Intervista a Enrico Palandri
Riflessioni sulla letteratura
a cura di Cristina Massaccesi e Claudia La Via

 

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Il nazionalismo come "malattia dell'arretratezza". Guardandola da Oltremanica, Le sembra che l'Italia letteraria sia stata cronicamente afflitta da questa malattia?

No, direi che il nazionalismo è una malattia diffusa in tutto il pianeta e certamente in Europa; man mano che l'integrazione istituzionale tra le diverse nazioni procede, assistiamo a recrudescenze nostalgiche a macchia di leopardo un po' ovunque. Il diritto all'autodeterminazione dei popoli è un valore positivo sancito da molti accordi internazionali. Il suo significato progressivo nasce dal Romanticismo e dalla difesa delle minoranze dai poteri imperiali che dominavano la politica internazionale fino alla prima Guerra mondiale. Oggi il movimento di integrazione planetaria è talmente complesso che questo significato positivo si smarrisce; diventa così paradossale, se non apertamente ingiusto e razzista, la nostalgia di un considerarsi autoctoni, indigeni, detentori di privilegi dovuti a questo localismo, in un mondo dove gli esseri umani, le merci e le informazioni si spostano in una quantità e ad una velocità senza precedenti. Anche nella letteratura riscontriamo questi fenomeni, che riflettono in modo irregolare le trasformazioni cui ho accennato. Se consideriamo la Lega come l'esempio principale di questa regressione romantica, riesce difficile trovarne personaggi autorevoli in letteratura. Luigi Meneghello, che si è dedicato ad una vera e propria costruzione del vicentino come lingua letteraria, è molto distante, ad esempio, dall'ideologia della Lega. Al contrario, proprio in quanto antifascista e avendo sposato una persona come Katia, perseguitata dai nazisti e arrivata in Italia da profuga, credo che le rivendicazioni etniche e un po' mistiche dei leghisti facciano rabbrividire entrambi.
Direi ad ogni modo che gli autori italiani di cui si parla siano sempre stati contrari al nazionalismo e al provincialismo, si siano per lo più posti in una posizione di apertura, formandosi nel dopoguerra su una biblioteca ampia e cosmopolita, non su un'idea di lingua nazionale da costruire. Direi quindi che l'Italia non è particolarmente afflitta da questa malattia; al contrario, abbiamo tradotto molto, ed è stata questa apertura a caratterizzare la grande propulsione e innovazione del romanzo nel dopoguerra.


In Appunti a proposito di metafore, Lei parla dello stile e di come sia complesso e sfuggente classificarlo in termini letterari: come si potrebbe definire lo stile di questa sua ultima pubblicazione?

Io ho cercato di scrivere con chiarezza, come spero di fare anche nei miei romanzi. La riscrittura mi è servita in questi saggi per trovare la stessa voce dei miei romanzi. Alla fine ho sentito un certo sollievo perché ho ritrovato me stesso, non c'è opposizione tra romanzi e questo libro. Non so come si possa definire il mio stile, né se sia utile farlo. Come spiego nel saggio sulla necessità dello stile, credo che una scrittura si definisca sempre in modo particolare, secondo la materia che le dà forma dall'interno. Ciò che mi ha spinto a scrivere La deriva romantica, è stata la necessità di raccontare in quale modo un'interrogazione sul mio modo di usare la lingua faccia parte di una condizione non personale, quali orizzonti storici e filosofici riconosca intorno a sé il punto in cui mi trovo. Direi che questo libro segna i confini tra me e il lavoro degli altri, lo stile è quello di una interlocuzione aperta, una riflessione su ciò che mi pare caratterizzi certi autori o certi problemi. Quello che invece scrivo in un romanzo lo faccio senza pensare ad altro che ai personaggi che nascono e si sviluppano quasi da soli nei miei romanzi.


Da scrittore di narrativa ad autore di una raccolta di saggi. Come lei stesso scrive nella Nota, le riflessioni di questo libro sono probabilmente annodate attraverso mille fili ai suoi romanzi, ha dovuto tuttavia modificare in qualche misura il suo approccio stilistico per completare quest'opera?

No. O meglio, ho scritto questi saggi nel corso di molti anni e per molto tempo ho avuto un problema stilistico. Mi sembrava di avere un tono troppo professorale, a volte, altre volte al contrario non sufficientemente professorale. Mi sono tormentato a lungo soprattutto su questo, perché le idee le avevo formulate da tempo. Ho iniziato a scrivere il primo saggio (La deriva romantica) nel 1987.
Scrivo un saggio perché ho bisogno di organizzare un ragionamento che sostenga un modo di vedere le cose, che sia un problema storico, letterario, filosofico. I saggi erano già da tempo organizzati nel loro contenuto informativo. Ho dovuto invece lavorare a lungo per riannodarli secondo una scrittura coerente che ne facesse un vero libro.


C'è una qualche ragione che ad un certo punto l'ha indotta a pubblicare una raccolta di saggi? La voglia di dare una sistemazione a certe riflessioni di più o meno vecchia data o magari la volontà di chiudere un capitolo e di aprirne un altro completamente nuovo?

Un po' entrambe le cose: volevo raccogliere idee che avevo elaborato sugli ultimi duecento anni di storia letteraria. Certo, mi piacerebbe pensare di poter adesso aprire un capitolo completamente diverso. Ogni volta che si lascia un libro, un lavoro, si ha la sensazione di potersi dedicare ad altro e questo ringiovanisce. Presto o tardi, insieme ai nuovi problemi che si affrontano, si incontrano anche problemi che restano nel nostro mondo poetico con più tenacia, che non passano. Nei miei libri c'è sempre almeno un anello che lega ad un altro libro, e anche in questi saggi lo vedo. Al contrario, vedo molti legami. Questa raccolta di saggi è stata dunque una tappa obbligata, dalla quale ho tentato, credo, di sottrarmi a lungo. Allo stesso modo con la poesia: anche per quella ho un libro da anni, una raccolta e una sistemazione da fare di cose che ho scritto, per lo più anche pubblicato, ma quasi nascondendole. In fondo nei romanzi mi sono trovato più a mio agio perché li penso, li scrivo e li pubblico. Nella poesia e nei saggi, invece, ci sono per me tempi anche molto lunghi tra la concezione e l'esecuzione, o talmente tante riscritture da nuocere forse a volte al lavoro. Purtroppo quindi direi che, in questo lavoro, ho cercato piuttosto di sistemare e raccogliere.


La sua raccolta di saggi prende titolo proprio da uno di questi, La deriva romantica. L'aggettivo "romantica" accostato al termine "deriva" sembra far riferimento ad un periodo di svolta della letteratura, ad una corrente che, appunto come una deriva, lavora costantemente e lentamente negli anni a cambiare lo stato delle cose. In quale misura influisce, quindi, a suo avviso, la tradizione letteraria sulla produzione contemporanea?

Il Romanticismo storico è il momento decisivo della nostra civiltà; dopo il Rinascimento, questo è il momento in cui le coscienze affrontano il più profondo spostamento di prospettiva. La produzione contemporanea è ancora ricca di temi romantici (nazionalismo e antinazionalismo, il problema della lingua, l'idea di individuo) che discendono direttamente dal primo Ottocento; ci auguriamo di essere oggi alla fine di un'epoca, di trovarci appunto sulle ultime onde, sulla deriva, la battigia di questa tempesta. Del resto noi siamo ciò che consegue a certe influenze, più o meno prossime: una cultura non è che questo continuo riaffiorare di corsi d'acqua che a volte si interrano, divengono carsici, fanno perdere le proprie tracce, poi riaffiorano. O forse siamo noi che, spostandoci, creiamo effetti di prospettiva su una scena che è sempre interamente presente.


Nel leggere i suoi saggi ci si accorge del ricorrere di due motivi che fungono un po' da fil rouge: uno è la figura di Giacomo Leopardi, l'altro è l'idea del "camminare". Che funzione e significato potremmo attribuire ad entrambi?

Leopardi è l'autore che ho studiato di più. In modo irregolare, spesso non capendo tutto, a volte dovendomene distanziare. C'è un motivo di straordinario interesse in lui: il più grande romantico italiano è in realtà un illuminista. Oppure possiamo dire il contrario: che l'illuminista più grande è un romantico. Questo apre a lui uno sguardo lungo sul tempo che lo seguirà; ancora oggi, secondo me, lui vede e comprende noi uomini di duecento anni dopo. Non direi la stessa cosa di Manzoni, ad esempio, perché il romanticismo di Leopardi è così contraddittorio e anomalo che il suo pensiero è un laboratorio di molte cose che verranno, e che ancora non hanno completamente finito di mostrarsi. Lo stesso Marx a me pare veda meno lontano di Leopardi.
Camminare per me è sia letterale che metaforico: letterale perché camminare mi piace, vado molto in montagna, mi piace pensare e parlare non al tavolino; metaforico perché è un andare, un aprirsi ad orizzonti nuovi, un incontrare oggetti d'attenzione sempre diversi e perché il cambiamento è un elemento essenziale del mio modo di procedere. Poter dire: questo l'ho fatto, ora faccio un'altra cosa. Questo è camminare.


E' oggi opinione abbastanza diffusa che gli Italian Studies stiano vivendo un momento di crisi qui nel Regno Unito, vuoi per un approccio a volte troppo conservatore, vuoi per un disinteresse generale degli studenti verso le lingue e la letteratura. Ha un giudizio personale su questa situazione? E quali potrebbero essere le soluzioni per superare questa impasse?

C'è sicuramente una crisi di interesse nello studio delle lingue straniere in Gran Bretagna. Le ragioni sono complesse e purtroppo temo che non ci si renda conto qui di quale enorme perdita si rischia. La generazione di Isherwood, Auden, Spencer, Greene ha conosciuto e vissuto a lungo in Europa, si è sentita parte di un mondo che invece gli scrittori di oggi non sembrano più sentire come il loro. Martin Amis, McEwan (che pure ha ambientato un paio di libri in Europa) e gli altri, sembrano trascinati da una corrente nordamericana che gli fa concepire il mondo come un mondo esclusivamente anglosassone, dove la lingua traduce un unico modo di pensare. Chi conosce davvero un'altra lingua, invece, sa bene che non si tratta di imparare altre parole per dire le stesse cose, ma che si interviene profondamente nella propria memoria della storia, si scoprono concetti e modi di essere che sono altri da quelli nativi e che quindi le lingue sono profondamente educative, il più formativo degli studi che si possono intraprendere. Per tale ragione, temo che il mondo anglosassone rischi di capire sempre meno gli altri. Non direi però che ci sia una vera crisi dell'italianistica, non ancora almeno; ci sono oggi ottimi studiosi in Gran Bretagna.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003

Dicembre 2003, n. 2