Mario Ricciardi (Università di Torino)
Senza frontiere: On Line Italian Studies
Introduzione al Convegno: «Internet: ricerca e/o didattica», Bologna, 27 novembre 1996Consentitemi dei ringraziamenti non formali. Il primo lo vorrei fare a Ezio Raimondi, non solo per l'esempio che è per tutti noi (in qualche modo c'è una piccola invidia nei confronti dei bolognesi che hanno delle occasioni più ravvicinate e più costanti per frequentarlo), ma anche perché questa mattina, fingendo un artificio retorico, con molta abilità, e anche devo dire con molta discrezione, si è inserito nei temi centrali della discussione e ha toccato a mio parere alcuni dei punti essenziali, fondamentali di una riflessione in cui credo noi umanisti dobbiamo essere non solo presenti, ma ritornare ad essere protagonisti. Vorrei ringraziare Andrea Battistini, che a sua volta ha posto l'accento in modo molto preciso e concreto su altri punti, che credo siano quelli che danno il senso al nostro lavoro. Credo che uno dei problemi che dobbiamo affrontare esplicitamente è proprio quello del senso del nostro lavoro. E poi invece un ringraziamento, qui c'è anche come dire dell'affetto, a Pellizzi, che credo vada ringraziato da tutti, insieme a coloro che lavorano con lui, non solo per le capacità ma anche per tutto l'impegno che sta mettendo. E poi in ultimo vorrei dirvi la mia gioia di essere a Bologna, un luogo in cui io vengo con grande piacere e dove ogni volta trovo occasioni e stimoli per continuare nel lavoro.
Cercherò di rispettare rigorosamente il tempo che mi è stato assegnato e quindi vi preannuncio una scaletta, dicendovi quello che farò e quello che non farò. Non presenterò il sito di una comunità di ricerca, che è appunto Baudhaus, e che potete vedere alle mie spalle. Non lo farò innanzitutto perché, essendo un sito, spero, tacendo, di indurre coloro che sono interessati a visitarlo e a frequentarlo, e quindi a compiere quell'atto se volete semplice ma essenziale che dà inizio a una comunità, e cioè uno scambio che in questo caso deve avvenire attraverso alcune regole trasparenti semplici ma essenziali. Quindi per conoscere una comunità bisogna in qualche modo oltrepassare una soglia, e cominciare a vedere. Vi darò quindi molto rapidamente alcune brevissime indicazioni a riguardo, e poi vorrei fermarmi soprattutto su tre punti. Il primo è proprio internet: qualche parola di più forse va detta sulla ideologia e la mitologia che in qualche modo internet produce, ma anche sull'ideologia e la mitologia che viene prodotta su internet con scopi e con intenzioni diverse. Infine vorrei fermarmi su altri due punti: l'uno riguarda il nostro specifico, e cioè il rapporto che oggi esiste fra la cultura del libro e la testualità. A questo proposito dirò molto rapidamente la mia: io penso che stiamo diventando post-testuali. L'altro sarà un ragionamento proprio sulla comunità; avete sentito che anche questa mattina la parola comunità è tornata più volte: perché? Dobbiamo interrogarci su questo e riflettere.
Per quanto riguarda il primo punto, vi darò molto rapidamente alcune informazioni. Baudhaus è una comunità di tesisti che nasce nell'ambito del corso di laurea di Scienze della comunicazione. È nata soprattutto avendo due scopi: il primo era quello di superare una serie di limiti e contraddizioni (ostacoli soprattutto fisici, materiali ecc.) che contraddistinguono, ahimè, la situazione universitaria italiana in generale, e in particolare quella dei nuovi corsi di laurea. Credo che uno dei punti più critici sia quello di creare delle aspettative che poi non possono essere mantenute, e questo è un problema che ci riguarda direttamente, per lo meno per quello che ci compete. È stato quindi adottato un sistema molto semplice di comunicazione: l'uso delle mailing list, l'uso della posta elettronica - io sono diventato un sostenitore accanito della posta elettronica perché questa esperienza è stata un modo per essere più efficiente e per avere un rapporto personale con gli studenti e con i tesisti; in altro modo mi sarebbe stato praticamente impossibile. Si è costituita una comunità di circa quaranta tesisti; a Scienze della comunicazione io sono solo, non ho ricercatori, non ho nessuna forma di aiuto, e quindi questo è stato un modo per stabilire un rapporto personale e allo stesso tempo comunitario, perché gli studenti hanno incominciato a lavorare insieme.
Il secondo obiettivo è stato proprio quello di creare questo sito, di organizzarlo e di svilupparlo. Il punto di partenza è stato darsi un nome, e quindi gli studenti hanno incominciato a chiamarsi con un nome e a organizzarsi attraverso delle forme più o meno complesse che hanno a che fare direttamente non solo con la specificità dell'essere studente, ma anche con l'altro tema fondamentale, ossia quello del lavoro. L'acronimo Baudhaus è un gioco di parole inventato da uno studente: ha a che fare appunto con Baud, cioè con l'unità di misura dei modem, e ovviamente con la Bauhaus. Abbiamo messo in piedi un modello che è servito per sviluppare sia un lavoro di tipo, diciamo, scientifico legato alle tesi di laurea e alla ricerca, sia anche ad avviare un discorso esplicito di presenza all'interno del mondo del lavoro: i tesisti hanno rivelato, almeno una parte di questi, delle competenze professionali e delle possibilità per certi aspetti sorprendenti.
Il terzo punto, il terzo livello di passaggio è stato quello di entrare in un progetto più generale che nasce da un accordo di programma tra la STET e il Comune di Torino che si chiama Torino 2000 e lì ci siamo misurati con la concorrenza degli ingegneri e degli informatici ed è stata un'ottima esperienza, devo dire. Abbiamo messo in piedi un laboratorio che si chiama "Laboratorio Vivente" e la parola "vivente" ha a che fare proprio con alcune delle cose che ci hanno ricordato sia Battistini che Raimondi: riguardano comunità e lavoro di gruppo, ma anche, se non interpreto male quello che ha detto Ezio Raimondi, col nostro dovere di dare una speranza ai "non strutturati". E di fatto la comunità virtuale, dove tutto è non strutturato, è diventata un progetto che ha coinvolto grandi aziende, ha messo in moto una serie di energie. E proprio su questo si sta lavorando, la comunità virtuale, la comunità dei giovani, insieme ad altri collaboratori, si muove su questo terreno.Di fatto avviare questo discorso ha voluto dire anche cominciare a rendere esplicite alcune idee guida. Direi, in particolare, che sono state tre: la prima è un principio di cooperazione, e quindi un principio di socialità. Si tratta di una socialità un po' particolare, naturalmente. Diciamo che è una socialità che si basa su degli strumenti "immateriali", trasparenti, immateriali ma reali, quindi luoghi e ambienti in cui si scambiano esperienze e si scambiano relazioni. La seconda idea guida è stata la condivisione delle risorse; discutendo di questo aspetto si scoprono poi dei luoghi comuni, dei fatti banali, e ci si domanda come essi possano essere così forti e radicati proprio all'interno dell'Università. Ad esempio, dagli studenti è stata enunciata una domanda significativa: come mai gli studenti non lasciano mai traccia di sé all'interno dell'Università? Come mai non esiste un principio, per così dire, cumulativo del sapere all'interno dell'Università? Ciò che viene fatto in un corso non deve essere conosciuto in un altro. Se uno studente passa dal secondo anno al terzo, ciò che ha imparato non deve assolutamente essere trasmesso agli studenti che prenderanno il suo posto. Sembra una stupidaggine, ma è ciò che avviene. Una delle cose che mi ha colpito in queste prime caotiche riunioni è stata la volontà di alcuni studenti di lasciare traccia del loro passaggio. Dicevano anche - e questo è il nostro terzo punto, legato a un aspetto che è stato già ricordato, quello di una forma di competizione, di antagonismo, al limite anche di conflitto - dicevano di voler stare per così dire un po' "addosso" ai professori e ai docenti, per sapere che cosa danno, che cosa fanno e che cosa sono disposti a fare per loro.
Queste sono state in linea di massima le idee guida che hanno informato il nostro lavoro. Va detto che è un impegno che nel caso di Scienze della comunicazione non riguarda soltanto le discipline tradizionali della Facoltà di lettere, ma implica anche un imprudente scambio tra discipline che hanno una grande tradizione nelle facoltà umanistiche e discipline che non ce l'hanno, ma che in genere attirano fortemente l'attenzione e l'interesse degli studenti. Ciò rende le cose ancor più complicate. Si creano anche dei cortocircuiti, cioè delle attese che sicuramente non saranno soddisfatte, degli equivoci; in qualche modo in questo caso si arriva proprio a quello che non vorremmo, cioè a dei processi in cui si celano crisi profonde anche degli stessi valori o interessi della comunità universitaria nel suo complesso, si fanno in qualche modo delle finte e delle fughe in avanti.Vorrei dunque arrivare subito a internet, e vorrei prenderla proprio da questo punto di vista. Farò innanzitutto un'affermazione molto discutibile: io credo che noi stiamo entrando in una fase in cui propriamente la cultura del libro è una cultura di minoranza. La cultura testuale o si rinnova, e quindi prende la strada degli orizzonti larghi e quindi anche della trasformazione radicale di certi suoi comportamenti e atteggiamenti, oppure rimane una cultura ossificata, una cultura fissa. Rispetto a internet la lettura che si può fare è di questo tipo. Per giustificare grandi fondazioni di civiltà letterarie si è dovuto sempre evocare grandi catastrofi. Il primo esempio più banale che mi viene in mente è che per costruire la grande macchina del Decameron si è dovuto pensare a una grande catastrofe. Noi, troppo testualisti, leggiamo la peste come l'agente di un meccanismo letterario, ma la peste c'è stata davvero ed è stata una catastrofe che ha distrutto o semi-distrutto un'intera società, un'intera civiltà. Forse internet offre, da questo punto di vista, un'altra possibilità, ossia di non partire da una catastrofe. Riguardo a questo la mia opinione è molto semplice: io credo che internet possa essere la nostra scuola, e ho l'impressione che non a caso su internet si stiano condensando mitologie e ideologie. Intanto internet è di per sé certamente un vettore di ideologie, su questo credo non ci siano dubbi. Questo, tra l'altro, va detto un po' scherzosamente alla faccia dei proclami sulla morte dell'ideologia: quando erano tutte morte se ne stava creando una a intensità industriale. Ma credo anche che su internet si creino ideologie dettate da specifici interessi. Devo dire che quando i sociologi come De Rita, citato prima dall'Assessore Macciantelli, parlano di fuga nelle reti io trovo che facciano della sociologia fantasiosa. Quale fuga? Chi fugge nelle reti? Forse qualcuno, ma la maggioranza non fugge affatto nelle reti, le usa e le vede, io credo, come uno strumento di realizzazione di quelle che sono grandi aspirazioni del genere umano, come appunto quella di comunicare senza frontiere, senza limiti e senza vincoli. Non c'è dubbio che ci sia in questo una buona dose di utopia, ma non c'è neanche dubbio che in quel mondo si stanno realizzando cose concrete e si stanno trasformando i rapporti sociali. Internet può diventare davvero, come dicono alcuni, una grande bolla, ma probabilmente diventa una grande bolla nel momento in cui uno scontro reale che si sta delineando in modo abbastanza netto tra gli interessi materiali, concreti avrà preso una certa direzione. Noi dobbiamo scegliere se essere spettatori o protagonisti.
Quindi internet è indubbiamente un vettore di ideologia, e io dichiaro subito di appartenere alla minoranza di quelli che pensano che le ideologie servano a qualcosa. Non sono così contento quando si dichiara che sono morte tutte, perché comincio ad avere il dubbio che qualcuno nel frattempo ne stia fabbricando altre di intense e stia un po' "ciurlando nel manico". Quindi alla morte delle ideologie, ai funerali io non partecipo volentieri, anzi penso che da questo punto di vista il condensarsi di ideologia su internet rappresenti proprio un punto di svolta. Credo intanto che si debba dire anche, con molta chiarezza, che il mondo delle reti non è il mondo delle comunicazioni di massa; ho sentito in varie occasioni spargere nutella e melassa su questi aspetti, ma non sono veri, a parte il fatto che internet è nata in tutt'altro modo in tutt'altro contesto. Le caratteristiche fondamentali di internet erano l'affidabilità, la segretezza, la capacità addirittura di resistere a guerre nucleari. Quindi, quale comunicazione di massa? Nulla, da questo punto di vista. Sono gli esseri umani che stanno utilizzando internet in un certo modo, cioè siamo noi se vogliamo esserlo, entro determinati limiti. È certamente ideologia che internet non costi nulla, perché internet è stata pagata dalle generazioni precedenti, è stata pagata all'interno dei rapporti di forza della guerra fredda, questa è la verità; dopo di che noi saremmo sciocchi come membri di una comunità scientifica e di ricerca a non utilizzarla. Questo mi sembra il punto. Allora noi dobbiamo decidere se vogliamo utilizzarla e se vogliamo di lì sviluppare una serie di possibilità. Queste possibilità possono riguardare mondi "generali", che hanno a che fare con il sistema delle relazioni sociali, con la socialità e con le comunità; oppure mondi "specifici", mondi della ricerca, mondi disciplinari ecc. Forse alla fine dobbiamo anche domandarci come mai internet abbia creato anche alcune aspettative, come quella di realizzare dei rapporti personali diretti, che si rovescia sulla rete di continuo. Oggi noi, soprattutto in Italia, discutiamo molto sui caratteri liberali o illiberali di una determinata società. A me sembra che quella sia un'indicazione esplicita della presenza pesante di caratteri illiberali all'interno della società contemporanea. La ricerca può essere anche una fuga, ma è una ricerca che nasce anche da questo tipo di aspirazioni. Quindi la rete non è affatto un mezzo di comunicazione di massa: è un ambiente in cui si possono realizzare delle forme nuove che possiamo chiamare provvisoriamente nuove tecnologie, nuovi media, o quello che si vuole, ma sono forme personalizzate. E nel momento in cui queste sono forme personalizzate, sono forme legate sostanzialmente a un sistema di scambio che ha comunque ancora la sua base essenziale nella scrittura, secondo me per gli umanisti c'è non solo lavoro da fare ma c'è una grande occasione. Una delle battute più provocatorie che ci è capitato di fare nei confronti duri con ingegneri e informatici è stata questa: quando la società, gli assessori, i sindaci hanno bisogno di affrontare dei grandi problemi concreti radunano gli ingegneri e gli informatici; però quando gli ingegneri e gli informatici si devono domandare qual è il fine del tutto chiamano l'umanista e gli chiedono un consiglio. Noi dobbiamo essere i protagonisti su questo terreno, abbiamo in questo momento una grande possibilità che dobbiamo sfruttare.Si apre probabilmente un nuovo scenario, con nuove forme di alfabetizzazione. In realtà è giusto dire che internet non è un mezzo di comunicazione di massa, perché in realtà oggi è praticato da minoranze. Se noi confrontiamo, tuttavia, le minoranze di oggi con i gruppi di utopisti, teorici di progetti cosmopoliti del passato, ci accorgiamo della differenza: sono minoranze ma sono decine di milioni, e sono minoranze "frullate" in qualche modo, non sono più minoranze specifiche distinte per esempio da un sistema di classi, ceti o patrimoni culturali fissi. Sono minoranze già profondamente mescolate, e alcuni cominciano a sostenere che potremmo leggere il nostro futuro anche immediato rovesciando i termini di un'antica questione: a questo punto non sono tanto i gruppi dirigenti, i gruppi di potere che utilizzano le tecnologie per cambiare e trasformare la società. Ora si sta realizzando una situazione forse inedita: in realtà il punto di partenza sono stati in qualche misura dei tecnologi, ma anche poi dei movimenti di cultura e di progettazione che in qualche modo stanno influenzando le scelte di indirizzo della società.
Queste tecnologie vanno guardate a fondo. Se si tratta di tecnologie della comunicazione, credo che noi stiamo sperimentando un fatto nuovo, e cioè che queste tecnologie sono profondamente pervasive, ma anche fortemente plastiche. Vale a dire che sono tecnologie che hanno bisogno di assumere di inglobare di utilizzare la massima intensità possibile di intelligenza umana, ma nello stesso tempo devono accettare che l'intelligenza umana, le relazioni umane e i soggetti umani le modifichino profondamente. Credo che se noi facessimo un'analisi molto rapida dell'evoluzione di alcune di queste tecnologie ci accorgeremmo che in realtà il potenziale tecnologico era da tempo disponibile: sono stati gli scontri le scelte e gli interventi degli esseri umani o di gruppi di esseri umani che hanno determinato anche il cambiamento drastico e radicale non solo nell'uso ma nelle caratteristiche di queste stesse tecnologie. Se pensiamo che si passa dal codice binario, che poi è un codice di calcolo, a un modello ipertestuale, che è l'opposto; e se pensiamo che a un certo punto all'interno di una rete pensata essenzialmente per tutelare uno scambio di messaggerie militari si è arrivati in qualche modo alla rapidissima diffusione di modelli ipertestuali, ci rendiamo conto di questo fenomeno. Il prototipo di Mosaic è stato fatto da un piccolo gruppo di giovani ricercatori che credo non avessero assolutamente in mente ciò che è successo successivamente, pensavano alla ricerca. Da Mosaic a Netscape c'è stata una esplosione nel rapporto tra modello ipertestuale e la rete, perché? Ma anche perché il modello ipertestuale era quello omogeneo alla rete, e perché la rete è diventata il modello alternativo a un certo tipo di società che probabilmente non era più soddisfacente. Credo che Ecco, questo discorso su internet io penso debba essere fatto proprio per renderci anche conto della portata della questione in cui ci stiamo muovendo.Ci sono una serie di altre conseguenze, su cui oggi non ci fermeremo, che hanno a che fare proprio con la costituzione delle comunità o dei nuovi gruppi. Pensiamo da questo punto di vista alle caratteristiche nostre, italiane. Alcuni, piuttosto duramente, ci dicono che l'italiano in realtà è un dialetto. Lo 0,4%, di fronte alla koinè anglo-americana, è certamente modesto, anche se poi, in realtà, se si applica questo parametro, la lingua universale è il cinese, che non sembra essere in questo momento la lingua della comunicazione universitaria. Però è indubbio che tutte le volte che ci mettiamo al lavoro sul terreno delle reti il problema linguistico appare; quindi io credo che dovremmo, proprio per il nostro tipo di lavoro e di interesse, partire da qui, da questi punti che credo siano quelli che identificano tra l'altro il modo in cui si è formata la comunità italiana a partire dall'unificazione. Credo che in questo senso si possa parlare proprio di antagonismo e di conflitto, perché, volendo ricorrere a uno schema sintetico, da un lato noi abbiamo di fronte un modello - quello della letteratura italiana, in senso anche ampio - che è basato sul principio dell'identità nazionale e di una sorta di monolinguismo selettivo, e infine, se ci aggiungiamo un terzo elemento, di uno storicismo forte. Il povero De Sanctis non ne è colpevole secondo me, o per lo meno non lo è del tutto. Anzi credo che, provocatoriamente, si potrebbe leggere la Storia della Letteratura del De Sanctis ripensando a questi nostri problemi. Per esempio nella Storia della Letteratura ci sono delle fortissime presenze, come dire, dei guizzi, di oralità. Quale altro critico oggi si potrebbe permettere, a un certo punto della sua descrizione, di dire, parlando di Machiavelli, "mi fermo perché sento le campane che suonano", - e suonano le campane perché stanno entrando i Bersaglieri da Porta Pia? Mi sembra un tasso di oralità dirompente. Come potrebbe oggi un critico, come faceva De Sanctis, citare a memoria? Sappiamo tutti che la citazione per De Sanctis, non dico fosse un optional, ma insomma, era un elemento non così rigoroso. Quindi forse De Sanctis non è così responsabile della fissazione di questo modello, resta però il fatto che per noi il principio dell'identità nazionale, e quindi il principio di appartenenza, è radicato fortemente in questo modello storicistico che in qualche modo ci dice che per conoscere il presente bisogna avere fatto un po' di purgatorio nel passato; e questo è un modello secondo me che confligge con l'altro, ora emergente, che invece pone l'attenzione, in termini sociologici e antropologici, sulla costruzione sociale del presente. È un aspetto che hanno toccato anche Battistini e Raimondi, e che ci apre un orizzonte molto più pragmatico, che in Italia non è sempre molto ben accetto. Ma senza un'idea della costruzione sociale del presente la questione dell'appartenenza rimane irrisolvibile, perché l'appartenenza significa, nel caso nostro, identità nazionale, significa ruolo dello stato. Stato, identità nazionale, storicismo finiscono per essere un blocco difficilmente aggirabile. Tra l'altro un blocco che isola tutto sommato l'esperienza italiana da quella degli altri paesi.
Io credo che quando si vanno a costruire delle comunità utilizzando strumenti come le reti si vada in una direzione opposta, e quindi si recuperi il senso di appartenenza a partire dall'idea di cooperazione di condivisione di risorse e non a partire dall'identità nazionale. Questo mi sembra un punto che favorisce la comunità della ricerca e la comunità scientifca, purché i ricercatori siano disponibili a mettersi in gioco, cioè siano disponibili a far sì che ciò che loro fanno sia visibile, discutibile (discutibile nel senso che possa essere discusso), e soprattutto lavorino intensamente coi giovani. Il rapporto tradizionale tipico, lineare di fatto, tra un accumulo di sapere, sicuramente nobile e alto, e le giovani generazioni si deve porre in un altra forma. Non c'è scampo, credo, e allora questo significa accettare tra l'altro una certa intensità e difficoltà del presente; noi ci spostiamo volenti o nolenti verso una forma di attualizzazione, ci stiamo spostando verso una forte dilatazione del presente. Sarebbe particolarmente importante discutere sugli effetti che la pratica del lavoro in rete induce nella nostra concezione pratica del tempo, ancora più che dello spazio: forse anche la teoria dell'incomprimibilità del tempo subisce qualche flessione; certamente dall'altra parte c'è un sovraccarico di lavoro conoscitivo enorme. Senza la collaborazione delle giovani generazioni secondo me non si arriverà da nessuna parte. Lo stesso si può dire per il monolinguismo selettivo. Le reti parlano con una certa pesantezza, con una koinè, l'anglo-americano, che, da un certo punto di vista, è una lingua inesistente, ma parlano comunque di plurilinguismo; anzi, secondo me, la nostra bandiera è il plurilinguismo, cioè far sì che nelle reti si possa discutere tra soggetti che parlano lingue diverse e che riescano a trovare dei sistemi di comunicazione, di conversazione di tipo plurilingue, perché altrimenti alcuni patrimoni verranno spazzati via. Se noi andiamo a vedere le grandi basi dati oggi disponibili e guardiamo qual è la percentuale dei testi di italiano lì presenti, credo che constateremo che scende sotto lo 0,4%. Troveremo sicuramente molto più presenti i testi della tradizione classica, latina soprattutto, che non di quella italiana; non solo, ma troveremo grandi repertori, grandi basi di dati in cui i testi italiani sono presenti solo in traduzione, vale a dire in una forma sostanzialmente snaturata. Allora io credo che da questo punto di vista ciò che ci caratterizza e ci contraddistingue possa svilupparsi creando delle comunità virtuali. Il crearle secondo me è un atto al tempo stesso sociale e sperimentale: sociale, perché le comunità virtuali non stanno in piedi se non c'è collaborazione. Tutti i presenti, e alcuni hanno una grande esperienza da questo punto di vista, sanno che la visita più negativa di un sito si verifica quando si torna su un sito che è rimasto sostanzialmente inalterato. È come se fosse morto, e lo vedono tutti; in fondo nella cultura del libro c'erano dei controlli nel tempo che davano una certa garanzia; qua non c'è scampo, se ne accorgono tutti e quindi in questo senso la comunità virtuale sostanzialmente lavora e funziona solo su una base cooperativa. Dall'altro è un atto sperimentale, perché le comunità virtuali devono avere degli obiettivi; non credo tanto al valore in sé positivo, le comunità virtuali devono avere degli obiettivi, possono essere degli obiettivi di cooperazione con altri ma devono anche qualificarsi per quello che fanno, in particolare per il nostro mondo umanistico, anche perché il rischio grave sarebbe quello di arrivare a una soluzione genetica che tutto sommato nasconde poi una serie di difficoltà che le discipline tradizionali non hanno saputo risolvere.Mi avvio rapidamente alla conclusione, e lascio quindi fuori la discussione su alcuni degli strumenti teorici, su alcuni dei quali si dovrà però tornare. Mi limito solo ad accennare a un punto importante. Mi sembra che oggi, per quello che riguarda l'area delle discipline fondate sul testo, sulla tradizione del testo, sulla discussione del testo, inteso nelle forme più ampie e discutibili, grossomodo si offrano due teorie disponibili. La prima è quella che si potrebbe chiamare la teoria della convergenza, che ha elaborato per primo George Landow. Questa teoria tende tutto sommato a dirci che tra i modelli legati a una certa teoria della testualità, da Barthes a Derrida, e il mondo delle reti e dell'informatica ci possono essere delle convergenze - che poi si possono discutere fino in fondo. Un'altra teoria è quella della trasformazione, è quella che fa capo per esempio a grandi antropologi come Ong e Goody. Questi studiosi in realtà ci propongono un modello non evolutivo dei rapporti tra oralità e scrittura, e io credo che il modello non evolutivo sia anche utilizzabile per leggere internet. In altre parole credo che noi siamo entrati in una grande fessura; e questa è una fessura di separazioni, di cancellazioni e anche di distruzioni; si tratta per noi di prendere in mano il presente che ci è dato e di agire direttamente in quello.
«Internet: ricerca e/o didattica», Bologna, 15 e 27 novembre 1996
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