la presenza stessa di Pasolini tra le firme di numerose sue sceneggiature, tra cui anche quella del Bell'Antonio, è un'ulteriore conferma della vocazione di Bolognini a trarre film dalla letteratura.
Tuttavia le scelte che il regista compie non sono ovviamente di sterile riproposta delle fila narrative brancatiane ma si muovono autonomamente seguendo le esigenze che il suo gusto impone.
In questo contesto Alfio e Antonio Magnano, rispettivamente l'essenza del gallismo e la tragica opposizione ad esso, subiscono delle trasformazioni che vale la pena tenere in considerazione. Innanzitutto va notato come la scelta cinematografica di eliminare il contesto storico del fascismo produca una diversa gestione delle azioni dei personaggi; Alfio, così come tutte le altre figure maschili, divide, nel romanzo, le proprie attenzioni tra le vicende politiche, sempre in vivo fermento e causa di accesi dibattiti, e, dalla seconda parte in poi, le vicende personali di Antonio. Anche non considerando la correlazione che Brancati ci suggerisce tra fascismo e gallismo, la vicenda di Antonio risulta bilanciata anche dalle vivissime rappresentazioni linguistiche del dialetto siciliano che in alcuni passaggi attenua notevolmente il dramma del protagonista.
Brancati si diverte; Bolognini rimane invece freddo e distaccato, la sua macchina da presa è una presenza discreta e silenziosa che scruta i personaggi, a volte da lontano, a volte con l'ausilio di uno specchio che rivela sempre un momento dopo la propria natura ingannatrice, a volte trovandosi un varco tra la disposizione architettonica degli elementi di scena.
Inesistenti sono sia le inquadrature dall'alto o dal basso, sia il dolly. Come rivela V. Zagarrio:
«Bolognini pare scegliere uno sguardo algido sulla realtà, raffredda la materia bollente del romanzo di Brancati in uno spleen più nordico, in un clima più composto e rarefatto, in uno stile raffinato che congela i caratteri e la messa in scena, come sono raffreddati i sentimenti [
]».13
Il centro della scena è occupato solo da Antonio, con la sua presenza sullo schermo o più indirettamente attraverso i dialoghi (specialmente dopo le dichiarazioni del suo matrimonio non consumato) che gli altri personaggi fanno riferendosi a lui.
Dal punto di vista tecnico questo avviene tramite l'uso prolungato di insistiti primi piani accompagnati da lunghi silenzi o da flebili parole, come nel monologo in cui Mastroianni-Antonio dichiara al pubblico la propria infelicità: «un giorno ti lasciai per un interno folle miraggio e me ne andai lontano. E me ne andai per ogni suolo estraneo cercando amore. E l'amore cercai, l'estate e il verno
e sempre andai cercando amore. Corsi cercando amore, ma l'amor non scorsi, e da casa tornai malato in cuore».14
Il primo piano di Antonio, come rappresentazione della centralità del suo dramma è anche la scelta che apre il film e che lo porta a compimento.
Particolarmente significativo quest'ultimo che vede Antonio parlare al telefono con il cugino Edoardo in cui un abile cambio di luce (merito della fotografia di Nannuzzi) lo svela piangere sulle parole; «e finalmente potrai essere quello che realmente sei, un uomo!».15
Alfio continua sì, ad essere l'ultimo portavoce di quel gallismo che avevamo descritto nella prima parte e che più che mai era vivo nel Don Giovanni in Sicilia, ma risulta ormai sopraffatto dal dramma di Antonio la cui sciagura, appoggiandosi sull'impotenza sessuale, vola in alto acquistando la dimensioni di un male di vivere generalizzato e profondo.
L'ultima scena ci mostra un Antonio per nulla contento di aver finalmente fatto quello che tutti si aspettavano da lui, nascondendo un malessere che forse si può far risalire ad una omosessualità repressa, e che tale, se così fosse, in quel tipo di società che nasconde i diversi della famiglia nelle soffitte di casa, è costretta a restare per sempre.
IV. Bibliografia
V. Filmografia di Mauro Bolognini