Eleonora Conti
Memoria e menzogna: la narrativa anni Ottanta
di Antonio Tabucchi

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
Il fantastico
Antonio Tabucchi
Il Portogallo e Fernando Pessoa
L'enigma e il sogno
Il metaracconto
Paesaggio e pittura, fantasia e storia



 

«Stia attenta con le [storie] inventate. Rivelano cosa c'è sotto. Tal quale come i sogni».

Cidrolin a Lalice in R. Queneau, I fiori blu

 

§ II. Antonio Tabucchi

I. Il fantastico

Il fantastico come categoria letteraria non ha goduto di buona fama, in Italia, nell'Ottocento (eccettuata la felice parentesi della Scapigliatura) e nel Novecento, tanto che alcuni autori sono stati a lungo relegati al ruolo di "minori"; esclusi o emarginati nelle storie della letteratura proprio perché inclini al fantastico; espunti dal "canone" degli autori da studiare a scuola. Forse, su questa categoria, è pesato a lungo, nel nostro paese, il perdurare delle poetiche realistiche dell'Ottocento e, nel Novecento, il pregiudizio della maggior presa sulla realtà e del maggior impegno da parte della letteratura realistica e neorealista, più adatta, nel giudizio dei critici, a cogliere le contraddizioni in cui si dibatteva la società italiana uscita da vent'anni di dittatura e da due guerre mondiali. Eppure, alcuni dei nostri massimi scrittori del Novecento hanno praticato o costeggiato il fantastico, riuscendo, grazie ad esso, a penetrare nelle zone opache del loro tempo e a mostrarne i tic, le contraddizioni, le debolezze, senza nulla da invidiare alla narrativa realistica. Alcuni di essi, poi, si sono applicati al fantastico con grande libertà, spregiudicatezza e originalità, attingendo ai modelli europei senza complessi di inferiorità. Basti pensare, per citare solo alcuni dei più originali fra essi, già a certo Pirandello; ad Alberto Savinio, Massimo Bontempelli, Tommaso Landolfi, Antonio Delfini, per il periodo fra le due guerre; a Dino Buzzati, Italo Calvino e Anna Maria Ortese per il secondo Novecento. In un certo senso, proprio lo scarso successo ottenuto presso i nostri autori dell'Ottocento dal filone nero e gotico, nato già nel Settecento in Inghilterra e riportato in auge dal Romanticismo tedesco, ha segnato una sorta di cesura, di vuoto, di stacco tra quella tradizione europea e i nostri autori novecenteschi inclini al fantastico, tanto che il fiorire di un filone prolifico e originale, virato verso il surrealismo, specialmente fra le due guerre, sembra quasi sospeso su un vuoto di tradizione, come raramente è accaduto nella tradizionalissima Italia letteraria.

Negli ultimi anni, comunque, superando un pregiudizio di lunga data, anche la critica si è concentrata su alcuni di questi autori rimasti a lungo in ombra (Savinio per esempio, che sta conoscendo una felice fase di riscoperta,1 insieme al fratello Giorgio De Chirico, recentemente rivalutato come letterato; o Bontempelli, sulla cui sorte critica invece si sono alternate fasi di maggiore e minor fortuna) ed è fiorito un certo numero di studi sul fantastico, e segnatamente sugli autori italiani che si sono dedicati ad esso, colmando una lacuna evidente.2 Sulla scorta imprescindibile degli studi di Tzvetan Todorov, la discussione critica si è anche applicata alla definizione del fantastico in quanto tale, ossia, nella fattispecie, alla questione se si tratti di un «modo» o di un «genere» letterario. Nell'estrema varietà delle posizioni critiche, spiccano nel contesto italiano quelle di Lucio Lugnani e Remo Ceserani, che si attestano sull'opzione del «modo», dato che il fantastico «ha avuto radici storiche ben precise e si è attuato storicamente in alcuni generi e sottogeneri, ma poi ha potuto essere utilizzato e continua a essere utilizzato [...] in opere appartenenti a generi del tutto diversi».3 La conclusione sembra essere che il fantastico fatichi a farsi imbrigliare in una griglia tassonomica troppo rigida, e che trascenda i generi letterari, come dimostra il fatto che esso venga consapevolmente utilizzato anche nella lirica. Ciò che va tenuto presente, sottolinea in un recente studio Silvia Bellotto, è piuttosto che

«la fantasia è, anzitutto, una facoltà del pensiero umano di primaria importanza di cui non solo i filosofi e gli estetologi non hanno mancato di sottolineare la centralità rispetto all'idea di verità e di finzione, ma anche gli psicologi hanno recepito tutto il valore in quanto mezzo di contatto e di espressione dell'inconscio».4

Il fantastico dunque come strumento conoscitivo della realtà e di sé, dell'individuo e dell'uomo nella società, in grado di intuirne proprio l'essenza inafferrabile, ciò che non si mostra nell'immediato, ciò che è nascosto o rimosso, ma anche il rapporto col proprio tempo e con i grandi temi della storia.

 

§ III. Il Portogallo e Fernando Pessoa Torna al sommario dell'articolo

II. Antonio Tabucchi

Affrontando questi ultimi e spostandoci nel territorio della narrativa italiana contemporanea, tra i narratori più complessi e rappresentativi del fantastico, un posto di rilievo spetta senz'altro, oggi, ad Antonio Tabucchi (Pisa, 1943), in particolare al Tabucchi del decennio 1981-1992, stagione d'oro dei suoi racconti e dei suoi romanzi brevi.5 In seguito, a partire dal romanzo storico Sostiene Pereira (1994) e col successivo La testa perduta di Damasceno Monteiro (1997), si inaugura una nuova stagione narrativa, in un certo senso non in contraddizione con gli esordi (il romanzo Piazza d'Italia, del 1975, raccontava in fondo la storia di una famiglia di anarchici), in cui il fantastico non è più chiave privilegiata d'accesso al reale e in cui la storia, con i suoi risvolti negativi e talvolta fatali sull'individuo, fa irruzione in modo più diretto sulla pagina. Eppure, a dimostrazione che il fantastico può rappresentare una sfida interessante alla rappresentazione della realtà, proprio il Tabucchi del decennio che prenderò in esame, ha saputo «coniugare in modo memorabile fantastico e brutalità della storia», secondo una modalità caratteristica di uno dei massimi maestri del genere, l'argentino Julio Cortázar (1914-1984), non a caso molto apprezzato dall'autore toscano.6
Antonio Tabucchi è scrittore colto e raffinato, instancabile viaggiatore sempre pronto ad osservare e registrare esperienze ed incontri, a filtrarli attraverso gli autori che ha eletto a suoi maestri, i romanzi che lo hanno segnato, la cultura figurativa che, da buon toscano, costituisce esperienza centrale della sua formazione, il grande cinema italiano, francese e americano, la letteratura portoghese, che insegna all'Università da decenni e che merita un discorso a parte nella sua formazione. Un vero autore postmoderno che ha costruito, racconto dopo racconto, romanzo dopo romanzo, un edificio affascinante per il lettore attento a coglierne i serrati rimandi intertestuali. Quest'ultimo elemento, estremamente significativo della sua opera, è proprio uno degli aspetti determinanti che fanno di Tabucchi un autore postmoderno e che ne ha fatto l'oggetto di diversi studi, negli ultimi anni. Ricapitolando velocemente, per gli artisti del secondo Novecento e sempre più diffusamente dagli anni Ottanta in poi (soprattutto tenendo conto del ritardo italiano rispetto al resto d'Europa e agli Stati Uniti), tradizione ed avanguardia si sono ormai esaurite, il narratore (così come il poeta) procede ad una riscrittura di ciò che esiste già; predilige la citazione, il pastiche, l'ironia; mescola liberamente i generi letterari (in questo caso il racconto) e li manipola fino a deformarli in frammenti, glosse, metaracconti; esplora il tema del labirinto e della torre di Babele, «ironia, gioco metalinguistico, enunciazione al quadrato», come afferma Umberto Eco nelle Postille al Nome della rosa. Insomma, consapevole di essere un «epigono», di vivere in un mondo dove tutto è già stato scoperto, inventa un universo nuovo con materiali che esistono già, non teme più di mescolare «alto» e «basso», scrittura colta e best-seller, citazione erudita e piacere della lettura e, se l'operazione è raffinata, come lo è in Tabucchi, provoca un forte appagamento nel lettore colto con cui condivide gusti e riferimenti culturali.7

 

§ IV. L'enigma e il sogno Torna al sommario dell'articolo

III. Il Portogallo e Fernando Pessoa

Un narratore fantastico e postmoderno, dunque. Ma per introdurne l'opera e comprenderne meglio la peculiarità, non si può non cominciare dal profondo debito culturale di Tabucchi verso il Portogallo. Il legame con la cultura portoghese è infatti radicato e ben presente nella sua narrativa. In particolare, oltre a fare del Portogallo e delle rotte esplorate dai portoghesi (dal Brasile alle Azzorre, dal Mozambico a Macao e Goa in India), lo sfondo di molte sue storie, egli è debitore verso il massimo poeta portoghese del Novecento, Fernando Pessoa (1888-1935), protagonista della grande stagione delle avanguardie primonovecentesche, di cui è traduttore e curatore italiano delle opere. «Pessoa» in portoghese significa «persona» e non può sfuggire la significativa coincidenza fra questa parola, che in latino, come è noto, equivale a «maschera», e il profondo amore del poeta portoghese per la finzione e per il teatro. Egli dotò i personaggi-protagonisti dei suoi libri, che sono altrettante maschere di se stesso, non solo ciascuno di una precisa biografia e personalità, ma lasciò credere per molti anni che esistessero realmente, facendoli pubblicare, ognuno col suo stile, in diverse riviste letterarie e arrivando fino al vezzo di mutare grafia a seconda dell'eteronomo in cui si impersonava.
L'universo metaromanzesco di Pessoa affascina profondamente lo scrittore toscano e ha ispirato e permeato di sé tutta la produzione narrativa degli anni Ottanta. Tabucchi è arrivato a scrivere Requiem (1992), romanzo-allucinazione molto rappresentativo di quella sua stagione narrativa, direttamente in portoghese, in una esperienza di «alloglossia» giustificata semplicemente con una citazione laconica e ammiccante: «On peut oublier dans une langue et se souvenir dans une autre».8 In Requiem, Pessoa appare direttamente, come un fantasma, vivo e presente, nel finale. È personaggio del romanzo, quasi fosse egli stesso, una volta tanto, attore, eteronomo di se stesso, «persona», «maschera», alla pari dei suoi Alvaro de Campos, Alberto Caeiro, Ricardo Reis, Bernardo Soares. Tabucchi in Requiem non solo lo ha evocato, ma ha fatto propria la sua stessa lingua, trasformandola in una lingua della nostalgia e del ricordo, per avere col poeta un contatto più ravvicinato e profondo; si è «estraniato» nel portoghese per mettersi meglio a nudo, raggiungendo uno dei vertici della sua produzione, realizzando la propria dimensione narrativa più originale.

Ma quali temi pessoani improntano di sé questa fase della narrativa di Tabucchi? Essi si potrebbero condensare in alcune costanti principali: l'amore per la finzione, la tendenza a spiare il «rovescio» dell'esistenza, il sentimento della Saudade; questi sono profondamente intrecciati, quasi inestricabili, e l'effetto che producono è un'atmosfera che occorre subito spiegare.
Il concetto di Saudade entra per la prima volta nella narrativa di Tabucchi nel 1981, col racconto eponimo del Gioco del rovescio. La scena è Lisbona: qui il narratore evoca una donna che ha amato in un'epoca del suo passato, Maria do Carmo, e che ora non c'è più; il filo che unisce i due personaggi è proprio Pessoa con i suoi eteronomi, sui cui passi, in un intarsio di flashback e ritorni al presente, i due protagonisti si muovono a zonzo per la città. L'atmosfera che pervade i luoghi fernandini della città è appunto il concetto tutto portoghese e intraducibile di Saudade. Il protagonista ha già vissuto tutto questo, che ora è irrimediabilmente perduto perché la donna è morta portandosi dietro i suoi segreti, e però vorrebbe tornare indietro a quando tutto doveva ancora avvenire, per rivivere quell'incontro in modo «nuovo e identico» allo stesso tempo e sdoppiarsi nell'uomo che insieme non sa ancora e sa già tutto. Saudade infatti è un misto di sofferenza e dolcezza, una nostalgia del passato e del futuro insieme, una «categoria dello spirito». Impossibile ridurla alla pura nostalgia, parola esistente in portoghese. La Saudade può uccidere, come spiega il narratore di Ultimo invito (il racconto che chiude I volatili del Beato Angelico) passando in rassegna, con raffinata ironia, tutte le possibilità che Lisbona offre per togliersi la vita:

«Sulle altre forme di suicidio, per brevità, tacerò. Ma prima di chiudere, una almeno, per correttezza verso tutta una cultura, debbo nominarla. È una forma peculiare e sottile, prevede allenamento, costanza, pervicacia. È la morte per Saudade, in origine una categoria dello spirito, ma un atteggiamento che si può anche imparare, se si ha buona volontà. La municipalità di Lisbona, da sempre, ha disposto sedie pubbliche nei luoghi deputati della città: i moli del porto, i belvedere, i giardini dai quali si domina la linea del mare. Molte persone vi seggono. Tacciono, guardano lontano. Cosa fanno? Stanno praticando la Saudade. Provate a imitarli. Naturalmente è una via difficile da percorrere, gli effetti non sono immediati, talvolta bisogna saper attendere anche molti anni. Ma la morte, si sa, è fatta anche di questo».9

La Saudade finisce per conferire a questi racconti di Tabucchi la loro peculiarità più tipica, la loro atmosfera.
In particolare, i racconti e i romanzi brevi degli anni Ottanta producono un effetto di sospensione, di attesa magica, di incompiutezza inquieta, come se, a fine storia, restasse ancora un senso da svelare veramente. Ciò è dovuto a un intreccio sapiente di elementi (allusioni, accenni, rimandi, omaggi ad altri autori, intarsi di citazioni, riecheggiamenti di romanzi) che oltre a costituire la cifra caratteristica dell'autore, la sua fisionomia postmoderna, dicevamo, obbligano il lettore a ritornare sui suoi passi, alla ricerca di un senso «altro», rispetto alle prime conclusioni cui giunge; un senso che non emerge mai alla prima lettura, che non è mai perfettamente compiuto e che spesso si rivela solo dopo un'indagine condotta rovesciando la prima prospettiva adottata. È ancora Pessoa, insieme agli autori amati, assimilati e a cui si sente particolarmente legato (gli italiani Pirandello, Svevo, Montale), a ispirare a Tabucchi questo amore per il lato nascosto della realtà e per il paradosso, per i «piccoli equivoci» apparentemente insignificanti dietro cui si cela il senso più vero dell'esistenza; per la ricerca di una chiave di volta che spesso, come nel quadro Las Meninas di Velázquez evocato nel Gioco del rovescio, si trova sul fondo, dietro, in posizione defilata; non si offre al primo sguardo e al primo spettatore. Un senso che sta tra realtà e immaginazione.

 

§ V. Il metaracconto Torna al sommario dell'articolo

IV. L'enigma e il sogno

Se lo scopo del narratore è dunque suggerire altre angolature da cui spiare l'esistenza, risulta funzionale lo schema narrativo del giallo e del poliziesco, a cui Tabucchi si affida, certo sulla scia della grande letteratura d'inchiesta «metafisica» ed esistenziale dei maestri (da Sciascia a Dürrenmatt), strizzando però l'occhio anche al giallo popolare, da grande pubblico, secondo l'abito dello scrittore che ha abolito le distinzioni alto-basso, ipotizzando però continuamente che «cercare è più importante che trovare» (i due brevi romanzi Il filo dell'orizzonte e Notturno indiano sono indagini che dopo un po' perdono di vista proprio l'oggetto della ricerca: il protagonista, dopo un certo peregrinare, si mette alla ricerca di se stesso più che di qualcos'altro), per cui, come afferma egli stesso, «se la ricerca stimola già una fantasia, offre una suggestione allo spazio mentale del lettore, il libro ha già ottenuto uno dei suoi scopi». Tutto allora resta sospeso, nulla si chiude, e quindi è pronto a tornare più volte, ossessivamente.
Il primo a giocare è proprio chi narra. Il significato è svelato dal rebus, dall'enigma, dal sogno, dalla visione. La ragione può ben poco quando si sente una così forte attrazione per il «casuale», per l'«equivoco». L'incongruità delle cose spesso ne svela il senso più autentico e ciò provoca un senso di smarrimento:

«Tutti [i racconti di questo libro] sono legati a una scoperta: l'essermi accorto un giorno, per le imprevedibili circostanze della vita, che una certa cosa che era "così" era invece anche in un altro modo. Fu una scoperta che mi turbò. A rigore, questo libro è stato dettato dalla meraviglia. Ma dire dalla paura, forse, sarebbe più esatto».10

Così, la soluzione può essere proprio data da un sogno: semplificando la realtà, esso sembra offrire un approdo alla nostra ricerca di svelamento del senso. Rebus, in Piccoli equivoci senza importanza, comincia proprio con un sogno: in esso, la donna amata risulta depositaria di un segreto che non ha mai voluto svelare. Non c'è soluzione razionale a questo rebus, tanto che il protagonista continua a proporlo agli avventori del bar che frequenta, sperando che qualcuno gliene offra una possibile; così conclude:

«A volte una soluzione sembra plausibile solo in questo modo: sognando. Forse perché la ragione è pavida, non riesce a riempire i vuoti fra le cose, a stabilire la completezza, che è una forma di semplicità, preferisce una complicazione piena di buchi, e allora la volontà affida la soluzione al sogno».11

Del resto, anche Cidrolin, uno dei due protagonisti de I fiori blu di Raymond Queneau (1903-1976), che in fondo è un romanzo-sogno che riflette sulle contraddizioni e le aporie della Storia, sembra pensarla allo stesso modo quando, riemerso da un'indolenza che è un continuo dormiveglia, afferma: «Rêver et révéler, c'est à peu près le même mot».12 E l'osservazione è in sintonia col gioco di parole che offre la parola portoghese «revés», ossia «rovescio», che letta alla francese indica proprio il sogno («rêves»): basta uno scambio di accento, conclude il protagonista del racconto Il gioco del rovescio, per mettere in rapporto «rovescio» e «sogno» e perché queste modalità di sguardo illuminino in modo nuovo il reale.
Questi sogni a volte, in Tabucchi, sono però incubi, nel solco della grande tradizione del fantastico inglese e americano, da Robert Louis Stevenson a Henry James (Requiem ha per sottotitolo «un'allucinazione»), e francese (Guy de Maupassant su tutti), e numerosi fantasmi popolano le storie (il commovente fantasma del «padre giovane» e quello del poeta Pessoa in Requiem; il fantasma del padre del bambino-narratore ne I pomeriggi del sabato nel Gioco del rovescio;13 i fantasmi che abitano la casa battuta dai venti dell'Atlantico in Storia di una storia che non c'è), il che è molto familiare anche a certa narrativa di lingua spagnola (si pensi di nuovo a Julio Cortázar ma anche al messicano Juan Rulfo, col romanzo Pedro Páramo). Così come diventa un vero genere letterario quello di immaginare e narrare i sogni degli altri, i «sogni di sogni» che danno il titolo ad un'altra raccolta di racconti di questi stessi anni e che si concludono, emblematicamente, col Sogno del dottor Sigmund Freud, interprete dei sogni altrui, proprio a sottolineare con maggior forza, eppure sempre con una buona dose di ironia, che l'autore mette volentieri in scena i propri sentimenti più scabrosi: il rancore, la paura, il senso di colpa.
Nel breve carteggio intitolato La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera, incluso ne I volatili del Beato Angelico, una citazione da Mario Vargas Llosa illumina meglio questo processo: egli sostiene che la scrittura di un racconto sia una pratica simile a uno strip-tease, con la differenza che mentre la ragazza mette a nudo le sue grazie, lo scrittore esibisce «i fantasmi che lo assediano, le sue colpe e i suoi rancori». Così, in Storia di una storia che non c'è, nella stessa raccolta, si afferma che è sorprendente come i romanzi abbiano la capacità di provocare sensi di colpa, perché vengono da lontano, sono opere incompiute e parlano con le voci dei fantasmi.

 

§ VI. Paesaggio e pittura, fantasia e storia Torna al sommario dell'articolo

V. Il metaracconto

Il tono allusivo, leggero, a volte ammiccante che caratterizza le prefazioni e le note premesse alle raccolte di racconti e ai romanzi di questi anni non toglie però che la creazione narrativa sia costantemente accompagnata dalla riflessione metanarrativa: legando strettamente creazione e riflessione estetica, Tabucchi si caratterizza anche in questo senso per un atteggiamento postmoderno, prediligendo il metaracconto: narrazione che crea e allo stesso tempo riflette su di sé, sul proprio farsi, sulla propria genesi e funzione.
La riflessione sul proprio narrare sembra necessaria all'autore proprio perché spesso mette in scena storie incompiute, a volte frammenti. Scrittore del dubbio e poco portato alle certezze assolute, inquieto e instancabile decifratore di senso dentro ai rovesci e agli equivoci dell'esistenza, l'autore non cerca e non propone sistemi compiuti e lieti fine, ma si tende in perenne ascolto. Non potendo offrire sistemi e compiutezze, in certe raccolte - come Donna di porto Pim o I volatili del Beato Angelico -, raccoglie appunto frammenti, «ronzii», rumori di fondo, voci portate dal vento, che è impossibile dotare di tutti gli elementi della storia compiuta o autosufficiente, «sparute parole» che vale comunque la pena dire.
La Nota introduttiva a I volatili del Beato Angelico offre una sorta di «poetica», una chiave di lettura, e non solo di questo libro in particolare:

«Ipocondrie, insonnie, insofferenze e struggimenti sono le muse zoppe di queste brevi pagine. [...] Molte di esse mi sembrano vagare in un loro strano fuori che non possiede un dentro, come schegge alla deriva sopravvissute a un tutto che non è mai stato. Estranee a ogni orbita, ho l'impressione che navighino in spazi confidenziali eppure di ignota geometria; diciamo frattali domestici: le zone interstiziali del nostro quotidiano dover essere o certi bitorzoli dell'esperienza.
In quanto romanzi o racconti mancati sono solo delle povere ipotesi, o spurie proiezioni del desiderio. Hanno natura larvale [...] con [...] occhi che interrogano. Chi interrogano? Cosa vogliono? [...] Credo che la dimensione interrogativa sia prerogativa degli esseri che la Natura non ha portato a compiutezza. [...] lacunose prose [...] in esse ci sono, sotto forma di quasi-racconti, i ronzii che mi hanno accompagnato e mi accompagnano: slanci, umori, economiche estasi, emozioni vere o presunte, rancori e nostalgie.
Dunque, più che quasi-racconti, direi che queste pagine sono un «rumore di fondo» fatto scrittura».

Se le «muse zoppe» di montaliana memoria sono sentimenti legati all'inquietudine e all'insonnia (dove «inquietudine» è sentimento e visione del mondo più che mai pessoano, perché richiama subito alla memoria il diario dell'eteronimo Bernardo Soares, scrivano decadente e autore dell'affascinante Libro dell'inquietudine;14 mentre certo l'insonnia ha a che fare col sogno), e se il loro fine è interrogare, più che fornire risposte, il risultato è «larva», «quasi-racconto», nucleo che conserva un senso in potenza non del tutto dipanato e che non si dispiega in un testo unico e unitario, ma spesso ha bisogno di tempi e fasi successive per srotolarsi e offrirsi all'interpretazione. In effetti, la propensione al frammento, o l'intima necessità di praticarlo, non conferiscono alla narrativa di Tabucchi uno statuto di provvisorietà; al contrario, ad essa è sottesa una profonda unità che la percorre pressoché interamente. Si potrebbe parlare di intertestualità interna: un filo molto tenace unisce fra loro i frammenti dei singoli testi e la tecnica sottile e raffinata cui si accennava, fatta di rimandi, citazioni, rielaborazioni, stratificazioni, crea proprio questo effetto di unico grande libro. Così, Piccoli equivoci senza importanza va letto insieme al Gioco del rovescio, a formare una sorta di dittico. E Notturno indiano riceverà qualche illuminazione dalle quattro lettere raccolte sotto il titolo di La frase che segue è falsa. La frase che precede è vera dei Volatili del Beato Angelico. Addirittura, i primi due racconti de L'angelo nero sarebbero incomprensibili senza la lettura di Requiem. Allo stesso modo, gli stessi personaggi, storici o fittizi che siano, trasmigrano da una raccolta all'altra (Tadeus, Isabel, Dolores Ibarruri). Per non parlare di Pessoa, che fa parte del bagaglio culturale di numerosi narratori di storie ed è di volta in volta personaggio, oggetto di narrazione, nome evocato, autore reale di testi citati. Nei racconti migliori, l'effetto è molto appagante per il lettore; talora invece il gioco si fa più scoperto e il racconto diventa più un manifesto di poetica, un teorema, una maniera e gli autori di riferimento vengono quasi esibiti.

 

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VI. Paesaggio e pittura, fantasia e storia

La geometria di questi racconti ricorda quella dei frattali: elementi geometrici, ricavabili da un sistema di equazioni, costituiti da linee spezzate, che si possono riprodurre in una scala sempre più piccola, in modo che il frattale principale sia composto da frattali più piccoli ma uguali. Geometrie e prospettive che mettono in luce non tanto ciò che si vede, quanto ciò che non si vede subito. Dunque dietro le figure si celano i loro fantasmi e questa tendenza a scoprire il rovescio porta Tabucchi ad applicare la propria lente d'ingrandimento alla pittura. Oltre al cosmopolitismo culturale che, come si è visto, lo caratterizza (la cultura portoghese; quella di lingua inglese - dal teatro di Shakespeare ai già citati narratori dell'Ottocento ai vagabondaggi per i mari del Sud di Conrad -; la cultura francese - con una predilezione per il fantastico ottocentesco e per il surrealismo -, e quella spagnola - in special modo del Siglo de Oro), l'autore sente molto forte anche la propria toscanità, e non solo intesa come appartenenza e paesaggio geografico, ma anche come educazione fortemente visiva, legata alla pittura dei grandi toscani (Paolo Uccello, Beato Angelico) degli spagnoli (Goya, Velázquez) e dei quadri esposti comunque nei grandi musei iberici, come il Prado o il Museo Nazionale di Lisbona in cui è conservato Le tentazioni di Sant'Antonio di Hieronymus Bosch, e ancora quella dei grandi moderni (come Van Gogh che, sebbene non citato, è l'autore del quadro descritto a un non vedente nel racconto La traduzione, ne I volatili del Beato Angelico). I loro quadri vengono analizzati e scomposti fino a evidenziare la capacità dell'artista di guardare la realtà da una prospettiva rovesciata, inedita, nuova: si entra in un quadro come si entra in un sogno e se ne esce con un segreto in più.

L'universo di Tabucchi non è però un mondo in cui l'autore si rinchiude per estraniarsi dalla realtà, anche storica, che lo circonda. La profonda conoscenza del Portogallo spinge l'autore ad ambientarvi numerose storie o anche sogni e visioni del passato. Non bisogna dimenticare che fino ai primi anni Settanta il paese fu tormentato dalla feroce dittatura di Salazar e questo non è secondario nelle storie narrate o evocate. Non bisogna arrivare al romanzo storico Sostiene Pereira perché il ricordo di quegli anni violenti e terribili irrompa sulla pagina. L'atmosfera di cospirazione, i metodi poco ortodossi della polizia politica, le brutture e le torture di quegli anni appaiono già nei racconti fantastici del Gioco del rovescio e soprattutto esplodono nelle cupe visioni de L'angelo nero che, dicevamo, sono strettamente legate a Requiem. Ne L'angelo nero, in particolare, le apparizioni incongrue di animali, angeli, strane creature che affiancano i personaggi, spesso fantasmi di personaggi già apparsi in altri racconti, contribuiscono ad accrescere la tensione, il senso di spaesamento e di incubo perturbante. Certe visioni sembrano scaturire direttamente dalla fertile fantasia di Hieronymus Bosch.
Questi elementi - la denuncia del male storico attraverso i mezzi della letteratura fantastica,15 la tendenza a dar vita a una sorta di "bestiario" (si pensi alle balene-metafore di Donna di Porto Pim, ai pesci - carpe, tinche, trote - de L'Angelo Nero), ma anche l'intertestualità che attraversa l'intera opera - sono forse quelli che possono maggiormente suggerire un accostamento fra Tabucchi e l'argentino Julio Cortázar, anche se quest'ultimo si spinge, attraverso la letteratura, a una sorta di «militanza» politica che Tabucchi non può sentire con altrettanta forza, proprio per la sua appartenenza a un mondo e a un'epoca molto diversi rispetto al Sud America degli anni Cinquanta e Sessanta. I punti di contatto fra i due meriterebbero senz'altro un approfondimento, soprattutto per quanto riguarda la costruzione delle ghost-stories, che, come si è visto, anche Tabucchi ama particolarmente: nella maggior parte delle prime raccolte cortázariane (Bestiario, Fine del gioco, Le armi segrete, tutte degli anni Cinquanta), «si tratta di ghost-stories in cui il fantasma è stato espulso o taciuto; al suo posto un vuoto, i suoi "effetti", i suoi riflessi, come impronte od onde concentriche e successive alla superficie del reale»:16 nelle storie aleggiano dei «qualcosa», delle «presenze assenti», molto familiari anche ai lettori di Tabucchi.

Infine, l'amore per la finzione, che certo Pessoa in primis suggerisce a Tabucchi col suo corteo di maschere e di eteronomi, ma anche Pirandello (a cui è dedicato il suggestivo Il signor Pirandello è desiderato al telefono, uno dei testi teatrali de I dialoghi mancati), si traduce in un amore per il teatro (Teatro è uno dei racconti più affascinanti del Gioco del rovescio) e in una tendenza alla menzogna («questo libretto trae origine [...] dalla mia disponibilità alla menzogna» si legge nel Prologo a Donna di Porto Pim) che è solo un'altra via per afferrare la verità, ammesso che essa esista e sia unica.
Se memoria, fantasia e curiosità sono tre elementi fondamentali della poetica di Tabucchi, il primo di essi risulta fortemente manipolato dagli altri due. «Lo scrittore è poco affidabile anche quando dichiara di praticare il più rigoroso realismo»: è il trionfo della menzogna, sottile forma di esercizio della fantasia, che propone del mondo il volto più irto di contraddizioni. Forse davvero, come ha affermato qualcuno, il vero realista è proprio il visionario.

 

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Bollettino '900 - Electronic Journal of '900 Italian Literature - © 2005-2006

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2