Micol Argento: progetto di ricerca
Su Manganelli: «Questo infinitamente riscritto palinsesto universale»
Il progetto mira a delineare un'indagine della scrittura di Giorgio Manganelli che tenga conto della fitta tessitura o rete infratestuale che la peculiare operazione manganelliana - la riscrittura - prevede, e che fa del testo di questo scrittore una sorta di raffinato precocissimo ipertesto in cui la mobilità e l'inesauribilità ermeneutica giocano un ruolo dominante. La riscrittura è, infatti, ricorrente tra le attestazioni di poetica disseminate lungo un percorso letterario che esordisce nel '64 con Hilarotragoedia e si sviluppa tra scritture critiche (La letteratura come menzogna, del 1967), giornalistiche, romanzi e saggistica (segnalando naturalmente anche l'attività di anglista, per la quale la cronologia della sua opera risale al 1946, con la traduzione di Fiducia di Herny James). Questa operazione può essere perciò un possibile termine di confronto critico per tutta la sua ingente produzione letteraria: essa rappresenta l'altro lato della chiave retorica con cui l'autore elabora il suo «infinito palinsesto». Per seguirlo, occorre aggirarsi tra le letterature moderne e quelle antiche, cimentarsi con linguaggi babelici, umoristico-parodici, arcaicizzanti, tra tanti neologismi; occorre anche viaggiare in luoghi lontani, nell'altrove dall'occidente - l'India -, esplorare i luoghi dell'inconscio (il sacerdote della retorica venne in contatto con la psicanalisi attraverso l'incontro con Ernst Bernhard e con i testi di Hillman, presenti nella biblioteca dell'autore e da lui recensiti). Non mancano saggi d'arte, raccolti ora nel volume Salons, prose destinate a coprire uno spazio speciale affidatogli nella rivista «FMR», il salon all'interno del quale il recensore poteva celebrare i suoi riti retorici sfogliando i cataloghi delle mostre d'arte, e non mancano neanche interventi di critica musicale. Un aspetto significativo dell'operazione di scrittura è il fatto che la struttura dei testi, dei corsivi e delle centurie è omologa, e tende alla riduzione dell'infinito linguistico negli spazi inesorabili di una misura breve e rigorosa, obbediente alla tirannia del ritmo. All'uscita di Centuria, Manganelli dichiarava:
Avevo per caso molti fogli da macchina leggermente più grandi del normale, mi è venuta la tentazione di scrivere sequenze narrative che in ogni caso non superassero la misura di un foglio: è un po' il mito del sonetto, cioè di una scrittura rigida e vessatoria con la quale lo scrittore deve misurarsi
Ho l'impressione che i raccontini di Centuria siano un po' come romanzi cui è stata tolta l'aria. [
] la mia definizione di romanzo? Quaranta righe più due metri cubi d'aria. Io ho lasciato solo le quaranta righe.
L'attitudine sperimentale di questa prosa è evidente: in Leggerezza del sonetto il «Manga», dettando le ferree regole del piccolo componimento, istituisce una parentela con il più classico dei metri italiani, ritornando a rendere ragione della «dura brevità» o della «esigente brevità» cui corsivo e sonetto devono sottostare, dell'obbedienza a un ritmo e a una struttura rigorosamente «carceraria». Ecco un primo momento della riscrittura (cui si lega una propensione parodica), considerata nel caso eclatante di Centuria, dove ritmo e brevità dichiarano che la scrittura non risponde alle ragioni dell'autore ma ad una serie di regole che lo trascendono. Una scrittura giocata sul passo breve fornisce subito una chiave critica precisa: quella della divagazione capricciosa, del tema del non avere nulla da dire come origine della macchina retorica che istituisce il pieno di una riga bianca. Sulla natura del testo letterario per Manganelli, preziose sono le indicazioni fornite in sede teorica negli scritti programmatici di Letteratura come menzogna, nei quali si inizia un'operazione di scrittura e di rilettura sotto il segno della «menzogna», concetto che vuole esaurire l'ultimo residuo del dibattito su vero e invenzione nel romanzo, di ascendenza ottocentesca e manzoniana. Assai importanti per la nostra indagine sono anche lo scritto sull'Avanguardia, poi raccolto in Il Rumore sottile della prosa con il titolo di Avanguardia letteraria, e quello proposto alla redazione di «Grammatica» intitolato La carne è l'uomo che crede al rapido consumo (trascrizione di un dibattito tenuto durante una riunione del gruppo '63) dove si accenna alla condizione di «resistenza» del testo. A questa idea si aggiungono, nella trattazione, altre condizioni formali del testo, inteso come provocazione, invenzione, gioco, menzogna, opacità, oscurità, enigma, sempre poste in rapporto a qualche cosa che elude ogni definizione. La costruzione di questo complesso impianto retorico prevede inoltre un sistema di immagini e di simboli (il grande animale in Dall'inferno) non facilmente riconducibili ad una ermeneutica teologica; le immagini e i simboli non si lasciano ricondurre a un referente, ma vanno a costituire l'inesauribilità del testo, il suo essere enigma ed espressione di un indeterminato: nascono e si depongono sulla pagina come visioni retoricizzate e demetaforizzate. Si svolge così, parallela all'«infinitamente riscritto palinsesto universale», un'operazione di rilettura letteraria che del primo momento va a costituire il fondamento:
Qualche tempo fa, non molti mesi, mi son messo a rileggere dei libri che avevo conosciuto, frequentato, variamente diletto. Si dice spesso che in Italia si legge poco, e forse non è più vero come una volta; certo molto si legge; ma quanto si rilegge, vorrei sapere? Una civiltà letteraria non è fatta di letture, è fatta di riletture; forse semplicemente una civiltà. Ci sono generazioni che hanno conseguito una dignità duratura leggendo e rileggendo un solo libro, la Bibbia. Non leggevano altro, ma tanto bastava a farli individui colti, talora artisti, letterati, scrittori.
[
] Rileggere è un'esperienza che non ha nulla a che fare con il leggere.
A nessun classico Manganelli ha riservato maggiore attenzione che al Leopardi delle Operette morali: e proprio le Operette morali sono, in Leopardi, il testo universale di una intera vita letteraria. I tributi dedicati a quest'opera sono sempre reverenti e privi della coazione provocatoria e irridente con cui solitamente il cerimoniere si dedica alle riletture della sua vita. Tra le notizie critiche di argomento leopardiano, la bibliografia manganelliana offre un articolo apparso sul «Corriere della Sera» del 15 luglio 1984, dal titolo La disperazione diventa Gioia, ripreso poi in Laboriose inezie (1986) e in Antologia Privata (1989), nonché rimandi e allusioni disseminate nei tanti corsivi (fra gli altri, un riferimento alla Crestomazia italiana di Leopardi come uno dei grandi libri del genere critico in Italia, nell'800: «Qualche centinaia di pagine di citazioni, ritagli testuali, nient'altro; ma se volete entrare nelle voluttà segrete della letteratura, forse non c'è nient'altro»). È interessante affiancare a questi l'intervento pubblicato sul «Corriere» il 27 marzo dello stesso anno, dedicato all'altro monumento delle patrie lettere, Dante (La «Commedia» letta tutta d'un fiato, anch'esso poi compreso in Laboriose inezie), in cui invece si trovano paragrafi di sardonica provocazione, a testimonianza ulteriore di una sacralità inviolabile riservata esclusivamente a Leopardi.
Il percorso manganelliano è però costellato di riferimenti puntuali al testo dantesco; questo non sorprende, se si considera il motivo discenditivo, che costituisce un tema dominante, da Hilarotragoedia a Palude definitiva a Dall'inferno. Altre testimonianze della predilezione verso Leopardi sono invece l'intervista dell'83 intitolata Manganelli: difesa dell'aggettivo, riportata in G. Nascimbeni, Il calcolo dei dadi. Storie di uomini e di libri, (Bompiani, Milano, 1984) e i due interventi compresi nel volume: Quel libro senza uguali, le «Operette morali» e il Novecento italiano (Bulzoni, 2000), che contengono due interessanti inediti manganelliani. Il primo è dedicato al libro di Guido Morselli, Dissipatio H. G., il «dialoghetto leopardiano» tra Ercole e Atlante; nel secondo, dal titolo Giorgio Manganelli legge Giacomo Leopardi, lo scrittore si presenta non nella sua veste di abile scoliasta ma in quella meno attendibile, criticamente, del lettore «innamorato». Il breve intervento sul testo di Morselli è prezioso anche per il tema, in Manganelli ripetuto e onnipresente, della non-morte (Hilarotragoedia, Dall'inferno, La palude definitiva, La notte), del «sopravvissuto» e di una conseguente temporalità scardinata dai parametri del «prima» o «dopo», di una temporalità differita e già anche esaurita, condizione dell'infernale e di tutto il percorso discenditivo:
Il sopravvissuto si diverte a fantasticare una generale assunzione in cielo dell'intera razza umana: il cielo come aspiratore silenzioso ed istantaneo. Ma egli sa cosa significa quella dissoluzione. «Un mondo tutto corpo viene scorporato». Un mondo tutto corpo è identificabile con la morte; è la morte. Dunque il mondo si è metaforizzato in morte. Il sopravvissuto si è salvato perché, innamorato della morte, ha trovato al suo posto la vita
Morselli ha rovesciato i termini di una corrispondenza cosmica. Il suicida è vivo, i vivi sono, non già «morti», ma «la morte».
In Dall'inferno la condizione infernale è sospesa proprio in questo non-luogo, la morte è una condizione di non-morte che rende di difficile comprensibilità l'idea di tracciare un confine tra ciò che precedentemente era la vita e l'eventualità di una sopravvivenza in una condizione di non-morte, di sopravvvenza alla morte e alla vita:
Dunque non è inferno, O forse è inferno, Ma allora era ed è inferno, sempre. Prima e dopo la condizione che diciamo di vita. (Dall'inferno).
Di queste risonanze nel testo manganelliano è facile rintracciare una possibile genealogia nel Dialogo di F. Ruysch e delle sue mummie e nella Storia del genere umano, dove Giove profetizza agli umani che verranno «privati della speranza» al punto che «la comune usanza dei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti».
La prassi con cui Manganelli si avvicina alla letteratura, altrove definita «eterodossia del cuore», si caratterizza però sempre più come una vocazione sentimentale e autopunitiva, una coazione che spinge l'autore a fornire autorappresentazioni di sé in forme di mostro e di virtuosistiche e quanto mai ripugnanti figurazioni animali (che istituiscono anche una potente valenza allegorica delle immagini), una pulsione coatta a penetrare il cuore di tenebra del «male metafisico» nelle pieghe del corpo, del proprio io fisico:
Il metodo dello studiare, e dell'usare dello studio come nutrimento di idee, è tutt'uno con il saper coscientemente riconoscere noi stessi, e naturalmente aderirvi. I libri non esistono: ma esiste il nostro farsi carne di loro. E sono anni che mi affatico a cercare il come, e tra i miei libri me ne sto goffo e prepotente come un orso. Sono afflitto da una vera, continua, maligna impotenza, che riconosco affatto estranea al mio carattere
È la mia volgarità, una sorta di fisiologicità intellettuale.
È possibile qui rinvenire, nel farsi carne dei libri, l'ascendenza dall'ormai iconica immagine delle «sudate carte», dei «sette anni di studio matto e disperatissimo», coi quali il giovane Leopardi ipotecò l'intera esistenza; ritroviamo poi, nuovamente, il corpo di Manganelli nella traduzione dei versi di Spender raccolti nel quaderno dal titolo: Solo il mio corpo è reale (G. Manganelli, Solo il mio corpo è reale, Quaderni di via del vento, 1997).
Nel nodo che stringe Leopardi tra la connaturata felicità linguistica, una «letizia che non ha peso e forma quotidiani, una delizia mentale, quale può dare, pensiamo, solo la musica» e la morsa del carcere corporeo sta anche tutta la problematica della narrativa manganelliana (l'inferno del carcere, la desolazione, il deserto). In questa «felicità» egli rinviene il paradosso di un'intera prassi letteraria, rileggendo così secoli di letteratura e fornendo insieme un'apertura alla comprensione del suo esperimento narrativo:
Alla disperazione, intesa a questo modo, credo che il lettore sia debitore di quella intollerabile nitidezza, quella assoluta cristallizzata esattezza, e insieme della lievità del discorso leopardiano, e quell'esiguo e insieme pervasivo umore estatico.
[
] così è impensabile Leopardi senza la figura della «disperazione»; ma questo appunto conta, che sia figura
Possiamo ammirare la sottigliezza con cui Leopardi ha trasformato un affetto, un sentimento o che altro sia, in una figura; per la superba dinamica con cui ha trasformato un concetto in parole, frasi, scansioni, clausole: in letteratura. (G. Manganelli, Leopardi, Operette morali).
In queste righe si può ricostruire la genesi del laboratorio di Manganelli, di un mondo letterario nuovamente «infinito» («mi fingevo un nocciolo di nulla»), con le sue mappe che inesatte «stormiscono», come esito estremo del linguaggio leopardiano («Io nel pensier mi fingo»; «il vento / odo stormir
»), un universo che fa della «conversione retorica», del «trapezismo linguistico» la sua patologia.
L'edificio teorico manganelliano, stabilito nell'epocale scritto critico: La letteratura come menzogna, dove trova da subito sistemazione la poetica dell'artificio retorico («tutto è falso, perché tutto è stile e forma»), della danza linguistica cerimoniale, già è portatore del presupposto di una letteratura intesa come fantasmatico alleggerimento dal gravame corporeo, motivo che va a costituire la ragione umanistica del «dolore dell'uomo» da Leopardi a Beckett.
Un altro confronto assai istruttivo può essere qui tentato con Calvino, in particolare tra la lettura leopardiana proposta nelle Lezioni americane e il carattere di «leggerezza» ed «esattezza» connaturato secondo Manganelli alla scrittura delle Operette. In una lettera di Calvino a Manganelli si legge: «Hai trovato la definizione esatta [
] del rapporto tra quello che Leopardi dice e il piacere che dà a leggerlo, la leggerezza con cui abita e filosofeggia la sua tristezza e noia». Fertile di sviluppi è anche l'indagine sul fantastico italiano, tema caro tanto a Calvino che a Manganelli - i due maggiori operettisti del novecento -, un genere che ha origine con la rilettura delle Operette morali e si sviluppa nella letteratura del secondo novecento, passando attraverso Landolfi a sua volta mediatore della lezione di Leopardi. Anche Centuria prevede segretamente un suo «leopardismo», come Dall'inferno inventa un fantastico cosmologico di luna e tenebre, in cui facilmente si legge Il Tramonto della Luna e una rete invisibile di rimandi alla letteratura «cosmologica» che parallellamente Calvino elaborava con le Cosmicomiche (La distanza della luna, Gli anni luce).
Manganelli così descrive la peculiare soluzione elaborata da Landolfi in relazione all'esaurimento storico del modo fantastico:
Nei racconti di Landolfi si aggirano spaventi futili, inconsistenti, sinistri quanto divertenti; come a dire fantasmi minuscoli, mostri da vetrina, deformità un poco buffonesche. In questa miscela di ridevole e torvo, miscela che s'accende e balena e scompare in un attimo, sta la grazia aspra dello scrivere di Landolfi. La «storia» poco conta, è solo l'acceleratore, il tracciato di un divertimento - nel senso musicale - della fantasia e del linguaggio.
Per Manganelli il filone fantastico dell'800, riserva sterminata di palinsesti che padroneggia e riscrive nel suo cerimoniale linguistico, è da Landolfi (la cui narrativa è a sua volta rete ipertestuale) ridotto, riassorbito nei «generi intercalari», «virgolettato», e naturalmente parodiato. La linea landolfiana rappresenta in questo modo l'archetipo narrativo del serbatoio di sottogeneri del fantastico, di volta in volta catalogati, parodiati e infine stereotipati, di un testo come Centuria. Manganelli rinviene, nella moltiplicazione dei possibili ipotesti di riferimento nella prosa iperletteraria di Landolfi, un nuovo filtro per accedere a Leopardi e la chiave di volta del passaggio da un fantastico classico ottocentesco (nella definizione todoroviana) al fantastico novecentesco, parodico e riformulato nei modi del pastiche. È per mezzo della moltiplicazione dei filtri intertestuali, della molteplicità dei generi «menzionati» e del groviglio dei relativi sottogeneri che Manganelli realizza, come Gadda, la sparizione dell'autore, il depistaggio sistematico operato ai danni del lettore dalla coazione alla digressione, che dissipa la voce dell'autore con un effetto, tuttavia, di «alleggerimento fantasmatico». A monte delle suggestioni del Manuale di zoologia fantastica di Borges, del Calvino delle Cosmicomiche e di Landolfi, stanno in ogni caso le Operette morali, «livre de chevet» per Manganelli come per gli altri autori. Del resto, proprio le Operette sono portatrici di una vivacissima moltiplicazione di generi, di varietà di toni e stili, e del rovesciamento parodico e comico di ciascun genere.
È interessante osservare come, per diverso percorso, tanto Leopardi che Manganelli giungano ad una corrosiva disgregazione delle strutture del pensiero e dei residui ideologici, che sortisce come effetto la predilezione per la mutabilità dei modelli, per la varietà degli stili e al tempo stesso per le forme brevi (le Operette in luogo delle Opere). Nel caso di Leopardi, a sostituirsi all'ideologia fortemente reazionaria dell'impostazione famigliare è un ideologia di matrice illuministica e lucidamente razionalistica («l'arido vero»), mentre in Manganelli un'ideologia di segno marxista-fideista è in conflitto con l'ortodossia cattolica famigliare.
Un'altra linea di ricerca è rappresentata dall'analisi del modo in cui gli spostamenti di genere, di forma prospettica, di personaggi, di lingua e stile derivano da un'idea del libro come summa di sottogeneri, che Leopardi ha potuto ricavare da Luciano, e che Manganelli a sua volta eredita dal recanatese. Luciano fornisce a Leopardi il modello generale delle Operette e insegna a Manganelli e agli autori novecenteschi una tecnica linguistica, un'operazione di «reductio» in figura d'iperbole (in Leopardi di chiara eredità lucianea è il «diminutivo positivato» adoperato nelle Operette). Altrettanto rilevante, inoltre, è il ruolo di Daniello Bartoli nello sviluppo della prosa di Leopardi: come Manganelli, peraltro, anche Bartoli viaggiò da «pellegrino solitario» (così è definito, in Laboriose inezie) in luoghi percorsi da altri, luoghi comuni, topoi, figure da altri frequentate e rimesse nuovamente su carta («un luogo è un linguaggio: noi possiamo essere qui solo accettando le regole linguistiche che lo inventano [
]. Un linguaggio è un gigantesco come se: una legislazione ipotetica che in primo luogo inventa i propri sudditi: i luoghi, gli eventi»). A questo proposito è doveroso ricordare che Manganelli ha ripercorso con audace spregiudicatezza molta scrittura seicentesca; la sua produzione narrativa può essere letta come parodia del trattato retorico seicentesco, da cui eredita i caratteri di convenzionalità e artificiosità dell'ordigno narrativo e una costruzione narrativa che quanto più appare perfetta, tanto più adombra la sua dimensione di costruzione «faticosa» e manieristica: Nuovo commento, ad esempio, realizza un calco della macchina retorica dei trattati barocchi. Un'altra importante fonte seicentesca è Traiano Boccalini, che compare tra gli autori politici seicenteschi sui quali Manganelli elaborò la sua tesi di laurea (ora pubblicata con il titolo: «Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano»), autore de I Ragguagli di Parnaso, testo che istituisce una tradizione retorica alternativa alla linea dantesca e filtra nei Paralipomeni di Leopardi. Indubbiamente Manganelli opera in continuità con l'operazione di decostruzione del genere già intrapresa da Leopardi nelle Operette, e si spinge, da parte sua, verso l'iperbolico-grottesco esasperandone la figuralità violenta, la cosmologia parodica, demitizzante e umanizzata. Consideriamo Hilarotragoedia e il suo culmine stordente, la vertigine acrobatica, l'iato tra «basso» fisiologico e «alto» cosmologico: Hilarotragoedia appare opera di un autore che, nel Novecento, lettore di Leopardi e di Nietzsche, aveva saputo rovesciare in sottile ironia il dolore, insieme con il Palazzeschi di Controdolore, l'Ungaretti di Allegria di naufragi, il Gadda del Pasticciaccio e il Beckett del «risus purus».
Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2001
Giugno 2001, n. 1
|