Rocco Ronchi
Il filosofo e la sua ombra. Margini letterari e filosofici

 

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Confesso subito che ho esitato ad accettare l'invito per un motivo molto semplice, perché sul tema specifico dei generi marginali del Novecento non credevo di avere nulla da dire in particolare.
Poi però ho fatto una riflessione: alcune delle persone con cui ho avuto modo di incontrarmi mi avevano conosciuto a partire da un testo che si intitola Luogo comune, che è un testo di ermeneutica della poesia che si muove, sostanzialmente, su un'ipotesi etica, cerca cioè di definire la possibilità di uno spazio etico che sia fondato sull'esperienza di una finitezza radicale, partendo dal presupposto che sia questo il centro della comunicazione. Riflettendo su questo fatto, ho pensato che, di fatto, come autore di questo testo io frequento un genere che si potrebbe dire, in un certo senso, non so quanto marginale, ma sicuramente un genere che nasce dal venir meno di un margine. Un margine che separa due attività discorsive, che sono la pratica teorica, da un lato, e la letteratura, la critica letteraria dall'altro. E non si tratta di un margine qualsiasi, perché, questo solco tra un dire veritativo-filosofico e un dire l'ombra, cioè una finzione letteraria, è un solco istitutivo l'episteme occidentale. Basta prendere la Repubblica di Platone e ci rendiamo conto che fissare il margine tra queste due pratiche discorsive ha avuto un senso fondativo per la storia dell'Occidente.
Ed è vero che oggi assistiamo tutti, sia che veniamo da competenze filosofiche sia che veniamo da competenze letterarie, ad un progressivo livellamento della differenza specifica tra letteratura e filosofia. Ciò ha prodotto un genere che può suscitare e suscita molte perplessità, una svolta estetica, stilistica della filosofia, come è stata chiamata da un interessante autore tedesco, Frank.

Ecco, Habermas. E vorrei partire dalla sua affermazione perché rappresenta la posizione opposta a quella che vorrei sostenere io in questo intervento. Habermas, criticando Derrida, nel Discorso filosofico sulla modernità ha scritto che «quando viene esonerato dal dovere di risolvere problemi e quando viene rifunzionalizzato come critica letteraria, il pensiero filosofico è privato non soltanto della sua serietà, bensì anche della sua produttività e capacità di prestazione». È evidente che serietà, produttività, capacità di prestazione del discorso filosofico, consistono per il filosofo tedesco, appunto, classicamente nel dire veritativo. «E lo stesso» - continua Habermas - «accade al giudizio estetico, quando viene convertito dall'appropriazione dei contenuti estetici a critica della metafisica». È evidente che, in questo caso, serietà, produttività, capacità di prestazione del discorso critico-letterario consistono per Habermas, di nuovo classicamente, nell'appropriazione di contenuti estetici, cioè nella «funzione ponte»: la critica letteraria ha come compito quello di creare un ponte tra i contenuti estetici prodotti dall'opera e il linguaggio normale, di chiarire le ombre e le finzioni che vengono prodotte da chi opera poeticamente. La conclusione che trae Habermas è la seguente: «La falsa assimilazione dell'una attività all'altra priva entrambe, pensiero filosofico e giudizio critico-letterario, della loro sostanza».

La mia tesi è che tale livellamento della differenza specifica tra filosofia e letteratura sia da intendersi non come pasticcio, che è la tesi di Habermas, ma come necessità. Necessità alla quale la filosofia e la letteratura, l'esperienza letteraria in senso ampio non possono sottrarsi nella contemporaneità. E non possono sottrarsi perché se si sottraessero a questa reciproca autodissoluzione verrebbero meno alla loro specifica vocazione. Dunque non si tratta di un tradimento ma di una fedeltà estrema alla propria vocazione.

Siccome Habermas mantiene questa partizione classica, platonica tra dire veritativo-filosofico, da un lato, e dire l'ombra, raccontare le ombre, come fanno i Filodossi nella Repubblica di Platone, allora io partirò provocatoriamente da un verso di Paul Celan, uno dei poeti più saccheggiati dall'ermeneutica della poesia. Si tratta di un verso abbastanza noto, tratto da una poesia che si intitola Parla anche tu e dice molto semplicemente: «Dice verità chi dice ombra».
Lo cito perché è chiaro che in questo verso il solco platonico viene saltato d'un balzo. Un simile enunciato sembra naturalmente appartenere per principio ad uno spazio extra filosofico. L'ombra infatti è ciò che la verità dissipa, il fondo della caverna dal quale bisogna uscire.
Ora, la cosa che mi pare da sottolineare è che nel suo verso Celan nomina insieme la verità e l'ombra e ci dice che dire la verità è dire l'ombra. Mi pare che sia inutile ricordare che dire la verità è proprio il compito esclusivo del filosofo. Assumendosi questa responsabilità egli mostra di appartenere ad un'illustre schiatta, quella degli aedi, quella degli storici nel senso arcaico del termine cioè dei testimoni di una rivelazione. Però, a differenza del maestro di verità arcaico il filosofo sa rendere ragione della propria testimonianza in una parola che è sì originariamente dialogica, dialettica, ma ben presto si rivolge all'uno come alla sua specifica destinazione. Parola universitaria, parola monologica non corrotta dall'ombra dell'ignoranza. Che è poi lo stesso ideale regolativo della comunità della comunicazione illimitata di cui parlano Apel e Habermas.

Quando Platone nella Repubblica vara ufficialmente la parola filosofia, lo fa proprio in opposizione ai dicitori dell'ombra e ai suoi amanti, i Filodossi, questa gente perduta tra teatri e spettacoli che sono sedotti dalle apparenze e intossicati da immagini che solleticano la loro parte patetica, non la loro parte razionale.
Ora Celan sostiene invece che dire la verità è dire l'ombra, e dal tenore della sua affermazione non sembra affatto che si tratti di trovare semplicemente uno spazio di dicibilità per l'ombra accanto alla verità; non ci sta dicendo che bisogna dire anche l'ombra oltre che la verità. Questo semmai è stato proprio il compito; rendere dicibile anche l'ombra accanto alla verità è stata la sfida raccolta da tutta la filosofia classica post-parmenidea. Celan non dice questo, non si tratta di dire anche l'ombra accanto alla verità, ma si tratta di dire la verità, cioè di dire l'ombra, le due cose sono la stessa. La verità è l'ombra. Anche questa identità, io credo che vada pensata fino in fondo. Celan, infatti, non sta in alcun modo sostenendo che non c'è altra verità che l'ombra, non assume cioè una posizione postmoderna, per così dire, da apologeta del gioco dei simulacri: è venuto meno il dio-fondamento quindi la sola verità è il mondo delle ombre, per cui godiamoci questa vita perché questa vita è un grande gioco.
Non è questa la posizione di Celan, non sta dicendo che la verità si è ridotta ad ombra, sta dicendo che dice la verità chi dice l'ombra, la verità è l'ombra e l'ombra è la verità.

Si potrebbe uscire da questo groviglio di paradossi dicendo che Celan è un poeta e che il suo verso non può essere utilizzato filosoficamente, cioè non può essere utilizzato come conoscenza proposizionale. I versi sono versi e non possono prescindere dalla loro forma di verso, la filosofia è prosa e non può prescindere dalla sua apparente assenza di forma. La filosofia è, infatti, concetto, e il concetto è puro contenuto, è un noema indifferente al supporto manifestativo che indossa, direbbe Husserl, un puro contenuto, un puro concetto indifferente allo strato espressivo che lo riveste.
Molto semplicemente questo discorso, al di fuori di ogni tecnicismo si riduce a questo: la poesia è intraducibile, la filosofia è per definizione traducibile, perché se la filosofia è autentica filosofia, e non chiacchiera, deve essere scienza della verità, e la verità come la luce non può avere idiomi. Al contrario, la poesia è il regno delle ombre, l'ombra è per definizione idiomatica. Tradurre la poesia diventa, in qualche modo, travisare l'essenza del gesto poetico, perché per tradurre devo passare dalla prosa e passando dalla prosa elimino l'essenza formale della poesia.

In realtà, io credo che proprio il verso di Celan dica qualcosa di fondamentale sul dialogo tra filosofia e poesia e sulla necessità di questo intreccio nella contemporaneità. E intendo la parola necessità in senso forte, la intendo cioè nel senso schiettamente filosofico in cui lo intendeva Aristotele nel libro primo della Metafisica, quando diceva: «La filosofia è scienza della verità, ma attenzione, la verità non è l'oggetto ma è il soggetto. È la verità che ci cerca e ci stana, ci chiama e ci chiede di corrisponderle». C'è tutta un'idea persecutoria della filosofia come scienza della verità nella nostra tradizione, proprio perché la verità è il soggetto del discorso filosofico, non l'uomo.
Eraclito diceva: «Non ci si può nascondere a questo sole perché questo sole illumina tutti». Non possiamo sfuggire all'appello della verità.

Intendo la parola verità in questo senso perché intendo il dialogo tra filosofia e poesia, che si sta realizzando in un ampio ambito della contemporaneità, come un dialogo necessario per un appello della verità stessa. Ma, se è così, bisogna trovare quanto sto cercando di sostenere non soltanto a partire da Celan, che è evidentemente un pretesto per cercare di sviluppare il discorso. Occorre trovarlo anche nella parte più avanzata della filosofia contemporanea. Perché, se la filosofia contemporanea è scienza della verità nel senso del genitivo soggettivo, cioè nel senso classico, è la filosofia stessa che deve contenere, al suo più alto grado di elaborazione, questo appello della verità a essere cercata nella dimensione dell'ombra. Questo perché l'incontro tra filosofia e poesia non può essere il risultato della congiunzione di due tradizioni linguistiche. La filosofia non deve credere semplicemente di trovare nella poesia il proprio completamento. Piuttosto, in quel dire la verità come ombra e l'ombra come verità, filosofia e poesia spariscono come tali, nella loro consolidata distinzione, forma da un lato contenuto dall'altro, per retrocedere non, come dice Habermas, nell'indistinto della loro confusione, ma per corrispondere più decisamente alla vocazione che le ha sempre animate. E al termine di questa duplice riduzione ciò che resta non è un duplice silenzio, non è l'avveramento del dire veritativo del filosofo e il venir meno di quel gioco d'ombra che sembra essere il poetico, ma il paradosso di una verità che non può esprimersi se non attivando la non-verità che l'accompagna. La non-verità che accompagna sempre la verità, appunto come l'ombra.

Scrive Edoardo Albinati: «Diceva il poeta che una volta vecchi i filosofi si inchinavano alla bellezza e ciò si è puntualmente verificato nell'epoca storica della vecchiaia della filosofia, quando una buona e generosa porzione della ricerca filosofica si è volta all'interpretazione del testo poetico. Con Heidegger. Ma non voglio cominciare questo genere di discorso. Dico soltanto che, da quel momento in poi, gli inchini si sono fatti reciproci e il rapporto tra poesia e pensiero si è fatto incredibilmente cerimonioso, tutto uno scambio di complimenti sublimi, contribuendo alla creazione di una nuova retorica e di un linguaggio settoriale di cui si può prendere visione aprendo a caso qualsiasi rivista di poesia oggi in Italia. In cambio del materiale prezioso che fornivano all'ermeneutica, i poeti ottenevano una specie di benedizione o un lasciapassare per il mondo della serietà. Ovviamente, questa trasumanazione avveniva il più delle volte in barba a qualsiasi serietà filologica, ovvero nel nome di un neocontenutismo piuttosto volgare». Poco oltre aggiunge che «è la stessa essenza formale della poesia a costituire il paradosso di una verità che non può esprimersi se non attraverso il massimo ricorso alla menzogna, ovvero alle tecniche di rappresentazione. In altre parole, la poesia non può dire mai nulla che non si incenerisca nel momento in cui viene violata la sua forma, come quei dipinti antichi che vanno in polvere nel momento in cui si apre la tomba che li conservava. Ma se la forma viene gelosamente custodita e come tale esibita, allora la poesia non può che mentire».
Lo snodo fondamentale dell'argomentazione di Albinati sta in nell'espressione «essenza formale», nella forma poetica. Ciò che resiste all'assimilazione filosofica e quindi all'ermeneutica della poesia, all'appropriarsi da parte del filosofo del testo poetico, ciò che resiste è la forma, l'andare a capo del verso, dico io per semplificare.

Ma, e qui è la mia obiezione, nel momento in cui si rivendica all'essenza formale della poesia questa refrattarietà di principio alla penetrazione filosofica, si presuppone però di fatto la seguente situazione: da un lato, la poesia come regno delle ombre, dall'altro, la filosofia come Aufklärung, come rischiaramento, come esplicitazione.
Se però, al culmine della filosofia contemporanea, come suo compimento e sua autodissoluzione, si trovasse una parola che, in quanto parola della verità, è anche parola dell'ombra, allora la questione dell'interpretazione filosofica del testo poetico dovrebbe essere posta su basi nuove: non più due insicurezze che si stampellano, ma una medesima esperienza che, nell'orizzonte di diverse tradizioni, affiora alla parola. Allora forse, alla nozione filosofica di interpretazione, appunto intesa come traduzione e dissoluzione del gesto formale della poesia nella prosa del concetto, si dovrebbe sostituire quella di corrispondenza simballica, nel senso proprio originario della parola greca symbolon, tra pratiche linguistiche che sono istituite da una medesima apertura di senso.

Si tratta forse ancora di traduzione, ma io credo nel senso rinnovato che dà a questa parola Walter Benjamin. Scrive Benjamin: «Come i frammenti di un vaso, per lasciarsi unire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell'originale, la traduzione deve amorosamente ricreare nella propria lingua il suo (dell'originale) modo di intendere, per far apparire così entrambe, come i cocci di uno stesso vaso, frammenti di una lingua più grande».
L'originale, allora, nell'economia del mio discorso, non è il testo poetico che una teoria filosofica, privata del suo oggetto tradizionale, cioè Dio, si limiterebbe a saccheggiare. L'originale non è nemmeno la teoria, che una poesia senza anima si limiterebbe a versificare. L'originale è la lingua più grande che, tanto il testo poetico, quanto l'interpretazione filosofica, senza somigliarsi, ricreano nella propria specifica lingua. Se è tale la natura dell'intreccio, si dovrà allora ritrovare in qualche modo proprio nel pensiero filosofico lo stesso gesto formale della poesia. In altre parole, ci dobbiamo chiedere: questa parola che dicendo la verità dice l'ombra, e che dice l'ombra come la verità è veramente l'ultima parola della filosofia, quella che le permette quindi di ricreare nella propria lingua il gesto formale della poesia?

Per rispondere a questa domanda non posso che arbitrariamente citare una frase di un filosofo contemporaneo, Merleau-Ponty: «Il compito ultimo della fenomenologia, come filosofia della coscienza consiste nel comprendere il suo rapporto con la non fenomenologia. Ciò che in noi resiste alla fenomenologia, l'essere naturale, il principio barbaro di cui parlava Schelling, non può restare fuori dalla fenomenologia e deve trovarvi un suo posto». La filosofia, e naturalmente io leggo questa frase come il pendant filosofico della frase di Celan, comporta un'ombra che non è assenza di fatto della luce futura. La filosofia comporta il riferimento costante, insuperabile ad un'ombra il quale non può essere inteso come semplice ignoranza, come semplice non sapere, come semplice assenza di luce futura.
In questo passo l'ombra, cioè il non fenomeno, ha perduto quel carattere persecutorio che ha normalmente per il filosofo. Qui fa capolino, come direbbe Derrida, un'ombra fedele al movimento della verità, non più ostile al movimento della verità. Non solo, l'ombra è posta da Merleau-Ponty come situazione iniziale, costante, finale della riflessione fenomenologica. È a un tempo ciò che inaugura la riflessione fenomenologica, ciò che l'accompagna e ciò nella quale essa si conclude.
Ciò che la inaugura perché per vedere io devo inerire al mondo, devo avere una prospettiva data. Questa prospettiva data in qualche modo è più vecchia di me, è questo punto cieco, questa cecità che mi permette la visione. Quindi, inaugura la riflessione fenomenologica, l'accompagna costantemente, e in essa si deve concludere. Perché se la filosofia è fedele al suo compito di scienza della verità deve voler vedere quest'ombra. Di qui il problema di dire quest'ombra e di qui l'attenzione che il filosofo dovrà rivolgere a quel gesto formale che si pone il problema dell'espressione di quest'ombra.

Chiaramente qui si vede la differenza tra quest'impostazione e quella che potremmo definire la hybris delle grandi filosofie idealistiche, cioè di quelle grandi filosofie che vogliono eliminare questo presupposto, questa datità originaria per ritrovarla come prodotto della coscienza. Merleau-Ponty chiama altrove questo fondamento che mi precede e mi costituisce, questa ombra nella quale io sono situato un «il y a», «un c'è» di inerenza al mondo, una fessura che mi rende già da sempre comunicante con esso.
Questa assegnazione originaria della coscienza a una dimensione data, la filosofia tradizionale la scorgeva come un limite, appunto un'ombra persecutoria che doveva essere eliminata. Perché le impediva di essere quella scienza del tutto che essa avrebbe invece voluto essere.

Ora, se la filosofia è veramente fedele a se stessa essa deve allora trovare il coraggio di compiere il passo decisivo. Che cos'è questo passo che deve compiere la filosofia? Filosofare e riflettere. Ma la riflessione deve farsi radicale, andare alla radice. Il che significa ritrovare l'ombra come ombra, non come premessa per la verità futura, ma come situazione che sempre accompagna la filosofia. Che è poi, se ci pensate, ritornare al gesto inaugurale della filosofia, cioè alla meraviglia, al so di non sapere. Quindi, la filosofia quando dice che dobbiamo dire l'ombra come ombra, sta tornando a Socrate e alla meraviglia socratica.
Se questo è il compito ultimo della filosofia, si pone il problema del dire l'ombra senza ridurla a luce. lo credo che la cosiddetta svolta linguistica della filosofia contemporanea debba essere compresa entro questo orizzonte aporetico.
Concludo che la filosofia doveva però anche rivelare alla poesia la sua natura non meramente estetica, l'errore dell'autointerpretazione dello spazio etico come spazio poetico, perché quest'autointerpretazione confermava il gioco platonico, la divisione tra dire veritativo da una parte e dire letterario dall'altro.
Quindi io credo che vi sia in questo genere che nasce dalla dissoluzione di un margine tra pratica discorsiva filosofica e pratica letteraria, ben poco di incredibilmente cerimonioso, come dice Albinati, nell'abbraccio tra filosofia e poesia. Quando esso è sincero, infatti, si rivela certamente mortale per entrambe, ma credo che questo sia un rischio che i poeti e i filosofi accettano di correre per amore di quella lingua più grande di cui parlava Benjamin.

 

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Giugno-dicembre 1999, n. 1