Seminario itinerante sulla letteratura contemporanea
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I. II. |
Interventi della mattina Interventi del pomeriggio |
Pubblichiamo di seguito il dibattito tenutosi in occasione del secondo incontro del "Seminario itinerante sulla letteratura contemporanea", diretto da Enrico Palandri. L'incontro si è tenuto a Venezia il 5 dicembre del 2003.
I. Interventi della mattina
Helena Janeczek Quello che ci vuole è conoscere la musica, sapere cosa vuoi fare. Mi ricordo benissimo i primi tempi che mi ero trasferita in Italia e parlavo senza difficoltà ma senza congiuntivi, perché l'italiano l'avevo imparato parlando, e stavo male. Capire che mentre parlavo non riuscivo a trovare il termine adeguato mi faceva venire il nervoso e mi veniva da piangere. Perché l'esigenza di esprimersi, l'amore per la parola, il senso di come si usano le parole, credo che siano cose che uno ha o non ha a prescindere, che abbiano una certa universalità di fondo in cui credo fortemente. La lingua è uno strumento ma non significa che debba essere considerata in modo così strumentale, scusate il paradosso. Ci vuole una forza produttiva. Può avvenire dopo, può essere tutta una storia personale però ci vuole, la devi sentire come qualcosa di vivo, appartenente a te. Non può soltanto essere che si scrive in inglese, per esempio, perché ci si lancia meglio sul mercato mondiale.
Enrico Palandri Io mi sono molto ritrovato nelle tue parole, soprattutto quando dici che la lingua diventa uno strumento. Mentre non c'era un progetto commerciale di diventare uno scrittore internazionale, c'era invece questo senso di voler ritrovare un italiano che fosse più uno strumento e che fosse più libero dall'italiano parlato e contaminato con cui ero cresciuto. Questo c'era molto fortemente e anzi, il mio primo libro era molto parlato, scritto negli anni d'università con un gergo comune, mio e degli altri in quegli anni. Ed invece, improvvisamente, il far scattare qualcosa per cui non sentivo più di avere le priorità del mondo dei miei amici ma sentivo di avere come interlocutore la storia letteraria, aveva cambiato molto le cose. Penso che sia uno dei nodi, di cui parlavamo anche a Torino, dove discutevamo dell'alto e del basso, e la ragione per cui io ad un certo punto ho criticato Giorgio Vasta e qualcun'altro, che continuavano a citare metafore calcistiche e Marzullo, perché secondo me c'era un po' paura della vertigine che viene quando si comincia a scrivere, che è invece la vertigine di sentire che tu, che sei una brava persona, che hai i tuoi amici, i tuoi compagni di scuola, ti senti improvvisamente in compagnia di queste persone strane, che sono i protagonisti della storia della letteratura, che sono problemi forti, che sono cose che ti chiamano per nome. In quel momento questa capacità di assomigliare al mondo che hai intorno, improvvisamente, svanisce e ti lascia un po' più solo, ti costringe a prendere delle responsabilità. Credo, non voglio essere troppo freudiano, ma che questo richiamarsi al basso e far finta di non essersi staccati sia più un lapsus, credo che sia più quello che dice nascondendo di quello che dice in realtà ed è come se segnasse la separazione. In fondo è quando inizi a vedere l'alto ed il basso. È come se qualcuno dicesse «vedete che sono sempre lo stesso» nel momento in cui sente che sta diventando qualcos'altro. Non so se sono stato chiaro. Se tu ad un certo punto ti accorgi che con la lingua in cui sei immerso riesci a dire solo una certa quantità di cose e per altre devi avere altri mezzi, ecco quello è un momento di solitudine. Sopratutto se tu non nasci pensando di essere Giacomo Leopardi ma nasci andando a vedere le partite di calcio, condividendo la vita di tutti i giorni e poi, improvvisamente o un po' alla volta, questa appartenenza comincia a frantumarsi e tu inizi a dover fare una strada più da solo. A questo punto volevo chiedere a Davide qualcosa sul suo libro Da qui verso casa, anche alla luce delle cose che sono state dette.
Davide Bregola Io ad un certo punto della mia vita ho deciso che comunque volevo scrivere. Ho quindi iniziato a scrivere per i fatti miei e poi ho iniziato a frequentare altre persone che scrivevano o che magari avevano già pubblicato. I miei contatti erano sempre con scrittori italiani, quindi, al liceo ho fondato un circolo culturale in cui s'invitavano scrittori che parlavano dei loro libri, di narrativa, di letteratura, di tecnica letteraria e il mio percorso di narratore, tra virgolette, è stato quello canonico della persona che vuole scrivere e che pubblica in un'antologia di racconti con altri autori. Dopodiché si entra in contatto con persone che hanno le stesse passioni e le stesse aspettative. Ciò che mi interessava però, era sempre questo aspetto del contatto con persone che avevano scritto libri che apprezzavo e questa cosa mi ha accompagnato un po' per tutto il mio percorso. Fino al momento in cui ho iniziato a leggere dei libri, m'incuriosivano gli autori che avevano nomi stranieri e ho voluto saperne di più, mi sono fatto una piccola bibliografia, e ho deciso di andare a cercare persone che avevano pubblicato libri in italiano pur avendo una lingua madre diversa. Mi sono avvicinato a loro come semplice lettore, come persona che ha intenzione di scrivere e vorrebbe cercare di farlo nel miglior modo possibile. È stato anche un avvicinamento un po' entusiastico e naive e, dopo aver letto i libri delle persone che volevo intervistare, ho chiesto gli appuntamenti per incontrarli. L'intenzione era di parlare con loro di letteratura, degli autori che li avevano entusiasmati, della loro esperienza, dell'approccio con una lingua diversa dalla loro lingua madre. Sono venute fuori delle cose interessanti. È partito tutto, in ogni modo, da due libri italiani. Ferdinando Camon negli anni '70 scrisse Il mestiere di scrittore e Il mestiere di poeta: intervistava degli scrittori e dei poeti italiani. Io volevo fare altrettanto, cioè intervistare approfonditamente delle persone che secondo me avevano qualcosa da dire, con questa particolarità: di essere persone provenienti da un'altra lingua. Nel giro di un anno ho fatto undici interviste a scrittori che provengono da ogni parte del mondo e pubblicano in italiano. Ho fatto un po' il giro del mondo rimanendo in Italia. Ho affrontato con loro degli aspetti di tecnica narrativa che m'interessavano perché per cercare di scrivere nel miglior modo possibile anch'io volevo passare attraverso l'esperienza. Casualmente Armando Gnisci, scrittore di comparatistica, è venuto a sapere di quello che stavo facendo, mi ha chiesto un po' i risultati della mia ricerca e, preso dall'entusiasmo, ha deciso di pubblicarla in questa collana, con una piccola casa editrice di Roma.
Enrico Palandri Però è strano Davide che per pensare di fare lo scrittore italiano decidi di intervistare degli autori non italiani.
Davide Bregola Secondo me non è strano perché avendo conosciuto tanti narratori italiani, avendoli frequentati, in questo circolo culturale in un paesino di seimila abitanti, sentivo che dopo un po' di tempo, bene o male, ero troppo vicino alle cose che dicevano, vi appartenevo, erano familiari. Mi era saltata la curiosità quindi di sentire qualcuno che avesse un'esperienza completamente diversa dalla mia. M'interessavano le geografie, che ho trovato molto suggestive. Per carità, anche gli scrittori italiani sono molto interessanti. Però volevo in qualche modo tradire questi tratti comuni degli scrittori italiani che avevo conosciuto. Era proprio una curiosità. Chi non citava Tondelli, chi non citava De Carlo, che appartenevano a due scuole diverse, ma con delle comunanze che mi davano fastidio. Io stesso provengo da letture di scrittori italiani, al di là di Enrico, degli entusiasmi per Tondelli eccetera, eppure ad un certo punto questi autori ho iniziato ad odiarli, forse non è il caso di dirlo. Dopo l'imitazione dei 14-15 anni ho voluto tradirli, ucciderli! Siccome abitavo in questo paesino piccolissimo in Lombardia, nella punta nord-est della Lombardia, volevo vedere chi aveva scritto qualcosa riconducibile a quella geografia, tra gli autori italiani stranieri. È stata una cosa bellissima perché mi ha sprovincializzato! Con la paranoia di essere provinciale, vedere che altri autori avevano parlato di questa cosa, è stato interessante, sembra una cazzata però poi invece serve.
Helena Janeczek Mi sembra che per gli scrittori italiani sono più problematici luoghi di origine tipo Mantova o Venezia o Firenze che paesini sperduti. Io adesso abito da un po' di anni a Gallarate che è uno dei posti più spersi che esistono. In quella zona lì, che è una delle più povere, c'è una sproporzione di scrittori! Vengono da questa terra di nessuno, cosa che mi sembra molto interessante. Mi sembra interessante che oggi moltissimi autori italiani vengano da queste terre del nord-est così trasformate. Ho la sensazione che invece il centro, come luogo, non funzioni.
Pietro Gibellini C'è una certa simmetria con la Svizzera italiana. Io mi ero domandato, quando ho fatto questa letteratura delle regioni d'Italia, se inglobare la Svizzera nel volumetto della Lombardia perché, in fondo, parlano l'italiano ed un dialetto lombardo. Potrebbe essere considerata Lombardia. Poi invece ho pensato che appunto la letteratura non è fatta soltanto dalla lingua ma anche da identità. Credo si possa parlare di letteratura italiana quando, c'è dentro il latino, c'è dentro il dialetto, ci sono dentro Casanova e D'Annunzio che scrivono in francese, ma comunque possiamo legarli alla letteratura italiana. Anche lì nella Svizzera italiana, legata alla rapidissima trasformazione che ha avuto questa terra poverissima di emigrati, di gente che viveva a pane e formaggio, nella svizzera delle banche, c'è stata una forte fioritura sia di prosatori che di poeti. Probabilmente un rapido cambiamento dei luoghi stimola la testa, la mano, la penna stilografica. Volevo chiedere a Davide, se tra gli scrittori stranieri intervistati ce n'è qualcuno che ha scelto l'italiano non per motivi occasionali o biografici ma come lingua più di prestigio, più musicale, così come gli italiani che scelgono l'americano o come una volta si sceglieva l'italiano per fare i melodrammi perché era la lingua ritenuta più musicale. C'è qualcuno che ha scelto l'italiano perché gli piaceva di più, lo riteneva una lingua più adatta? O sono tutti legati a situazioni biografiche?
Davide Bregola Come scrittori hanno scelto consapevolmente di imparare l'italiano per vari motivi. Porto un esempio: Younis Twafik è uno scrittore di origine irachena che adesso abita a Torino ed insegna a Genova, lingua e letteratura araba. Leggeva Dante però non gli bastava, non riusciva ad apprezzarne lo stile e, inconsapevolmente, ha voluto imparare l'italiano benissimo per poter leggere Dante in italiano. Quindi, in tutta la sua giovinezza, si è impegnato per questo e da questa passione per Dante è arrivato poi a conoscere l'italiano così bene da poterlo finalmente leggere in lingua originale. Questa è una particolarità.
Pietro Gibellini Una grande differenza è se l'hanno imparato tutti da adulti l'italiano o no. Tu l'hai imparato da piccola. La maggior parte degli scrittori che si mettono a scrivere in un'altra lingua già la conoscevano, in genere.
Helena Janeczek Molto spesso gli scrittori che hanno cambiato da una lingua all'altra sono tutta gente cresciuta con la consapevolezza che ci fossero altre culture. E questo probabilmente è molto vero tra gli scrittori non europei, perché spesso in Africa, ad esempio, o in paesi simili, ci sono varie lingue che coesistono. Insomma, il senegalese un po' di francese lo sa e così via. Si vede che sono facilitati con le lingue, lì cresci in un ambiente in cui la lingua circola.
Davide Bregola Quello che dicevo prima, un po' disordinatamente, è che cercavo appunto queste comunanze, queste analogie e questi grandi narratori che avevano scritto di questi luoghi geografici, per cercare la mia tradizione, la tradizione personale. Sentivo il bisogno di sentire di appartenere ad alcuni luoghi che diventavano anche letterari. A quel punto sono incappato anche in curiosità. Peter Handke, di cui parlavo prima, è pazzesco: lui scrive in tedesco e, in due libri, cita luoghi geografici italiani, tra l'altro, vicini ai luoghi in cui sono cresciuto. Ad un certo punto in Storie di una matita, racconta che prende il treno per il Brennero ed è entusiasta di un paesino dove si ferma il treno e scende il controllore. Dice, di questo paese nella provincia di Mantova «i pioppi venivano mossi dal vento e partiamo versi altri luoghi». In un altro libro Peter Handke dice che, quando andrà in pensione, vorrà fare il traduttore di Virgilio, perché ne è entusiasta e vuole sapere tutto di lui. Allora, come tutti i fan scatenati che vogliono andare nei luoghi in cui ha vissuto la loro star, fa una cosa del genere. Arriva a Mantova e viaggia, un po' allucinato, a piedi, attraverso le campagne. Vuole andare a Pietole di Virgilio, considerato il luogo da cui viene Virgilio. Racconta di questi luoghi, del suo percorso a piedi alla ricerca di testimonianze della vita di Virgilio e incappa in una pietra un po' concava che potrebbe sembrare una grossa sedia di pietra. Si narra che quella pietra sia stata veramente la sedia dove il poeta sostava. Vedere questo autore così cosmopolita che va e viaggia, che va anche lui alla ricerca di luoghi sperduti, mi ha fatto pensare che allora se anch'io parlo di personaggi che abitano a Ferrara-Mantova, eccetera eccetera...
Enrico Palandri Abbiamo messo un po' di cose qui sul tavolo. La prima cosa che mi chiedo è se questo sradicamento... se chi fa queste scelte, chi scrive in un'altra lingua, chi se ne va, se questo estraneamento, diventa qualche cosa di alienante, oppure in fondo è la stessa cosa che succede, com'è successo a Davide, fa parte di un processo di sprovincializzazione a cui si può ambire anche senza muoversi da casa? A che punto uno diventa estraneo e che cosa significa? Come percepisci la storia di Helena, la storia di Giacomo Sartori, anche la storia mia in realtà? Questo percorso di crearsi una lingua attraverso l'allontanamento perché non ti identifichi più con la tua generazione con le tue compagnie è una cosa che riconosci o può avvenire anche quando resti? E se uno deve scappare proprio perché ha la polizia alle calcagna?
Studentessa Secondo me, la condizione necessaria per capire è proprio la fuga, è la voglia di scappare che talvolta può essere proprio voglia di evadere, di conoscere nuove cose e che irrimediabilmente comunque ti fa ritornare sui tuoi passi. È come se io mi mettessi con la faccia attaccata al muro: non potrei vederne né il colore né le dimensioni. Mentre da di qua lo vedo meglio. Così il fatto di staccarsi porta ad una maggior consapevolezza, ad un arricchimento che, innanzi tutto, è necessario in un contesto di globalizzazione. Sono d'accordo con Sartori fino ad un certo punto riguardo all'avere un maggior rispetto della cultura altrui. Se si rimane troppo legati al proprio provincialismo, che è importantissimo comunque, si rimane attaccati sempre alle solite cose. Io, per esempio, sono molto legata ai miei luoghi, però forse è proprio perché sono tanto legata che ho bisogno, per apprezzarli, di andare via. Perché mettendomi alla prova ed un po' scappando, fuggendo, cercando della nuove cose, mi rendo conto di quanto li amo e quanto posso aggiungere a quello che già sento per loro.
Enrico Palandri Ci si comporta con i luoghi come con gli amanti, bisogna farli soffrire! Io mi riconosco molto in quello che dici. Uno parte e pensa che ci sia qualche cosa ma, in realtà, stai proiettando. Però pensi che quel dolore che tu senti sia un dolore del luogo.
Studentessa Però è un dolore che serve perché altrimenti non lo capiresti mai. Hai proprio bisogno di staccarti per vedere quello che hai perso, quello che hai lasciato.
Davide Bregola Voi come vedete allora autori come Gianni Celati, Luigi Meneghello, Enrico Palandri, che sono scrittori, insegnanti all'estero, che scrivono libri fortemente radicati in un territorio ben preciso italiano della provincia ed addirittura del paese? Da un punto di vista biografico, facendo delle supposizioni, hanno avuto bisogno di fuggire dai loro luoghi per poi sentirne la nostalgia e raccontarli oppure c'è un processo diverso? Mi interesserebbe sentire anche loro però non li conosco così chiedo a voi!
Studentessa Quando si fugge da qualcosa, da un luogo ci si sente frastornati. Si sente la frastornalità perché è tutto nuovo, c'è tanta gente che parla che ti fa sentire solo. C'è una voce però della lingua con la quale l'autore si esprime che è una lingua, una voce che viene da dentro. È la voce che non perdiamo nonostante incontriamo luoghi e persone diverse, perché poi la pagina bianca in realtà è come un neonato che devi accudire con quella voce che è universale, perché è una cosa tua che ti viene dalla tua infanzia, dalla famiglia e da tutti gli autori che sono i tuoi affetti. Ad un certo punto hai bisogno di organizzare questi affetti, proprio perché ti senti frastornato dal perturbabile...
Pietro Gibellini Scusi, Lei scrive prosa o poesia?
Studentessa Narrativa.
Pietro Gibellini Il suo discorso mi faceva pensare il contrario. Ci sono dei narratori che rimanendo dove stanno usano lingue diverse dalla propria. Il caso di Fenoglio, per esempio, usava scrivere in una lingua straniera la prima stesura della propria narrativa, per avere una specie di filtro di purificazione da certi rischi che la disponibilità troppo ricca della lingua madre poteva comportare, cioè perdita di chiarezza e di essenzialità. Il discorso che Lei faceva, invece, mi faceva venire in mente un po' Zanzotto, il quale riscopre il dialetto, che è ancora il dialetto della goccia di latte della mamma, che però è la goccia di latte di Eva. E però dice che questo dialetto gli muore sulla lingua, se lo sente morire. Quindi non bisogna neanche essere così sicuri che il patrimonio, che custodiamo dentro, rimanga intatto. Zanzotto dice che è minacciato anche quello.
Enrico Palandri Forse la cosa più terribile quando si scrive è questo aspetto mortifero ed un po' criminale. Voglio dire, la cosa che raccontava Helena, l'esperienza di scrivere con questo tedesco che in realtà tu liquidavi attraverso queste poesie, anche nella tua biografia c'è qualche traccia... Nella natura stessa dello scrivere c'è un congedare le esperienze, un congedare le cose ed è una cosa che man mano che si va avanti inizia a far paura, proprio perché scrivendo ammazziamo e finiamo. Scrivere è proprio un concludere, quindi bisogna stare molto attenti a che cosa si scrive perché scrivere di qualche cosa che è ancora tenero, che sta crescendo e vogliamo che viva è una cosa che io, per esempio non posso fare. In un certo senso ho sempre avuto la possibilità di scoprire che le cose si concludevano. Per me è stato un percorso molto banale. Il primo libro l'ho scritto quando mi ha mollato la mia ragazza, quindi era chiaro che era finita e non potevo fare molto altro che raccontarlo. Ma lì è stato quasi terapeutico, un modo per separarsi da questo. Poi è stato un modo di liberarsi per esempio dalla nostalgia. Io ho sentito una nostalgia furibonda i primi anni in cui sono stato in Inghilterra. Poi, con La via del ritorno, ho scritto un libro contro la mia nostalgia, un po' per liquidarla. E poi in modo più sottile, più particolare, potrei dire di ogni libro che cos'è che è andato a morire, a finire lì. È per questa ragione che questo tipo di estraneamento con la lingua diventa molto delicato.
Fino ad un certo punto pensavo che io liquidavo. Ma in realtà aprivo, e sono vere tutte e due le cose. Adesso sono consapevole che i libri di una nevrosi, di qualche cosa che ti potrebbe tenere prigioniero perché vai avanti, non rinasceranno infinitamente. Mentre a vent'anni sentivo che si chiudevano delle cose ma si apriva molto di più, adesso inizio a sentire che quello che si apre è quello che può restare: altri venti, quarant'anni di vita creativa. Le cose anche si consumano, lo dico senza malinconia. Sento che non hai un numero infinito di possibilità e questo ha cambiato anche il mio atteggiamento nei confronti della sperimentazione. Infatti, nei primi tre, quattro libri sono molto più avventuroso perché mi sembra che in fondo non è la mia vera voce che sto cercando. Ora, invece, guardandomi indietro vedo che nonostante tutti gli esperimenti era sempre quella la voce, nonostante cercassi di manomettere la struttura, o di avere un tono più lirico o più toni che si contrastavano. Adesso mi rendo conto che, in realtà, c'è qualcosa di più determinante e profondo che scrive attraverso te, su cui hai poco controllo, per cui ho meno tempo per quella cosa lì... no, in realtà adesso ho sbagliato. Secondo me si apre, ma non infinitamente.
Studente Questo discorso della fuga mi fa venire in mente un film di Massimo Troisi, Ricomincio da Tre. C'è Troisi che fugge. Sa da cosa fugge ma non sa che cosa cerca. Allo stesso tempo per tutto il film dice che vuole incominciare da tre perché tre cose buone le ha fatte, a quelle non vuole rinunciare. Mi sembra anche giusto che, nel momento in cui si parte, quelle cose buone e forti che hai fatto te le porti dietro. Per il discorso dello sradicamento: quest'anno ho incontrato uno scrittore canadese che ha scritto un libro di racconti bellissimo. Per me, che vengo da un mondo così lontano, non era difficile riconoscermi in quelle storie di pescatori, di falegnami. Penso che quando il radicamento è reale in un certo modo i racconti diventano universali. Allo stesso tempo io non mi sento radicato in nessun posto. È più facile partire da un'appartenenza, invece io l'appartenenza me la sto cercando volta per volta. Forse il momento in cui mi è sembrata di trovarla, è stato l'anno scorso quando sono stato sei mesi in Danimarca per il progetto Erasmus. Per una volta tanto mi è sembrato di riconoscermi come italiano, tra gli altri. Anche se, per la prima volta, è venuto fuori tutto il mio rancore. Per la prima volta, stando fuori, guardavo all'Italia. Mi sentivo portatore di una cultura. Parlavamo prima degli incontri tra Inglesi e Italiani: gli Inglesi conoscono sì l'opera, ma dubito che conoscano De Andrè o Pasolini. Per me si pone il problema di cercare di creare una reciprocità negli scambi tra i paesi. Da una parte noi ce ne avvantaggiamo: ogni tanto io parlavo di musicisti o di registi americani o inglesi che non loro neanche conoscevano. In questo senso sicuramente mi sento privilegiato, però c'è poi il rischio che il nostro patrimonio venga perso.
Pubblico Ho tantissimi amici che sono andati via da Torino. Lo spostamento spaziale è uno spostamento che sicuramente apre dei nuovi orizzonti, delle nuove realtà, ma raramente modifica i dubbi interiori e in questo mi ha molto colpito. Non credo che lo spostamento spaziale modifichi il nostro rapporto con noi stessi. Io non scrivo, ma a furia di parlare con scrittori adesso proverò a scrivere anch'io! Mi sembra che la voce dei personaggi sia qualcosa che viene prima. La voce narrativa non è la voce di una lingua. Questa voce, secondo me, non ha niente a che vedere con la lingua, è una voce a cui tu dai una vita, una fisionomia, un luogo ma...
Davide Bregola A proposito di questa cosa, Alice Oxman mi ha parlato per tutta l'intervista di questa cosa, della voce e dell'importanza di cercarla appassionatamente. Nel momento in cui trova la voce per narrare una certa storia di certi personaggi, allora si mette a scrivere...
Pietro Gibellini Ma la voce sua o la voce dei vari personaggi?
Davide Bregola La voce dei personaggi, di quel libro che si mette a scrivere nel momento in cui le sono più chiare quelle voci. Mi ha parlato, praticamente per otto cartelle, di questa voce, sedicimila battute!
Enrico Palandri Probabilmente, noi non è che facciamo tante scelte su queste cose come l'andare ed il venire. C'è una terribile barzelletta che mi hanno raccontato dopo tanti anni che ero in Inghilterra: di un veneziano che, ad un certo punto, dopo cinquant'anni che è stato via, torna. Arriva a Castello, inizia a fare via Garibaldi con delle valige pesantissime e guarda questi posti della sua infanzia. Ad un certo punto incontra uno per strada che gli fa «Toni, ti parti?». Non l'ha mai visto andare! Forse in questo senso, non solo non ce ne andiamo via ma, in realtà, è lo stesso motivo per cui Casanova, in fondo, scrive nel nord della Cecoslovacchia, in francese e fa però parte della letteratura italiana. C'è qualche cosa che ti tiene da dietro e che probabilmente parla attraverso te che, in realtà, tu non puoi controllare, a cui non ti puoi sottrarre ed è qualche cosa di abbastanza misterioso. Non siamo noi ad uccidere, ed è per questo che anche queste operazioni commerciali di cui parlavamo prima sono un po' inquietanti. Perché ci si domanda è possibile che uno si sposti e diventi eccetera? Secondo me non è possibile. Ci sono delle determinazioni così forti che ci portiamo sulle spalle che, perfino la lingua, diventa una variabile. Chissà se Helena appartiene alla letteratura italiana, a quella tedesca o a quella polacca? Non è in realtà un problema che tu devi porti.
Helena Janeczek Si che è un problema che ti poni. Il problema è che, quando tu scrivi in una lingua, ti poni, volente o nolente, in una tradizione...
Enrico Palandri Questa tradizione letteraria ha però dei confini ambigui. Per esempio, io ho avuto un grandissimo amore, da italiano, quando vivevo in Italia, per Conrad e quando ho incontrato mia moglie che è scozzese le ho rotto le scatole: come non leggi Conrad? È un grande scrittore! E lei ha fatto due o tre tentativi ma, dopo un po' di anni capisco perché a lei non piaccia, mi rendo conto che è un inglese che per gli inglesi non è inglese, è una lingua che rimane sempre...
Helena Janeczek Sì, è troppo francese!
Enrico Palandri Sì. E invece, tradotto, funziona magnificamente. Ed è strano, perché delle cose di questo tipo esistono anche in Svevo. Anche in Svevo senti che c'è una difficoltà con la lingua, però in qualche modo noi l'accettiamo di più perché la sentiamo venire da questo attrito tra lingua e dialetto. Infatti, secondo me, quello di cui non riusciamo a parlare, che è più faticoso a dirsi, è il nostro senso dell'estraneità: che cos'è che noi rappresentiamo come l'esterno di Torino, cosa vuol dire, cos'è che c'è fuori di Torino? Anche lo spostarsi tra Noale e Venezia: che cosa succede quando vediamo un luogo estraneo? Estraneo in cosa? Questa è una cosa molto più misteriosa della lingua, il momento in cui scatta qualcosa. Come si costruisce l'altro, com'è fatto? Questa è l'anima nera!
Studente Due volte alla settimana, in inverno e molto più spesso in estate, vado a correre, faccio jogging. La cosa che mi stupisce sempre è il fatto che, mentre corro, per più o meno un'ora, sono da solo e, quello che penso più spesso è che sto tornando a casa, sto sprecando strada per tornare da dove sono partito. Mi pare che tutto sommato il movimento di ogni essere umano sia quello, scendiamo e torniamo a casa...
Studente Bisogna stare attenti ai fenomeni di cui parlava il professore Gibellini. Faccio due esempi: uno quello di Ringu, film giapponese di Hideo Nakata che è stato rifatto in America, The Ring da Gore Verbinski; l'altro è Insomnia, film svedese del '99 rifatto nel 2002 da Christopher Nolan, con Al Pacino e Robin Williams. Più o meno sia The Ring che Insomnia sono identici agli originali, ed inferiori probabilmente. Il senso è che, a volte, c'è un'industria più grossa, in America, che si appropria di alcune storie. L'anno scorso per esempio al festival di Torino c'era un film dello stesso Hideo Nakata, Dark Water (2002), ed era un film proprio bello e probabilmente lo stanno già rifacendo gli americani adesso...
Helena Janaczek Posso rispondere ad una cosa che ha detto lui? Io credo che vivere all'estero dieci, venti, trent'anni, sia qualche cosa che ti modifica, che modifica la tua personalità. Nei porti sul Mar Rosso si trovano dei fantomatici italiani che si presentano come italiani, di seconda generazione, magari non sono neanche mai venuti in Italia, parlano un italiano molto corrotto ed hanno pochissimo d'italiano. Però hanno qualche bagliore d'italianità e credono di essere italiani. Questo è il caso limite di una persona estremamente trasformata. La stessa lingua si corrompe. Sono via da quindici anni e il mio ultimo testo è pieno di francesismi, cosa che prima non c'era quindi adesso ho messo in moto un filtro, come il correttore automatico! Qualche volta ho ancora dei dubbi che mi rimangono. Quindi, io dico che stare all'estero tanti anni vuol dire poi avere una moglie di un altro paese, dei figli, è veramente qualche cosa. Credo sia una cosa molto profonda e penso che certi scrittori abbiano bisogno di passare per quest'esperienza. Lui ha sentito il bisogno di andare via, non ne poteva più dell'Italia. È però stata una cosa molto dura. Io sono scappato dall'Italia, Celati è scappato dall'Italia, spesso c'è proprio la volontà di tirarsi fuori e credo sia emblematico che uno scrittore abbia bisogno di estraniarsi da sé stesso, dalle proprie radici. Ovviamente il viaggio è uno dei mezzi. Ma ce ne sono diecimila altri: c'è la psicoanalisi, le arti marziali, lo yoga, la droga, ci sono tantissimi altri modi anche più frequentati di quello di partire fisicamente. Però, questo partire fisicamente...
Enrico Palandri È più per proteggere il dolore che per liberarsi.
Helena Janeczek Io volevo semplicemente dire qualcosa sul tornare a casa più adulti, più consapevoli. Oggi ci sono tantissime persone che non possono tornare a casa, persone normalissime. Se uno va via dall'Algeria e viene in Italia, certo può tornare a casa, magari poi scopre che si sente estraneo qui e là, però quella è un'altra tesi, è un'altro problema. Dove abito ho un'amica figlia di persone che lavoravano qui in Italia. Lei è italianissima, ma per tutta la sua vita non è quasi mai vissuta in Italia, per cui qualsiasi posto le va bene uguale. Ce ne sono tante di persone così al giorno d'oggi, figli di seconda generazione eccetera. Non è una cosa così traumatica. Se uno dovesse avere il desiderio di scrivere, la sua voce la troverebbe comunque. È un po' misterioso questo cercare di definire chi veramente siamo rispetto alla scrittura.
Pubblico Sarebbe interessante e utile guardare un attimo all'aspetto dell'esilio che magari è un aspetto parziale ma, io insegno letteratura tedesca da molti decenni, direi che questa ci offre mille esperienze, mille esempi diversi di autori che hanno dato le risposte più svariate alle tematiche del dover lasciare la propria cultura e nello stesso tempo mantenerla. Per esempio Thomas Mann, ad un certo punto va in America per staccarsi dall'ambiente di non cultura nella Germania nazista e dice «La cultura tedesca è là dove sono io». Io direi che l'aspetto a cui Helena aveva accennato prima, cioè che la lingua è uno strumento, la funzione strumentale della lingua, mi sembra molto importante. Però, la lingua, come il dialetto, diventa lingua come identità in una situazione dove si deve lasciare il proprio paese per motivi di tipo esistenziale, politico eccetera, e può diventare lo strumento fondamentale. Quindi regge un rapporto dialettico tra questi due aspetti: tra lingua come strumento d'espressione e lingua come fondamento d'identità. C'è chi è disposto ad inserirsi in una nuova cultura, chi non lo è.
Helena Janeczek Più che identità, è costruzione. Canetti è un esempio mostruosamente esemplare di questa cosa. Canetti scrive in tedesco, che è la lingua che gli ha inculcato la sua mamma, che non è per niente la sua prima o la sua seconda, neanche la sua terza lingua. Fa delle scelte esistenziali pesantissime pur di conservare la lingua tedesca. Dopo la guerra decide che deve per forza andare a vivere in un paese di lingua tedesca per conservarla. Il signor Canetti ha pagato un prezzo abbastanza alto. Non è una cosa che sta in piedi da sola, sta in piedi perché ci metti, ci dai, ci investi.
Riccardo Held Nel caso di Canetti non so se sono completamente d'accordo con Helena, perché si potrebbe dire che la lingua tedesca sia la sua lingua materna. È vero che non è la sua prima, è la quarta in realtà, però dopo diventa davvero la sua lingua. Lui sente che è entrato in una specie di fiume e non lo lascia più. C'è un aspetto volontario, però è un aspetto reattivo, non è costruito come quando si costruisce un'identità, cosa che potrebbe essere vera per Conrad. Un'osservazione: è assolutamente fondamentale capire a quale livello di libertà si verifichi il rapporto tra una lingua e un'altra, o ancora un'altra lingua, per determinare i pesi specifici. Se è su quel livello di libertà ha un peso completamente diverso da quello del livello di scelta assolutamente ridotto o nullo, e anche il suo essere fattore ereditario dipende dal livello di libertà. Noi abbiamo alcuni esempi di persone che "si sono trovate", pochissimi esempi di persone che hanno potuto scegliere come cambiare dimensione spaziale, dimensione linguistica e, fino ad un secolo fa, dimensione temporale. Oggi quando viaggi non cambi dimensione temporale ma non è sempre stato così, è un dato storico. Aumentare il sollievo dell'estraneamento spaziale è quasi annullato da questa omogeneità della scansione del tempo. Per quanto riguarda la mia esperienza, io non saprei in quale categoria collocarmi, perché, trovo, che i miei referenti siano il tedesco quando sono a Vienna, l'italiano quando sono qui e, da sei-sette anni, questo misto franco-inglese quando sono a Montreal. Allora, quello che è assolutamente matematico è che quando sono a Vienna ho un furioso bisogno di scrivere in italiano e scrivo solo in italiano, quando sono qui scrivo solo in tedesco. Quindi, nel mio caso, l'ambiente mi funziona come una specie di steccato che mi produce un desiderio per quello che in quel momento è più lontano. Se sono a Montreal faccio provviste, non mi viene voglia di fare né l'uno né l'altro. Anche questa è una costellazione significativa perché conosco quattro o cinque esempi che funzionano così, dove l'intorno linguistico è necessario per far venire il desiderio di quello che in quel momento è assente. Ultimissima cosa molto breve. Quando noi diciamo l'appartenenza, il fatto che un posto è mio e cose del genere, siamo tutti d'accordo che questo è un fatto negativo non desiderabile, non auspicabile. Penso che uno ha il sacrosanto diritto di spostarsi e cercare asilo da qualche altra parte. Non so se nel sott'inteso di quello che ho sentito qui, l'appartenenza, e queste cose di legame, come anche il fisiologico autentico, siano tutte negative, siano un nemico da combattere. Quando uno è nato in quartiere, in una città, quello che è intollerabile dell'amore nazionale o di nazionalismo, non è tanto l'odio per gli altri: è l'amore per la propria patria.
Studentessa Io non mi trovo molto d'accordo. Nel senso che ciò che lei intende di negativo come appartenenza per me significa anche allontanarsi volontariamente. Se uno si vuole radicare in un contesto di quartiere, cerca in un certo senso un rifugio una protezione che poi gli fa venir voglia di prendere un biglietto aereo. Ma sentire che, in fondo, per quanto uno poi voglia essere internazionale, conoscere, cercare, da una parte c'è una radice, non mi sembra negativo. Mi sembra un punto fermo.
Enrico Palandri Bisogna vedere se è veramente un luogo. Io capisco il sentimento che muove quello che dici, però non so se sia... per esempio, c'è un bellissimo verso di Novalis che dice «E dove andremo dopo? Sempre a casa». Però questa casa non è un luogo.
Riccardo Held Io sono d'accordo col sentimento di cui hai parlato, ma non sono d'accordo con, scusate questa parola, con l'episteme, cioè con l'idea di porsi in verifica di comprensione di questo fatto. Se volete capire il tedesco per piacere imparate il francese. Tu non capisci nulla di Mira se sei nato a Mira, deliziosa cittadina vicino a Venezia. Non la vedi se non hai visto un'altra cosa.
II. Interventi del pomeriggio
Enrico Palandri Prima dicevamo a tavola che in realtà Helena, Giacomo ed io, ci siamo trascinati... io in un guaio, perché in realtà quando uno cambia nazione, per scrivere in un'altra lingua, anche se non ha la polizia alle calcagna, lo fa anche per nascondere qualcosa e stamattina, invitandoli a parlare di questa cosa, ci si è ritrovati stranamente esposti. Però prima di ritornare a parlare di queste cose, ho invitato Benedetta Centovalli per la letteratura italiana e Cesare De Michelis che, oltre ad insegnare letteratura italiana, è la Marsilio, se così si può dire!
Cesare De Michelis Speriamo di no! Speriamo che sia più grande di me!
Enrico Palandri Perché ci raccontassero un po' di questi libri che nascono in italiano, vengono venduti negli Stati Uniti e poi vengono venduti in Italia. Ecco volevo che voi ci aiutaste a capire, da dentro il mestiere, come è cambiato, se è cambiato e che proporzioni ha, questo equilibrio. Perché noi abbiamo parlato da un punto di vista un po' romantico di tutte le buone ragioni per cambiare paese, cambiare lingua però c'è una pressione, un modo in cui questo mercato si è trasformato nel dopoguerra che forse voi conoscete meglio di noi e volevo chiedervi se ci raccontavate un po' come funziona. Per esempio questo è venuto fuori nell'edizione 2003 di "Ricercare". Ho un po' litigato alla fine con Sanguineti, o piuttosto lui si è arrabbiato perché io avevo dato qualche dato, secondo me, agghiacciante. Eravamo stati invitati a parlare della ricezione della cultura italiana nel mondo, io, Paolo Fabbri ed un paio di agenti, Viktoria von Schirach e altri. Avevamo tutti poco da dire perché i libri italiani vengono tradotti pochissimo. I cento libri che sono in testa alla classifica del «Guardian», una specie di «Corriere della Sera» inglese, venduti ogni anno in Inghilterra, sono solo libri anglosassoni. Non solo non c'è l'italiano, ma non c'è neanche Yehoshua, non c'è Kundera. Nomi che da noi hanno venduto molto, non hanno avuto nessuna penetrazione nel mondo anglosassone e viceversa. Credo che noi traduciamo moltissimo dal mondo americano. Benedetta Centovalli ha curato questo libro, Patrie Impure, che un po' si rivolge ai temi di cui parliamo.
Benedetta Centovalli Non so se ho capito bene cosa chiedi. L'argomento che viene fuori è molto vasto e complesso, quindi richiederebbe un'analisi molto puntuale o, al contrario, discorsi molto generici, molto articolati, difficili da fare qui su due piedi. Cominciamo da sé stessi, dall'esperienza che uno fa, che io sto facendo. Io mi occupo di narrativa italiana e pubblico autori italiani esordienti e non esordienti, o anche molto noti perché, essendo la linea di una casa editrice grande, è una linea che comprende questa ricerca a trecentosessanta gradi e quindi include autori già molto noti e autori, per fortuna in questo caso, che possono essere scoperti e avviati a maggior conoscenza o al successo. Il mio osservatorio è quindi molto particolare perché mi occupo della letteratura italiana, del nostro paese che scrive e che legge e non legge, a seconda. Quello che noto, rispetto a ciò che diceva Enrico, è che noi siamo un paese notoriamente esterofilo, un paese che importa tantissimi libri da altre culture. Vi volevo segnalare l'unica cosa che sono riuscita a recuperare dallo scaffale di casa e che mi sembra sia in tema con quello che stiamo dicendo: è questa pubblicazione annuale che si occupa del mercato librario italiano, dando uno sguardo un po' trasversale anche ad altro, però fondamentalmente incentrato sull'Italia. Esce tutti gli anni all'inizio dell'anno raccontando quello che è successo nell'anno precedente, e lo fa con grandi contributi di specialisti di sociologia della letteratura o di editori. È abbastanza ben fatto, perché è uno strumento non tecnicissimo che fornisce anche dei numeri. In questo caso cito quello che rende conto del 2000 e che contiene un pezzo di Paolo Di Stefano, scrittore che si è occupato per parecchio tempo anche di pagine culturali, come quella del «Corriere della Sera», a proposito di mercato e di successi. Scrive questo pezzo che si intitola Best seller europei. Tra autarchia e americanismo dove pone la questione di cui bene o male stiamo parlando. La pone in una maniera che mi è parsa interessante perché introduce l'argomento Europa. Nel lavoro editoriale se viene fatto un ragionamento più ampio rispetto ai propri confini nazionali è sempre in termini di acquisizione, di ingrandimento del gruppo che abbia a che fare anche con le varie culture dell'Europa. Di Stefano dice giustamente che "autarchia" e "altruismo" sono i due poli tra i quali si muove l'Europa. Da una parte abbiamo paesi come l'Italia, paesi che sono, come stiamo dicendo, esterofili. Ma poi, andando ad analizzare le classifiche, che è quello che lui fa, e in particolare le classifiche su internet (che è utile perché, pur fotografando una realtà in modo non troppo diverso da quella riportata dai quotidiani, ha però uno sguardo anche sull'estero), voi trovate che in Italia più della metà dei titoli sono stranieri, sia per quanto riguarda la narrativa, sia per la saggistica, elemento di distinzione perché è una cosa che avviene davvero raramente. Andando poi ad analizzare quella metà che non è italiana, vediamo che non è di tanti altri paesi, ma prevalentemente americana. Questo è un po' il vero problema, se lo vogliamo leggere così. È la cultura americana. Anglo-americana se proprio ci allarghiamo molto. Quindi quando si dice esterofili, ed in questo caso anche la Germania ha un percorso simile all'Italia, non intendiamo esterofili, ma diciamo qualcosa che ha a che vedere soltanto col mondo americano. Questo pone una questione piuttosto significativa che ci porta ad un tavolo più politico, che non ci riguarda strettamente, ma in modo indiretto sì. Il quadro internazionale è tale da obbligarci ad una riflessione sempre più urgente ed allargata sul fatto che tutto questo porta ad una disgregazione e ad un panorama mondiale molto preoccupante. Quello che m'interesserebbe si facesse, anche dal punto di vista dell'editoria, è confrontarsi su questo. Se da una parte abbiamo paesi come l'Italia e la Germania, che sono paesi in buona parte colonizzati dalla cultura americana, dall'altra abbiamo paesi come la Spagna e soprattutto la Francia che sono paesi di autarchia culturale, che hanno sempre fatto riferimento con grande forza alla loro cultura. Questo è chiaramente indice di un'identità nazionale molto forte, molto più forte della nostra, almeno per quanto riguarda l'Italia - la Germania credo che meriti una discussione a parte e completamente diversa. Consultando le classifiche dei libri voi trovate un'assoluta maggioranza, se non addirittura una totalità, di libri che sono solo francesi in Francia ed in Spagna spagnoli, vince l'autarchia. Tra questi due poli sarebbe interessante trovare il modo di un equilibrio o di un dialogo tra culture diverse che appartengono all'Europa. Per esempio, perché non porsi il problema di autori, in questo caso siamo in Italia e quindi italiani, che possano essere presentati anche al mercato europeo così come parliamo di Europa in termini economici, in modo da poterli spendere in modo più vasto, per esempio in termini di traduzioni. Qui si ritorna al problema che tu ponevi e quindi alla base dell'identità debole in un momento politico particolarmente complesso, se non difficile, con una letteratura internazionale così tremenda, dove il rischio è appunto quello della caduta o della sparizione dello spaccio della letteratura italiana. All'estero mi sembra che meno di così non sia mai stato registrato. Sarebbe interessante poter far leva su orizzonti più ampi e cercare di non lavorare solo con l'Italia ma provare a dialogare. È certamente un po' utopico, ma è quello che mi piacerebbe si facesse. Non è quello che normalmente si fa e su cui normalmente si ragiona quando si fa il nostro mestiere. Con un minimo d'orizzonte è una questione che varrebbe la pena porre. Questa globalizzazione, se vogliamo, seppure in termini non espansissimi quando si parla di editoria libraria, non produce di fatto un effetto positivo che potrebbe essere quello della circolazione, ma soltanto la concentrazione, spesso la semplificazione della proposta, sempre nella direzione che ci siamo detti prima. Questa era una riflessione più d'orizzonte che di concretezza: nella concretezza è una lotta quotidiana. Nel senso che a questo punto la situazione che io mi trovo a vivere è al di là degli autori molto consolidati o delle eventuali sorprese, scoperte, spesso aiutate dalle case. Quindi abbiamo degli autori giovani e sopratutto non tanti giovani, per la verità, ma comunque consolidati, che sono best seller italiani. Pochissimi di questi arrivano all'estero, solo due o tre hanno una visibilità internazionale. Per lo meno in Italia un piccolo numero di autori best seller c'è, dopo di che, almeno dal mio punto di vista, è una situazione molto difficile, la forbice è sempre più ampia tra questi pochi autori che vendono molto, in media sopra le centocinquantamila copie e la via di mezzo, che potrebbe stare tra le venti e le venticinquemila copie, che appartiene ad un numero molto ristretto di autori, ed infine la maggior parte degli autori che, invece, ha una vendita media da disastro pensando al paese, cioè pensando a dei numeri un po' più possibili. Questo quindi, a rotazione, vuol dire che la proposta possibile, la forza propositiva all'estero, è proprio bassa e quindi si riesce a far passare solo quello che arriva allo statuto del best seller, autori che vediamo sempre in cima alle classifiche di mese in mese e di anno in anno. Non è una situazione semplice.
Enrico Palandri Scusa la brutalità della domanda, ma esistono per i libri quote come per l'acciaio, esistono delle cose del genere tra l'editoria italiana e quella americana ed europea, o funziona che ognuno compra quello che vuole sia qui che lì? Intendo dire quote di mercato.
Cesare De Michelis Non esistono controlli. C'è un'operazione di dumping dei paesi europei contro l'editoria americana e viene finanziata la traduzione in inglese di pochi libri. Questo secondo me porta ad un problema diverso: primo, il mercato dei best seller è un mercato ormai globale. È vero che il mercato americano determina il successo di un libro, ma in realtà lì trovi che ci sono indiani, australiani, ungheresi. Quando campi nel mondo dei best seller, o parli inglese e quindi scrivi in inglese, o fai fatica. Dino De Laurentis spiega che una delle follie della legislazione della cinematografia italiana è di non consentire il finanziamento dei film in lingua inglese, così che vai a finanziare i film che non vanno sul mercato, perché la gente non li capisce. Il problema linguistico c'è, è che sul fronte dei jeans siamo più forti degli americani. Non c'è un ostracismo anti-europeo, anti-italiano. Da tempo il mercato dello spettacolo, che condiziona alla fine il sistema di best seller letterario, è determinato da un'industria europea dello spettacolo che ha fatto una serie di flop clamorosi perché abbiamo perseguito, nel bene e nel male, la politica autoriale. Il ragionamento è questo: il consumo di tempo libero ha standard di produzione, di prodotti che la nostra industria editoriale tende a non fare perché abbiamo, per fortuna o per scarogna, una tradizione umanistica più forte e abbiamo un'idea della letteratura per cui dobbiamo spiegarci, dobbiamo riflettere, dobbiamo pensarci prima di dire qualcosa. Antonioni è sicuramente più profondo, più intrigante di Topolino, però Topolino vende molto di più. Cosa buffa è che perfino Topolino lo facciamo meglio noi! Lo inventano loro ma la produzione di Topolino perfino degli americani la disegnano qui. Sono due cose distinte. Ogni polemica nazionalista o antinazionalista è gia persa, non c'è niente da fare, lì bisogna inventare i best seller: chi sa farlo vincerà, chi non sa farlo perderà, è un mercato in cui ci si ritrova. I film di Hollywood ci piacciono di più! Immagina di essere Berlusconi e di poter fare quello che vuoi. Sei in televisione e c'è un film francese, un film americano, un film italiano, uno tedesco, uno russo e anche uno ucraino. Poi accendi e vedi che l'americano ha il 72% di odeon e gli altri tutti insieme hanno il 28%. È una battaglia persa. Il voto popolare dice tutte le mattine che sta dall'altra parte.
Benedetta Centovalli Però venti anni fa non era così quindi la si può ribaltare.
Cesare De Michelis Non si può ribaltare. Il caso di Andrea Di Robilant: stava in America da qualche anno, faceva l'inviato de «La Stampa», e ha trovato un agente che gli ha detto come vendere in America. Lui è stato disposto a seguire i consigli di un agente americano e di uno italiano e ha fatto un prodotto che, non so se sia un best seller, però è diventato un prodotto americano in trenta secondi. Se non fai questa trafila non diventerai un prodotto americano neanche in trent'anni. Il problema è che non siamo affatto colonizzati. Non c'è una cultura egemone americana che fa propaganda sull'Europa: c'è un'industria culturale che costruisce prodotti internazionali i cui contenuti vanno bene a tutti. Mussulmani, francesi, ebrei, non gliene importa nulla a loro! Il problema è che il prodotto funzioni. Se si va a studiare la storia di Hollywood si vede che di americani non ce ne era uno, erano tedeschi, francesi, ebrei, italiani.
Benedetta Centovalli Sì, questa è l'America!
Cesare De Michelis Sì, ma poi non è che li chiudevano ad Hollywood, ogni tanto li rimandavano in Europa, dove non riuscivano a trovare né i fondi né le strutture per fare dei film. Facevano così dei film da amatore, da cineclub, poi tornavano lì e ricominciavano a fare dei prodotti diversi. È una catena di montaggio diversa. Se noi parliamo di letteratura come luogo della creatività e dell'intelligenza, della conoscenza e della verità, quasi tutto quello che si vede non ha niente a che vedere con quest'idea. Questa cosa non c'entra quando si ha della letteratura quell'idea, un po' scolastica, lo ammetto, che comincia con Dante e Petrarca.
Benedetta Centovalli È vero, però sono successe cose interessanti anche negli Stati Uniti in questo senso. Pensa a Jonathan Franzen, è stato un successo enorme in America ed è stato un successo enorme qua. Enorme, insomma, discreto.
Cesare De Michelis Non l'ho letto.
Enrico Palandri È quello di Le correzioni.
Cesare De Michelis Ho capito chi è ma non l'ho letto, quindi non riesco a capire se è un prodotto seriale o non seriale.
Benedetta Centovalli C'è il best seller d'intrattenimento, come possono esserlo i thriller, e poi esistono anche best seller di qualità.
Cesare De Michelis Su questo ho un'idea diversa. Questo fenomeno d'inquinamento del best seller d'intrattenimento è un'ideologia forte, che tra l'altro nel mondo anglosassone ha una tradizione forte al contrario che da noi, dove la letteratura era assolutamente elitaria al punto che se uno si divertiva a leggere un libro veniva subito punito e gli tagliavano le mani. I nostri libri devono essere dei luoghi di sofferenza, come sempre.
Studentessa Volevo chiedere quando si possa parlare di letteratura in termini di mercato. Non penso che Dante, o altri scrittori che hanno scritto delle grandi opere, avessero come ultimo scopo quello di poter essere venduti, eppure queste opere sono state annoverate nella letteratura e hanno avuto una tradizione molto lunga che tuttora vive, quindi parlare di letteratura soltanto in relazione a ricerche di mercato mi sembra alquanto limitativo.
Helena Janeczek Io intervengo in questo momento come persona che lavora nell'editoria e che da anni si occupa sopratutto di autori tedeschi, con risultati pressoché nulli, tanto è vero che in qualche modo per legittimare i soldi che mi da la Mondadori leggo tantissimi anglo-americani, sia letterari che commerciali, praticamente proprio di tutto. Non c'è in Europa differenza dell'autocoscienza oppositiva europea rispetto all'America, e non c'è nessun interesse rispetto alle altre letterature europee. I lettori, che in genere si considerano persone di sinistra, hanno un atteggiamento rispetto alla cultura che oscilla tra AN e Forza Italia nel senso che sono filoamericani, come Forza Italia, e sono attaccati alla letteratura nazionale come Bossi. Non solo nazionale, ma proprio regionale, quindi abbiamo autori come Camilleri eccetera. Ovviamente sto estremizzando, ma piacciono tutte cose che hanno il segno del particolare, del regionale italiano, quasi come se quest'Italia rappresentata dalla letteratura - parlo della letteratura che piace in questo senso - attraesse fette di un'Italia un po' olografica, in cui anche gli italiani provano una specie di gusto folcloristico. La letteratura italiana per gli italiani è diventata molto simile alla letteratura italiana che piace all'estero, cioè quella un po' "pizza mandolino", anche se in maniera ovviamente un po' più sfumata. Dall'altra parte funziona la letteratura anglo-americana, sia gli analoghi ai prodotti hollywoodiani, sia questi grandi casi letterari che sono casi letterari di terzo rango, libri che diventano grandi successi in tutta Europa e in tutta Europa succede la stessa cosa. Succede la stessa cosa in Germania, che era un paese esterofilo, dove c'era spazio per altre culture, anche lì da una parte ci sono gli autori tedeschi e dall'altra gli autori americani di ogni tipo, di buona qualità letteraria, o di genere, insomma i soliti, magari con delle piccole differenze. Credo che anche paesi come la Francia e la Spagna facciano la stessa cosa...
Benedetta Centovalli Sì tantissimo, lì proprio c'è un muro, non passa proprio niente, se passa è roba o inglese o americana.
Helena Janeczek Sì, e sono sempre gli stessi libri. Camilleri non è sloveno, non è ceco...
Studentessa È un problema di globalizzazione o è un problema economico?
Helena Janeczek Il problema è che effettivamente al lettore italiano non gliene frega niente di come è la Spagna o la Germania. Non gli interessa!
Studentessa Penso che in libreria si vedano perlopiù libri anglo-americani, sono quelli più visibili, è normale: i tuoi amici hanno tutti letto quello e dici «va be', lo leggo pure io», poi non hai diecimila ore alla giornata per poter leggere tutto!
Helena Janeczek Il mondo anglo-americano è un mondo che credi di conoscere, sei talmente cresciuto con quell'immaginario, con quei modi di fare. È un luogo letterario morto. Se tu da lì ti sposti soltanto oltre il confine con l'Austria contemporanea, non sai più in che luogo ti ritrovi, diventa tutto più faticoso.
Studentessa Però anche in America c'è il mondo dei best seller e anche un mondo letterario che è sotterraneo e che non è quello delle grandi vendite.
Pubblico Forse quello che voglio dire non c'entra, ma si è nominato Camilleri. Voglio far notare che Camilleri deve il suo successo a tutto questo sciagurato malinteso sullo specifico, sul locale. Sopratutto in veneto funziona benissimo, è identico, sembra sia stato scritto in Veneto, questo è magnifico per avere un saggio del cos'è il tipico. Camilleri, tradotto in veneziano, pare sia stato pensato in veneziano e tutto funziona magnificamente, come se fosse stato scritto lì, dall'altra parte del canale. Tu parlavi della globalizzazione. Ma questa specie di disagio che abbiamo ogni volta che parliamo di queste cose per me si traduce nel non sapere esattamente di quale livello stiamo parlando. Stiamo parlando di quel che è desiderabile o auspicabile secondo una logica di presa, secondo elementi del nostro piacere o della comprensione dell'uomo? Io trovo, esagerando anche un po', che sia vero che si sottrae larghissimamente al successo della cultura dominante, nel senso che quella cultura dominante è un'immensa episteme che ci si è appiccicata. I tedeschi, gli americani ed i canadesi non sanno quasi più chi è Fitzgerald e sono quelli che leggono e decretano i milioni di copie di successo dei best seller. Quindi questa distruzione, questa capacità di accettare qualsiasi cosa, di rendere accessibile, che significa svuotare del 98% delle sue caratteristiche proprie...
Cesare De Michelis Questo è un percorso all'incontrario.
Pubblico Voglio concludere. Noi allora su cosa è augurabile che riflettiamo? Perché se vogliamo fare letteratura non abbiamo la minima possibilità di entrarci, dobbiamo cercare di capire come rafforzare la nostra capacità di auto-rappresentarci, cosa che i francesi sanno fare un po' meglio di noi.
Riccardo Held I francesi hanno ancora un buon mercato perché hanno ancora una tradizione letteraria molto ricca, molto varia, molto buona, tengono il colpo. Parliamo di narrativa italiana. Il problema nostro è che la nostra narrativa italiana, a differenza di quella francese, è molto fragile, fragile è stata sempre perché abbiamo molti pochi lettori, ed è ancor più fragile negli ultimi anni. C'è stata una nuova ondata di scrittori che è nata con un lettorato che è quello che è, non è immenso, ma quello che voglio dire è che lo spazio per muoversi, lo spazio per fare dei nuovi libri, secondo me, c'è ancora. Chiaramente non si può competere però: dal mio punto di vista, come lettore, voglio che in libreria ci siano i libri che leggo e come autore mi interessa che i libri siano prodotti e tradotti possibilmente in altre lingue.
Pubblico L'odeon, quindi le variazioni minime che diventano subito calo per poco tempo, in modo non consapevole, c'era anche ai tempi di Omero, non è una cosa che abbiamo inventato in questo secolo. Al suo tempo Omero ci teneva, esattamente come uno scrittore esordiente di oggi, a piacere al suo pubblico, al gradimento, non è affatto che lui fosse insensibile e Shakespeare ancora di più. Io mi ricordo al liceo, quando facevamo Kant, spiegavano la differenza tra idee regolative ed idee costruttive. Kant aveva questa definizione per cui l'idea del bene era un'idea regolativa, l'idea di Dio era un'idea costruttiva. Ora sembra come che quest'idea del piacere, del gradimento, dell'odeon si sia spostata dalla fase regolativa a quella costitutiva della struttura. Questo sarebbe un disastro, voglio dire è come se fosse già presente prima, se fosse anticipato quel tipo di appiattimento, di abbandono delle differenze nel processo della scrittura. Questo sarebbe un elemento quasi antropologico contro cui prendere qualche contromisura.
Antonella Parigi Premetto che ormai io ho una mia chiusa di una deriva politica nel mio pensiero! Mi chiedo - non entro nei meriti dei contenuti su cui si potrebbero far delle riflessioni - ma noi, in Italia, non abbiamo più un biscotto italiano, esistono delle fabbriche che producono biscotti che sono italiani, e fra l'altro stiamo anche perdendo l'ultima fabbrica che produce automobili italiane! Il grande mito della libera impresa non esiste più, non c'è più perché non è più italiana, non è nostra, siamo completamente dominati da un mercato che è in mano alle multinazionali. Questo vale per i biscotti, per le macchine, per tutto. Per altro, che i biscotti siano di origine americana non me ne frega niente, li mangio ugualmente. Ma la cultura è un sistema produttivo esattamente come per le automobili e in questo l'Europa aveva il dovere di tutelare, di mettere delle regole, cosa che non ha fatto. Là dove l'ha fatto ha sortito qualche effetto in più, ma per esempio della letteratura se n'è fregata totalmente. Nell'ambito del cinema ogni tanto s'è svegliata, ed infatti per quanto riguarda il cinema io non sono d'accordo con Lei che dice che i film americani sono i migliori.
Cesare De Michelis Non l'ho detto, ma sono quelli che la gente guarda!
Antonella Parigi Quando noi usciamo a vedere qualche film che non sia americano tipo Good bye Lennin!, io lo trovo un film bellissimo.
Cesare De Michelis Dogville...
Antonella Parigi Sì, Dogville. Ma perfino Muccino mi diverte di più dei film che mi porta a vedere mio figlio. Ma facciamo l'ultimo esempio: dopo che abbiamo creato i contributi all'industria cinematografica abbiamo detto «viva il libero mercato!», che abbiamo avuto in ritardo e che tra l'altro è già fallito perché gli americani sono nella merda fino a qui ma noi siamo ancora per il grande libero mercato, è un mito che effettivamente ci ha invaso. Io non sono contro il libero mercato ma penso ci vorrebbero delle regole. Con il cinema il risultato è stato che a Torino nel giro di un anno da quaranta sale ora sono ottanta sale. Hanno chiuso le piccole sale di distribuzione indipendente. Ora tu puoi anche fare un film meraviglioso con dei contenuti eccezionali ma lo fai vedere a tua zia nel salotto di casa tua! Il punto è che bisogna dare delle regole perché senza queste non c'è neanche la possibilità di creare un terreno di coltura, senza delle regole europee che dicano che comunque sia ti sorbisci una schifezza. Facciamolo almeno per la cultura!
Enrico Palandri Però Antonella, prima di tutto noi non abbiamo questi poteri. Possiamo chiedere di essere tutelati però quello su cui vale la pena che riflettiamo, adesso qui, è che usiamo questa parola cultura in un modo secondo me un po' troppo leggero. Perché uno può non mangiare dei biscotti o mangiare dei biscotti che non fanno a casa sua, o guidare delle automobili che non sono fatte a casa sua, ma il vero problema è quando tu parli a qualcuno ed il mondo in cui lo fai, ciò attraverso cui tu interpreti l'altro e attraverso cui l'altro interpreta te; non è più la tua storia ma è un'altra storia di cui noi siamo tutti intessuti. In questo senso stamattina abbiamo parlato di letteratura e io ho invitato degli autori, che hanno una storia di raddoppiamento, sdoppiamento, sradicamento, per parlare appunto di questo. Poi ho invitato Cesare e Benedetta per darci un quadro un po' più tragico della cosa perché stamattina abbiamo parlato delle scelte. E adesso siamo di fronte a ciò che, secondo me, in modo non personale ma storico e collettivo, ha determinato il quadro all'interno del quale ci muoviamo.
Antonella Parigi Sto dicendo che secondo me, al di là dei problemi di contenuto, mancano le possibilità.
Enrico Palandri Però tu parli a me ed io parlo a te e stiamo parlando in italiano. Cosa c'è tra te e me? Voglio dire io e te ci parliamo come tra Torino e Venezia o c'è nel mezzo...
Antonella Parigi Ma tu parli di un rapporto tra noi ed il mondo americano o... ?
Enrico Palandri No. Dico anche tra di noi.
Antonella Parigi Prova però a prendere uno sceneggiatore americano e poi prendi uno sceneggiatore europeo. Sono due mondi molto distanti. Io prego tutti i giorni che non vincano, perché di questo stiamo parlando. In una storia d'amore, per esempio, ci mettono sempre lo stesso personaggio che deve sempre essere fatto in un certo modo, che è sempre lo stesso.
Studentessa Non è tanto lo sceneggiatore americano quanto lo sceneggiatore che ha poi successo, perché anche in America ci sono comunque degli esempi di film che stanno venendo fuori...
Antonella Parigi Sì, però sono solo di una certa cinematografia. Ti voglio mandare, per tuo interesse personale, le mail che scambio con Truby il quale mi dice che per mille dollari scrive questo, per mille e cinquecento dice anche queste cose, per mille e cinquecento al giorno, un po' di più e così via.
Enrico Palandri Scusa chi è Truby?
Antonella Parigi È un grandissimo story editor di Los Angeles. Questo è un modo di intendere la cinematografia lontanissimo dal nostro modo di pensare alla narrazione, alle storie, tanto che io penso sarebbe bene fare un seminario per loro, che tra un po' perderanno il senso della storia e avranno bisogno di me! In questo senso mi è molto più chiara la differenza.
Cesare De Michelis Gli strumenti ideologici che noi applichiamo nell'intervenire su questo non funzionano. Quello che è accaduto e che accade ed accade davanti agli occhi di chiunque prenda la penna in mano, è che lo statuto della letteratura, che per noi è apparentemente chiaro, è invece assolutamente ed ambiguamente oscuro. Quello che abbiamo imparato a scuola è che la letteratura è quella particolare forma di esercizio dell'invenzione che passa attraverso la scrittura per cercare la verità. Qualcuno dice che cerca la bellezza che è già una deriva quasi novecentesca perché prima si diceva solo la verità, poi qualcuno ha confuso la verità e la bellezza ed è un effetto che a me non piace ma che in ogni caso fa parte dell'idea letteraria. Il punto è che questa letteratura della verità è stata, da sempre, un'attività di nicchia, di una corporazione di frati, chierici, letterati eccetera, eccetera, che non ha mai toccato la gente. Questa è la nostra tradizione, l'abbiamo inventata in questo paese, costruita in questo paese, da Petrarca fino a Leopardi quantomeno, probabilmente anche oltre. Era una letteratura che si è inventata una lingua che non ha niente a che vedere con l'italiano che parla la gente, che può leggere la gente, ma è la lingua di questa comunità di persone, quelli che sapevano leggere la letteratura, che la leggevano a Rotterdam, come Erasmo, che la leggevano a Londra, come Shakespeare. Non gliene importava nulla che fosse una lingua non parlata, era la lingua della verità. In questo frangente, nel disastro che il secolo scorso ha fatto in tutta Europa ed in tutto il mondo, abbiamo ucciso quest'idea di letteratura perché abbiamo ucciso l'idea della verità. Se volete questo è troppo difficile spiegarlo in cinque minuti, ma noi abbiamo ucciso, nel corso del '900 con tentativi, desideri e volontà l'idea che sia possibile arrivare alla verità. Siamo in preda ad un relativismo impressionante, all'ipotesi che il progresso fosse cambiare sempre idea e quindi, se la verità dura tre minuti non ha più nessun pregio, nessun valore. L'abbiamo fatto con tenacia, abbiamo buttato alcune bombe atomiche che hanno distrutto l'idea della verità. Qui ci sono due problemi che hanno gli scrittori, mi dispiace ma sono anni che cerco di discuterne con loro. O loro cercano la verità, esercizio complesso che comporta alcune risorse che bisogna mettere in gioco che sono una disponibilità ad andare fino in fondo, a soffrire, a scovare, cosa che comporta primariamente la fiducia di poterci arrivare. Oggi nella letteratura italiana e in quella che sostituisce quel club di cercatori della verità, abbiamo una serie di scrittori che, poiché non credono nella verità, fanno delle cose effimere. Le fanno volutamente effimere perché hanno paura che durino, esattamente come fanno gli artisti figurativi che non fanno più delle belle tavole ad olio che sono lì come Bellini che vedete da cinquecento anni. Fanno dei quadri che si auto-distruggono affinché non resti traccia della loro cattiva azione. In letteratura è più difficile ma, una delle caratteristiche tipiche del mercato editoriale è che tutti gli scrittori scrivono un libro e, tendenzialmente, un anno dopo ne scrivono un'altro che supera il precedente e lo annulla. Facendo il mestiere dell'insegnante, mi trovo a dare tesi di laurea sugli scrittori di oggi. I ragazzi preferiscono la contemporaneità così do valanghe di tesi sugli scrittori degli anni '80 e '90. È impossibile scrivere una monografia su questi scrittori perché non hanno storia loro, non perché siano cattivi o buoni, ma perché fanno un uso della letteratura che è profondamente diverso da quello che faceva Pavese o Moravia. Loro registrano e come tale non può durare, non deve durare. Tutto ciò che è lo spettacolo teatrale, la performance, ci dice che fotografare il teatro con la televisione è un atto immorale perché il teatro non deve essere bloccato dal cinema. È un documento più o meno utile, più o mento falsificante, più o meno mistificante. Siccome siamo anche tutti smemorati, è un mondo di alzheimer quello in cui viviamo, pensiamo che la smemoratezza venga sopperita da questi mezzi meccanici che sembrano doverci ricordare l'emozione che abbiamo visto quando eravamo al teatro. È impossibile, quell'emozione non ce l'avrai più. Se tu guardi qualsiasi regia di Strehler in televisione, non si riesce neanche vagamente a percepire la sua grandezza registica. La vita è così, le cose finiscono ed io che non sono riuscito ad andare a letto con la Venere di Milo piango da settecento anni! Marylin Monroe si è suicidata. È un disastro ma poi penso ce ne sarà una meglio in giro per il mondo, si tratta di scegliere. Il pensiero di tenere in vita Marylin Monroe per soddisfare le mie modeste pulsioni sessuali è impossibile e così è impossibile salvare il teatro che c'è stato o rievocarlo. Ciascuno di noi è come una candela, consuma la propria esistenza in tempo reale e l'uomo, che ha una potenza sconfinata, ha una sola cosa che gli manca che è la marcia indietro: indietro non si torna! Tutti gli errori che hai fatto te li tieni, tutte le cazzate che hai fatto te le tieni, non c'è verso, dobbiamo sempre andare avanti. Provate a far manovra senza marcia indietro in automobile e vedrete che è faticoso. La nostra vita è così, dobbiamo parcheggiare solo con la marcia avanti. Devi girare il mondo per trovare un bello spiazzo e lì finalmente ti fermi. Quando ti fermi non vuoi più partire, tra l'altro! È una logica diversa. Perché il fondamento etico che consentiva alla letteratura di essere quell'altra cosa lì, Omero, Dante, Petrarca, l'abbiamo sgretolato. Ci sono due vie: possiamo restaurare. Sono due secoli che la restaurazione viene sconfitta ma due secoli che si ripresenta tutti i giorni. Andate a vedere la Fenice è rifatta, come prima più di prima, come dice il mio amico Cacciari, e tuttavia è tutta diversa. È ovvio che sia così, è un oggetto restaurato anzi ricostruito. La restaurazione è una delle soluzioni. L'altra che il mondo da secoli annuncia è la rinuncia. Non è che abbiamo molte alternative diverse. Cosa fanno tutte le persone? Fanno una restaurazione con qualche rivoluzione. Questo è quello che facciamo e gli scrittori fanno esattamente questo, restaurano la bella scrittura, cercano l'armonia della frase, ma la loro armonia della frase, senza nessuna polemica, non è più come quella vecchia perché non c'è più la coscienza di una lingua. La lingua italiana della tradizione è morta. Come spesso fanno i cadaveri, restano con noi a lungo dicendo che non sono propriamente morti e quindi il cadavere della lingua italiana è sopravvissuto fino alla fine degli anni '80. Non ce n'è più memoria. Fate un esperimento tecnico scientifico: prendete una classe di universitari che abbiano diciotto anni e provate a leggere con loro una pagina di Verga. Non capiscono.
Benedetta Centovalli Una cosa che mi viene in mente ascoltando Cesare, facendo questo mestiere, e dalla parte dell'editore e dalla parte dell'autore, è in realtà è il contrario, uno lo fa perché ci crede. Tu non sei obbligato a scrivere, io potrei fare un'altra cosa nella mia vita. Non si può non essere allarmati però io credo che ci sia una via d'uscita, penso che ci sia ma credo che però sia in un'altra direzione. Penso che sia nella differenza, nel coltivare la differenza e quindi nell'allontanarsi o nell'essere il più possibile attenti o critici nei confronti di quello che a volte ci arriva come già digerito e già stabilito, come se dovesse essere intoccabile. Per quello, rispetto alle cose che diceva Cesare, non sono del tutto d'accordo sull'idea della letteratura come ricerca della verità, nel senso che è molto difficile dire una cosa del genere perché dovremmo interrogarci su che cosa significhi per ciascuno di noi o per un paese o per una cultura la verità, quale verità. Io quindi, non perché non accetti l'idea della verità, ma perché è qualcosa che devo interrogare ed usare con molta cautela, mi sposterei spontaneamente sull'idea d'identità. Il discorso che avevo provato a fare all'inizio, era in questa direzione. Io riesco a salvaguardare un'idea forte di letteratura là dove per me la letteratura è un esercizio d'identità, quindi, prima di tutto, identità personale e come tale della mia verità personale, verità di persona, verità della mia storia biografica, esistenziale. Questa mia verità-identità deve andarsi ad incrociare con quella del contesto della società o del piccolo mondo, della lingua, in questo caso l'italiano. Io chiedo alla letteratura di fare questo nel modo più forte possibile, di rendere riconoscibile un codice culturale che, appartenendo ad una lingua, ha delle sue caratteristiche precise, ha una sua storia. La mia storia rispetto alla storia di Antonella ha in comune ancora una cultura, un tessuto, una lingua, dei vissuti, una televisione, di merda, certamente, ma sempre televisione è. Una serie di cose che devono essere condivise e che è necessario ritrovare dentro la letteratura. Se difendo questo e riesco a trasportarlo nella letteratura, la letteratura vive. Questo deve fare, non credo debba fare altro. Questo vuol dire anche riuscire a trovare una via che è alternativa a quello. Non è antiamericanismo, non c'entra niente, è che semplicemente la storia culturale che ci proviene da quella letteratura non è esattamente la nostra, quindi noi non possiamo aderire a pieno. Una cosa è pensare ai meccanismi di creazione di un best seller di tipo d'intrattenimento che senz'altro ha delle griglie compositive molto tecniche che io potrei anche condividere. Però, se parlo di letteratura chiedo altro, chiedo una complessità maggiore e di conseguenza chiedo una riconoscibilità ed una appartenenza. Per me quindi è appartenenza, identità e differenza, è in qualche modo un'alchimia di questi elementi.
Riccardo Held Posso fare una brevissima domanda? Un professore come De Michelis di cui ammiro sempre l'intelligenza e anche l'astuzia, prima dice a me che sono ideologico e poi lui è iperideologico! Dopo aver presentato una situazione oltranzista rispetto all'immagine del mondo di Blade Runner, cioè dove l'alternativa sono due disastri, tu dici che noi facciamo un po' di restaurazione ed un po' di rivoluzione...
Cesare De Michelis No, non l'ho detto. Io farei solo restaurazione se fosse per me, però poi constato che tutti fanno un po' l'una un po' l'altra.
Studentessa C'è questa terza alternativa che è l'evoluzione che non è stata considerata. Visto che restaurazione e rivoluzione sono state provate, forse si può provare una strada che sia diversa e secondo me la letteratura si sta anche accorgendo di questo.
Cesare De Michelis Sai in politica come si chiama l'evoluzione? Progresso senza aperture.
Studentessa La letteratura si sta accorgendo della sofferenza che prova dell'essere relegata e della ricerca che lei fa della verità. Però si sta anche accorgendo che è un mondo in cui dieci persone fanno la verità e poi tutto il mondo fa al contrario. Non è poi così utile quindi, e sta cercando una forma di comunicazione per potere anche incidere.
Cesare De Michelis Quando Riccardo prima piangeva sul latte versato della postmodernità non constatava che negli anni '30 non era Moravia che veniva letto, Moravia si stampava a spese sue! Chi veniva letto era Pitigrilli, cioè un cretino imbecille che in confronto la letteratura americana è una roba da saltare dalla gioia, o Guido Da Verona, con la parodia dei Promessi Sposi, cioè delle vaccate, delle puttanate che gridano vendetta davanti a Dio. Non è che avevamo di meglio, avevamo 'sta schifezza qui perché i libri Ossi di Seppia hanno venduto quattrocento copie in dieci anni!
Riccardo Held Chi è che ha pianto sulla postmodernità? Da cosa te la sei inventata 'sta cosa?
Cesare De Michelis Hai detto «togliamo qualcosa per costruire un best seller»: non togliamo aggiungiamo! I nostri lettori di un libro modesto di poesie di oggi sono quattro volte quello di venti anni fa.
Enrico Palandri Vorrei fare una puntualizzazione. Un po' perché queste cose che hai detto Cesare io le sento dire, scusa non lo dico con spirito polemico, ma da almeno ventiquattro anni. Da quando ho pubblicato il primo libro, mi sono sempre trovato davanti una descrizione della letteratura come qualcosa che era alla fine di qualcosa o non funzionava o non sarebbe andata. Nonostante tutto poi uno non deve farsi terrorizzare dal mercato per una ragione semplice e cioè che queste cifre non sono quello che importa. Per me quello che conta è il mondo che c'è tra me ed un altro, il mondo che viviamo, le cose di cui parliamo, dove sicuramente ci sono anche delle influenze, delle trasformazioni appese a dei best seller. Però dire che da Dante a Leopardi è una nicchia è un po' limitativo, a me sembra molto, molto di più di una nicchia, mi sembra che in realtà è quello che costituisce un percorso, quello che poi si va a scegliere. Non sono neanche d'accordo con quest'idea che la letteratura italiana degli ultimi anni sia stata una letteratura più effimera. In realtà a me sembra che il romanzo italiano abbia iniziato la sua stagione migliore nel dopo guerra. Abbiamo avuto dei libri bellissimi, mentre invece quando guardi l'Ottocento, per esempio, è stato più povero dal punto di vista romanzesco, o in ogni caso non comparabile con l'Ottocento russo, inglese o francese. Mi sembra che della Morante, di Calvino, e anche di tante persone che hanno scritto nella mia generazione, ci sono dei libri che puoi prendere in mano, che puoi consigliare, su cui puoi costruire un ragionamento. Mentre dicevi queste cose mi sono sentito stranamente in sintonia con Sanguineti che all'ultimo "Ricercare" si è arrabbiato in modo furibondo con me e con altri che cercavano di mediare col mercato e spiegare in che modo il mercato poi ci condiziona. In fondo uno fa queste scelte un po' a prescindere ed è vero che resiste. Io non mi sento, quando scrivo, né legato ad una restaurazione né ad una rivoluzione. Se mai mi sento legato ad una forma di esplorazione, di avventura che con me, come con tutti i miei coetanei che hanno finito per fare questo lavoro, ha preso la vita molto bene, perché poi ha costruito, ha raccontato, ha fatto discorso, sia con gli studenti che ho trovato qui a Venezia che con la gente che incontro. Non saranno migliaia di copie, però i libri non sono neanche restati in mano ai miei editori. Va così, non facciamo le duecentomila copie, ma c'è anche quel mondo in cui si fa della letteratura, ci si incontra, si parla, c'è discorso. Allora mi sembra un po' terroristico cercare di immaginare che tutto questo sia qualcosa di secondario. Dall'altra parte vedo invece che moltissimo di quello che è arrivato attraverso il best seller negli ultimi quarant'anni è stato effimero, non ha costruito alcun discorso. Ne trovi di fili e di tessuto, al contrario, se fai un discorso sulla letteratura italiana e parli di Tondelli, di Bilenchi. Allora mi sembra che il discorso sia un pochino più complesso. In realtà a me pare molto reale la letteratura italiana di questi nostri anni, anche se è affiancata a qualche cosa di molto evasivo che forse crea dei grandi problemi per la pubblicazione, per tenerla in vita. Cosa in cui credete anche voi, perché poi i libri che fate, le scelte che fate, sono in questa direzione, sono per pescare quella cosa che porta a continuare e può continuare a contaminare. Direi quindi che questa contrapposizione tra mercato e letteratura in realtà non è reale. Io credo che non sia vero che da una parte c'è l'America che vince tutto e dall'altra gli italiani che si ritirano e che hanno un mercato sempre più piccolo e scrivono libri sempre più irrilevanti. Prima, per esempio, abbiamo parlato di cinema. Ci sono dei fenomeni che magari possono sembrare di nicchia, se li descrivi dal punto di vista commerciale e però sono i più significativi di questi anni e probabilmente finiscono proprio nel momento in cui tu ti arrendi a delle logiche semplicemente commerciali, nel momento in cui uno scrittore o un regista finiscono per accettare quella logica: senti che sono finiti e in realtà ti stanno raccontando qualcosa proprio nel momento in cui resistono, in cui sono qualcosa affianco al mercato.
Riccardo Held Anch'io non sono d'accordo quando attacchi il lavoro degli scrittori dagli anni '80 in poi, perché attacchi il lavoro dei miei amici! Non posso essere d'accordo, i libri dagli anni '80 in poi sono belli, si possono consigliare e bisogna favorire il loro afflusso anche all'estero. Mi sembra una visione assolutamente manichea dire che prima c'era quest'altra visione della letteratura ed ora è improvvisamente venuta a cadere. Si è contraddetto Lei stesso quando diceva che Moravia vendeva cinquecento copie e vendeva molto di più Pittigrilli. Tra i due estremi ci sono più sfumature, e ci sono in Francia. Il mercato librario è molto più grande soprattutto come volume, quattro volte quello italiano, e queste sfumature si colgono benissimo. In realtà il problema dell'Italia è che la nostra narrativa è estremamente fragile ed ha preso il costo e l'organizzazione della vita in cui si trova. Chi è che la paga? In termini economici l'Italia, dal punto di vista del mercato dei libri, è nella situazione del Senegal per gli arachidi. Il nostro è un mercato estremamente fragile e vulnerabile, la situazione è drammatica perché la fetta di narrativa italiana continua a diminuire, lo dite voi stessi.
Benedetta Centovalli No, aumenta la forbice nel mercato italiano tra best seller e letteratura normale, ma il mercato italiano non è così debole.
Pubblico Non c'è una contrapposizione, c'è una giustapposizione. Il mercato si sta normalizzando, la forbice si allarga e vendono sempre di meno quelli che un tempo non vendevano, perché da Ariosto fino a Svevo uno pagava per pubblicare le copie dei propri romanzi. Se questa forbice si sta allargando, è brutto dirlo, ma vuol dire che la situazione si sta normalizzando. La cosa strana era che, per tanto tempo, quasi cinquant'anni, autori di grande pregio vendessero e potessero vivere di quello! In ogni caso c'è tantissimo di ottimo adesso nei piccoli editori, e non solo piccoli editori: Einaudi fa delle cose ancora buone, non pubblicano cani e porci.
Pubblico Volevo ringraziarvi perché ci voleva anche questo versante, tutte e due mi sembravano degli interventi molto vivi e quello di De Michelis, con il quale però non sono d'accordo su due cose, anche molto affascinante. Dalla mia postazione, come docente di corsi di contemporaneistica non sono d'accordo sul fatto che non si possano fare delle buone monografie sugli autori degli anni '80. Sono più faticose perché devi andare a reperire materiali vaganti, stravaganti eccetera, però alla fine arrivano storie, storie di autori. Prendi lo stesso Palandri. Quindi penso che valga sempre la pena. Il problema per me è capire che cosa sono in grado di leggere oggi, cosa si è in grado di leggere, come addestrare i nuovi lettori? Verga, diceva: certo le prime due lezioni sono difficili ma la terza non più. È chiaro che per leggere un libro ci vuole una certa energia, per insegnare a leggerlo ci si mette molto di più. Su questo, a costo di apparire un po' una frescona, non sono così pessimista. Neanche per quanto riguarda il rapporto tra autore e casa editrice. Secondo me, bisogna semplicemente avere la volontà di tener duro se si hanno delle cose da dire. Qui allora ci vogliono dei critici che abbiano la voglia di rimboccarsi le maniche e leggere in un certo modo e insegnare a far leggere in un certo modo, e questo secondo me è il tassello più delicato, apparentemente marginale, che manca oggi. O forse c'è una depressione generale in tutto questo, c'è forse un po' di crisi. Però finché siamo qua a raccontarci di questi libri, secondo me va bene. Raccontarcelo anche con il tono con cui lo racconta De Michelis che, personalmente, è un piacere ascoltare.
Studente Io parlo da lettore e faccio questi nomi: Dario Voltolini, Sandro Veronese, Domenico Starnone, Tiziano Scarpa, Antonio Moresco, Michele Mari, Vassalli, Celati, Aldo Busi, Ivano Rea... E chissà quanti ne ho dimenticati, sono tutti vivi e mi sembra stiano facendo cose enormi. Alcuni addirittura hanno le caratteristiche per passare al grande pubblico. Mi pare che la letteratura sia vivissima, gli scrittori sono vivi. Sono i lettori che stanno morendo. Secondo me è un problema di chi fa i libri perché, semplificando, se gli obbiettivi sono due, fare la verità e fare il best seller, noi non sappiamo fare nessuno dei due come industria. Però io leggo la letteratura di grande consumo: mi sono sciroppato Melissa P., non ci vuole tanto perché è breve, ma fa schifo a tutti, per l'ideologia che c'è dentro. Per me anche fa schifo! Certo che vincono gli americani. Se l'America è Stephen King, vincerà sempre l'America. Noi come industria siamo obbligati a fare un prodotto che bandi Stephen King se no vincerà sempre l'America ed è giusto. E vincerà anche con quelli bravi nel senso che, quando viene uno scrittore italiano a dire che in Italia non c'è niente e gli scrittori bravi sono Thomas Pynchon, Philip Roth eccetera, sì sono d'accordo, ma gli scrittori bravi sono anche Moresco, Voltolini...
Helena Janeczek Mi piacerebbe fare una domanda. Voi parlate di best seller mettendo insieme due tipi di best seller. Un conto è il best seller tipo Stephen King, che effettivamente non sappiamo fare. Mentre sappiamo fare il cinema con la narrativa, quella roba lì non ci viene. Poi però chiamate best seller Franzen. Ma perché un autore grandissimo come Marías, senza parlar degli italiani, non riesce ad essere un best seller di qualità? Dal punto di vista dei contenuti, secondo me, non ha niente da invidiare a Franzen. Non vedo perché Marías non sia un best seller assoluto!
Cesare De Michelis Se fosse una scienza esatta tutti quanti noi faremmo best seller! Non dipende dalla tua volontà. Il marketing è l'incontro tra una proposta che tu fai e sostieni con dei mezzi e le emozioni degli altri che non sei in grado di condizionare. Immagino che ci sia qualcuno che organizza. Gli strumenti con cui si organizza sono a disposizione di tutti negli annuali di marketing.
Helena Janeczek A me piacerebbe prendere cento lettori di Franzen e chiedere loro perché hanno comprato il libro. Sono sicura che l'hanno comprato perché hanno visto il cartellone. Di questi cento a chi è veramente piaciuto Franzen, quanti non l'hanno trovato una palla mostruosa e dopo trenta pagine non riuscivano ad andare avanti? Perché noi non riusciamo a fare best seller di qualità?
Cesare De Michelis Noi ne facciamo uno, due, tre o quattro all'anno. Ma poi il concetto di qualità è largamente opinabile. Siccome mi sento in uno slancio di generosità citerò Tabucchi, che è uno che non sopporto, ma prendo atto che fa dei best seller di qualità, anche se questo non aumenta la mia sopportabilità. Il problema non è questo. È evidente che quando si parla in dieci minuti di una cosa come la letteratura dall'origine ai giorni nostri si è imprecisi. Addirittura qualcuno mi interpreta come pessimista ed è noto che io sono un reattivo ottimista, tra l'altro stampo un libro al giorno quindi sono iperdrogato come ottimista. Certo, che cos'è la verità se non il tuo unico ed autentico sentire, la tua vera sostanza: devi andare oltre, devi scavare dentro. Il problema che si pone, e qui ho le idee un po' diverse dalla mia amica Benedetta, è di quale identità parliamo? Ci hanno convinti, figli di un sentimento dannato, che l'identità sia nazionale. L'identità non è neanche europea. Perché possiamo avere l'identità di generazione, di sesso, di colore degli occhi. Le identità oggi sono molto trasversali. In un periodo in cui l'esclusione sociale ha vissuto perfino nelle classi sociali, sono ancora più trasversali. Io mi iscrivo al mio club e mi vedo coi miei scrittori e con quelli che mi piacciono: è il meccanismo dello stare insieme perché ci troviamo bene e proviamo piacere. Ma questo non significa che questo stesso piacere dovranno provarlo quelli che vanno alle partite di calcio e che urlano forza, forza. Questi valori di cui la letteratura è il luogo, sono valori di piccole élite, che sono sempre state. Questo non significa che non incidono sulla vita di tutti. Se volete un esempio che non è particolarmente letterario ma ha a che vedere con questo, è il Capitale di Karl Marx: chi mai l'ha letto e quanti morti ha fatto? Non c'è proporzione con gli effetti che ha avuto! Questa è la forza dei libri. Leopardi ha cambiato il volto d'Europa: ha venduto nel corso dell'Ottocento tre-quattromila copie, ma ha cambiato il destino del mondo. Il discorso dei best seller: i numeri contano perché se no non ha senso farli. Tu non puoi costruire un mondo in cui passi la vita a bastonarlo, ad educarlo, che tanto lui sbaglia sempre perché tutti i desideri dell'uomo sono sempre dei peccati mostruosi rispetto ad un valore affermativo che abbiamo. Penso che questa comunità coltiva la letteratura come luogo di conoscenza, ma è una comunità che non può sperare di avere in questo momento l'egemonia in un mercato del tempo libero e degli spazi, dove ciò che si cerca è un'altra cosa. Quello di massa è il mercato delle droghe.
Enrico Palandri Forse lì hai ragione, perché Leopardi è sempre stato in giro, non è che ha fatto delle altre cose. Ci sono sempre delle ragioni per cui non si viene letti e anche delle buone ragioni, come per Leopardi. Lui era troppo scomodo per i suoi coetanei, era uno che non credeva al progressismo in un epoca in cui iniziava il risorgimento. Come fai a metterlo d'accordo con delle persone che, dal suo punto di vista, si facevano delle illusioni, era profondamente scettico. Delle volte è proprio perché tu ti esili, non ti unisci. Nel nostro mondo forse, in particolare perché non lusinghi quest'idea della tipicità, a cui si riferiva Riccardo prima, al fatto che tu non vuoi fare gli spaghetti e il mandolino eccetera...
Cesare De Michelis Un'ultima cosa. Non è vero che la letteratura degli anni '80 è brutta, non l'ho mai detto, ho dedicato la mia vita a leggere romanzi inediti, solo perché penso che ci sia un tesoro immenso. È diverso. Mentre sulla grande narrativa del Novecento di mezzo la descrizione cronologica dei romanzi è lo strumento più efficace di critica che io conosca, nei confronti della narrativa degli anni '80 le tesi più belle sono quelle che vanno. Ma non c'è paragone. Naturalmente ci sono sempre eccezioni, ma quelle tematiche danno molto di più perché mentre il percorso evolutivo degli scrittori alla Pavese è palesemente un percorso evolutivo che si muoveva in sintonia con il tempo che cambiava, con la politica e con la storia, questo si muove in una dimensione postmoderna dove la storia è finita. La storia è finita davvero, non è mica colpa mia! È difficile montare in quella giostra, ma è un'illusione che non ci sia una rottura forte tra gli anni '80 e '90. C'è stata una rottura forte che ha cambiato radicalmente.
Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2003-2004
Dicembre 2003, n. 2