Aldo Nove, Amore mio infinito, Torino, Einaudi Tascabili, 2000, pp. 177
di Carlo Schiavo

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Amore mio infinito, l'ultimo romanzo di Aldo Nove, sembra un tipico esempio di letteratura postmoderna. Troviamo infatti, all'interno della storia, quasi tutte le tecniche narrative che contraddistinguono questa stagione letteraria (o corrente, secondo le interpretazioni). Esse, inoltre, sono narrativamente organizzate secondo il principio del pastiche, che per Jameson è la caratteristica specifica del postmoderno.1 Cosicché nel libro trova posto un numero elevatissimo di elementi, in una ridda di significanti che esauriscono immediatamente la propria valenza semantica o si rimandano fra loro a vuoto, senza cioè comportare un senso definito. La strutturazione della storia, dunque, si realizza in una sorta di bricolage, che è composto da molte delle istanze peculiari che informano la scrittura postmodernista. Si potrebbe cominciare col segnalare alcune brevissime allusioni, come quella a Montale: «…trovare uno squarcio nel sistema di riproduzione nella catena…» o a Gadda: «tutto era sempre più terribilmente ingarbugliato»2. Ma si possono reperire anche allusioni più estese. Ad esempio, molti passaggi del terzo capitolo rimandano palesemente a Due di due di De Carlo (dove in verità potrebbe scorgersi anche l'altro carattere schiettamente postmodernista della parodia). Inoltre, i due McDonald's che verso la fine del libro si specchiano l'uno nell'altro non possono non ricordare la scena finale di Notturno indiano di Tabucchi. Ancora più esplicito è poi il richiamo al Tondelli di Camere separate: le reazioni del personaggio di Nove di fronte all'Amore e ai suoi effetti sono riprese in maniera abbastanza palese dalla descrizione delle visioni nel trip metafisico del protagonista tondelliano. Sul piano delle citazioni, è quasi d'obbligo fare menzione dell'intero brano estratto da La violenza illustrata di Balestrini. Di questo autore, del resto, Nove ricalca in maniera pressoché pedissequa anche lo stile di scrittura. Per quanto invece concerne la presenza di sottotesti, il libro ne conta più d'uno: dalle «canzonette» di Bennato e di Pezzali ai film Il mondo dei robot e Labirynth; sottotesti che rientrano tutti, in sostanza, nella categoria del cult.

Crediamo sia superfluo proseguire. Piuttosto, dobbiamo rilevare come l'illimitata pluralità di possibili interpretazioni, ingenerata dall'intrecciarsi degli elementi appena menzionati, si offra a sua volta in modo del tutto gratuito, per l'assoluta mancanza di una qualsiasi finalità. Questa assenza di obiettivi definiti riconduce l'intera operazione narrativa ad un grande gioco, secondo un'altra delle strategie retoriche postmoderniste. In realtà, però, il dualismo tra finalità e gioco concerne a sua volta la manifestazione del double coding, altro elemento cardine del postmodernismo letterario. Il doppio registro, la cui attuazione prevede l'uso delle pratiche intertestuali appena analizzate (citazione, parodia ecc.), comporta poi lo svolgimento della scrittura su due piani e per due scopi differenti: da un lato per la lettura da parte del pubblico cosiddetto di massa, dall'altro per un'interpretazione più avveduta ed esperta. Secondo tale prospettiva, Amore mio infinito si propone dunque come una storia d'amore e di formazione, e allo stesso tempo come un romanzo-gioco che sfida chi vi partecipa a scovare allusioni e trucchi. Anche se il nostro personale orientamento estetico e il nostro gusto artistico ci portano a non entusiasmarci troppo di fronte ad un prodotto del genere, si deve tuttavia riconoscere che la fusione tra quei due registri è svolta in maniera particolarmente efficace dal punto di vista della resa narrativa. Il libro rappresenta anzi, in tal senso, un autentico approdo, per quanto provvisorio, di un ideale percorso dell'autore.
La differente forma in cui sono organizzate le sue tre opere implica infatti un diverso scopo per il quale viene in esse utilizzato il doppio registro. Il primo libro, Woobinda,3 non è innanzitutto una storia unitaria: si tratta piuttosto di un sanguinolento patchwork di racconti frammentarî. Tale assenza di narrazione impedisce, di fatto, una finalità del doppio registro sul piano, appunto, narrativo. La doppiezza, così, più che al costituirsi del messaggio è strumentale alla ricezione dello stesso. I due tipi di destinatario che il double coding presuppone sono quindi considerati del tutto separati all'interno della concreta realizzazione del discorso (cosicché, se l'un tipo di pubblico legge dei semplici raccontini usa e getta - pulp -, l'altro è portato per lo più ad attuare un'analisi sociologica dell'opera in rapporto alla realtà contestuale).
Nell'opera successiva, Puerto Plata Market,4 il soggetto scrivente inizia a comporre una storia dalla forma più definita. Il procedimento retorico comincia dunque ad operare entro la «funzione poetica» (nei termini di Jakobson), sebbene il romanzo sia ancora troppo frammentario perché quella cifra stilistica possa esprimersi pienamente in quel senso. Inoltre, la scelta della materia e di un protagonista-narratore piuttosto lontani dalla realtà individuale del soggetto scrivente rende ancora ben distinte le due modalità di ricezione e i due tipi di pubblico.
Amore mio infinito, finalmente, realizza una narrazione compiuta. L'utilizzo del doppio registro, allora, viene applicato in maniera pienamente strumentale al messaggio, producendo, per così dire, un «compattamento» dei due piani. La duplicità in questione si traduce allora rispettivamente, al livello del ricevente, nei procedimenti di finalità e di gioco, che in tal modo appaiono in una equilibrata compresenza.

Ma c'è di più. Come ha sostenuto Eco, l'enunciazione al quadrato non priva il messaggio della sua validità semantica.5 In altri termini, nonostante Amore mio infinito sia composto per intero da parole e stili altrui, il suo contenuto non perde in significanza. Pertanto, il lettore più avveduto potrà, con una maggiore consapevolezza critica, usufruire ugualmente della narrazione di cui gode il lettore-consumatore. Ci permettiamo invero di avanzare seri dubbi sul fatto che un racconto «tra virgolette» (parafrasando un'espressione della Hutcheon)6 possa mantenere tutta la sua consistenza al momento della ricezione da parte di un lettore colto. Tuttavia, non possiamo esimerci dal rilevare che questa scelta retorica e narrativa comporta una diversa posizione, rispetto alle opere precedenti, del soggetto scrivente nei confronti della sua materia e del pubblico. Ci pare inutile stabilire quale sia la causa e quale l'effetto, se abbia cioè la precedenza, nelle intenzioni dell'autore, la strutturazione del libro o il rapporto con i lettori. Meglio, invece, far notare come anche in questo caso si sia verificato un percorso progressivo di avvicinamento, nell'arco delle tre opere. La prima, infatti, vede il soggetto scrivente del tutto distaccato dalla sua materia (in maniera idealistica ed onanistica, secondo F. Pezzarossa);7 e si può ogni tanto scorgere, mediante riflessioni extra-testuali, il suo ghigno profondamente ironico. In seguito, un minore distanziamento, sebbene appaia nella forma, è in realtà assente per intero nella sostanza di Puerto Plata Market (per i motivi di cui abbiamo già fatto menzione). La situazione, da ultimo, di Amore mio infinito appare perlomeno problematica. Potremmo infatti pensare che la creazione di quell'intellettualistico gioco lasci il soggetto scrivente nella sua postazione distante e ironica, gerarchizzando conseguentemente i due tipi di pubblico chiamati in causa. Oppure, basandoci anche su quanto visto riguardo al doppio registro, potremmo ipotizzare un parallelo tra lui e il narratore-protagonista (non trascurando però di problematizzarne la liceità). Saremmo quindi portati a credere che il soggetto scrivente si sia forse rassegnato ad entrare nella realtà, così come l'altro, nel romanzo, si adatta al contesto esterno (rinunciando postmodernamente a qualsiasi individualità per essere tutto e nulla al medesimo tempo). Ma che nel fare questo, in ogni caso, conservi l'acutezza dello sguardo e la consapevolezza che sono proprie, tradizionalmente, dello scrittore o del poeta. Confessiamo che ci piacerebbe poter credere che sia proprio così, ma la questione va necessariamente lasciata aperta.

Resta da fare un'ultima notazione, tenendo forse arbitrariamente distinte le due letture, ed accordando maggiore importanza a quella esperta. Abbiamo riscontrato come, da questa ottica, manchi nel romanzo una finalità utilitaristica e d'intervento sul reale. Tale intendimento risulta sostituito dalla pura e semplice «funzione poetica», che sempre a parere di Jakobson si ha quando «l'accento [è] posto sul messaggio per se stesso».8 Allargando questa concezione dall'ambito meramente linguistico a quello poetico in senso stretto, si potrebbe dire che ciò che informa il romanzo è, in definitiva, l'autoreferenzialità tipica della poesia di matrice petrarchesca (che secondo Contini perdura fino a Montale). In conclusione, allora, sembra quasi che Aldo Nove (alias il poeta Antonello Satta Centanin) si sia accorto che la scrittura postmodernista può perseguire (anche se certo in altri modi) la stessa finalità di quel tipo di scrittura poetica, e abbia perciò scelto per il suo romanzo un tema lirico per eccellenza. È questa, certo, un'ipotesi forte che appare della stessa sostanza dei voli «filosofico-pindarici» di certa critica decostruzionista. Ancora una volta, però, il nostro orientamento estetico (nonché una certa nostalgia umanistica) ci spinge a correre tale rischio.

 

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Giugno 2001, n. 1