Ezio Raimondi (Presidente dell'IBC dell'Emilia Romagna, Università di Bologna)
Saluto di apertura
(«Internet: ricerca e/o didattica», Bologna, 27 novembre 1996)

Da un certo periodo oramai mi trovo di continuo a riflettere su che cosa sia il genere "letterario" dei saluti e, quasi sempre, il problema è a nome di chi si saluta, e in secondo luogo come si deve salutare; il saluto, anche quando allude agli oggetti ai quali faranno riferimento coloro che parleranno, tende a essere una specie di materia separata e in qualche modo allòtria, e si rischia per un verso di ottemperare a una regola di cortesia e subito dopo per così dire di trasgredirla. Anch'io non so a nome di chi parli: mi è stato detto a nome dell'Università di Bologna, ma è anche vero che tra coloro che per la propria parte hanno contribuito a questi incontri c'è anche l'Istituto per i Beni Culturali che mi trovo nella presente tornata a presiedere e che forse ha anche degli interessi molto più diretti a un tipo di lavoro come quello di cui oggi dobbiamo discutere. Poi mi trovo a essere, anche se oramai sulla porta, membro del Dipartimento di Italianistica e uno dei promotori del Centro per la Didattica dell'Italiano che, insieme a "Bollettino '900", ha promosso queste giornate.

Allora per liberarmi da questa difficile rappresentanza parlerò invece un po' più come semplice individuo, anche se a questo punto un saluto a nome di me stesso diventa cosa ridicola benché possa far parte dei tanti paradossi che entrano in una seduta dove la razionalità, la razionalità tecnica, è molto più forte che non in altri convegni dove si parli di cose letterarie. Se mi è concesso di parlare per un momento come individuo, perché come individuo torno a far parte di questa comunità e non sono quello che porta un saluto dal di fuori, non posso non ricordare la presenza qui a Bologna, fra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, di un linguista di alta qualità come Luigi Heilmann, in un momento in cui la linguistica sembrava essere una disciplina egemone e la critica letteraria tentava di ascoltare qualche cosa. Heilmann introdusse, ma senza miti, la nuova prospettiva di una linguistica che operava attraverso i mezzi tecnici, la linguistica computazionale. Arrivò poi Roman Jakobson, e anche Gustav Herdan, ed era una specie, così, di voce che colpiva dentro la vecchia tradizione umanistica. Bisogna subito aggiungere che Heilmann, non per compromesso, ma con la lucidità realistica dello scienziato di razza, non sposava le tesi apocalittiche né al negativo né al positivo e interrogava l'esperienza, ascoltava l'esperienza, cercava di far sì che una disciplina crescesse su certe strade concrete. Forse anche per questo, per una serie di rapporti che portarono a "Lingua e stile", ma anche a un lavoro pratico come quello di rivolgerci al mondo degli insegnanti, nacque all'origine il Centro per la Didattica dell'Italiano. Capitò anche a me proprio al principio degli anni '60 di tentare di guardare che cosa accadeva su questi nuovi fronti, magari volgendo uno sguardo anche al fronte più propriamente scientifico. In quegli anni tutto un tipo di scientismo, forse non il migliore, si sarebbe a poco a poco trasferito per una certa fase anche nel mondo degli studi letterari. Dovendo io specificamente parlare di certi problemi della filologia, sia pure forse in modo avventuroso, in rapporto anche alla civiltà e al mondo industriale, mi capitò, come capitò ad altri, di interrogarmi su che cosa poteva e doveva accadere, sulle mutazioni che si ponevano anche al nostro vecchio tipo di lavoro, alla nostra vecchia pratica. Usiamo il termine filologia per parlare di una sorta di, se non scienza, arte e coscienza del testo, della sua diffusione, della sua ricezione e di tutto il resto. Erano considerazioni che allora appena cominciavano, perché solo a poco a poco si sarebbero legati insieme momenti diversi dell'esperienza di queste cose e a poco a poco si sarebbe cominciato a capire meglio che cosa stava accadendo. Certo balzando da quegli anni ad oggi si vede bene quante cose siano nate, come siano cresciute certe esperienze, come siano finite certe illusioni e si siano creati altri orizzonti, altre logiche sempre più consolidate.
Un incontro come questo viene a rappresentare proprio questa nuova fase nella quale, lo diceva già Battistini, nello spirito dei tempi si affacciano nuove forze e alimenti. Va detto che l'iniziativa non è nata nel mondo accademico corrente, è nata in quella zona informe del mondo accademico che è rappresentata dai più giovani, giovani laureati o laureandi che spesso non hanno, per ora, neppure una prospettiva pratica vera e che costituiscono dunque quelle aree che nell'antropologia si definiscono il "non strutturato", che qualche volta è il luogo del dinamico e dell'invenzione, non soltanto perché è il sangue intellettuale giovane, ma anche perché in queste aree è più naturale il muoversi verso il nuovo e il cercare integrazioni e trasformazioni in modo molto più deciso e con un ardimento più consapevole. Dicevo che è uno spirito dei tempi, perché probabilmente una Università in questo caso vecchia e nuova dovrebbe proprio contare su questo alimento, dovrebbe proprio nascere da questa specie di incontro che spesso è dialogo e qualche volta, come è giusto, è anche conflitto. Questo va sottolineato perché ha a che vedere con un metodo di lavoro e, come è stato detto, anche con una moralità; potrebbe essere che, dopo tutte le discussioni sulla morte del soggetto e altre cose, si vada verso modi di soggettività diversi da quelli tradizionali e, chissà, si proceda finalmente a una logica che un tempo si chiamava la "logica delle cattedrali", dove partecipavano tutti i grandi inventori e nello stesso tempo sembrava non avessero nome. Ma lascio questo come uno dei tanti segni che vanno interrogati a fondo, perché, così come allora era cresciuta una nuova esperienza, anche sulla base dell'applicazione di certi strumenti - poniamo - all'ecdotica, oggi ci troviamo di fronte a un lavoro che si sta compiendo, che possiamo interrogare, che possiamo rapportare anche a quelle che chiamiamo le ragioni o i bisogni - o qualche volta le deficienze - delle discipline concrete. Le quali possono essere più o meno direttamente omogenee a quel lavoro che sta crescendo, con l'informatica e altro. Nello stesso tempo è cresciuta, insieme con questa dilatazione di esperienze tecniche e oramai di spazi non più da mettere in discussione, una riflessione corrispondente, perché quando entrano in gioco nuove prospettive tecniche con le proprie finalità e ragioni non può non essere messo in discussione un sapere già codificato che procedeva con altri strumenti e qualche volta con altre ragioni. Certo noi siamo in grado oggi di valutare che trasformazioni radicali abbia indotto la stampa nell'idea della nostra cultura. È una cosa che ci sta alle spalle, pensiamo alla Eisenstein e a tutti gli altri studi al riguardo; siamo anche in grado di valutare che cosa è capitato tra Ottocento e Novecento quando l'immagine, l'immagine dinamica e la produzione industriale delle immagini ha di nuovo creato trasformazioni percettive e nello stesso tempo anche nuovi concetti e nuove ragioni. Nel caso presente, quando di là dai fatti tecnici discutiamo di che cosa significhino, si tratta di una discussione in itinere, una specie di discussione aperta all'interno del fenomeno; sarebbe come dire, usando la vecchia logica, che l'osservatore del fatto scientifico discute anche, non soltanto di sé, ma delle trasformazioni a cui è sottoposto nel momento stesso in cui si pone in rapporto con certe aree e con certi problemi.

Un libro che ho qui sotto mano e che va subito citato, Lingua, letteratura, computer, a cura di Mario Ricciardi (Torino, Bollati-Boringhieri, 1996), è un segno molto preciso di questo doppio binario che credo sia un doppio binario necessario perché è quello che radicherà sempre di più certe esperienze e ne trarrà anche tutte le conseguenze a mano a mano che il rapporto non creerà soltanto una sostituzione ma un confronto e, in qualche caso, anche un conflitto da interrogare. Non sta a me ora entrare in un testo come questo, ma volevo almeno, nel chiedermi che cosa debba essere un saluto, interrogarmi su ciò che è già stato posto dall'incontro precedente e su ciò che verrà posto oggi.
Vorrei aggiungere ancora due o tre considerazioni. Siamo certamente nel corso - ma non dobbiamo farne un mito, l'enfasi è pericolosa - di una grande trasformazione: cambiano tutta una serie di concetti e probabilmente anche di comportamenti. E il cosiddetto mondo del sapere, il cosiddetto mondo umanistico, è certamente sottoposto più di altri a questa grande trasformazione. In particolare in un universo istituzionale, come in questo caso la nostra Università, che certo per molte ragioni, almeno secondo me, non ha avuto un'evoluzione coerente e soffre ancora di impedimenti che si sono per così dire sovrapposti, nelle nostre discipline più che altrove. A un certo punto il mondo del sapere, quello che chiamiamo umanistico, il mondo della cultura affidata a testi, scritti od orali che siano, deve certamente interrogarsi, come diceva Bachtin, su grandi orizzonti, nello stesso tempo, però, con modestia, sapendo che è un lungo cammino e che in questo lungo cammino occorre da una parte l'onestà di un lavoro tecnicamente ben eseguito e dall'altra, per quanto è possibile, una riflessione non meno rigorosa. Non si tratta di essere in euforia, ma di essere, per quanto è possibile, spiriti critici che esercitano la critica innanzitutto su se stessi; poi, a questo punto, si tratta di vedere sul serio non solo quello che è accaduto ma anche quello che sta accadendo e quello che potrà accadere, discutendo radicalmente, con spregiudicatezza, anche quelle che sono le ragioni tradizionali del nostro lavoro. Ragioni che, come si comincia a intuire qua e là, per un verso si tratta di sostituire, ma per un altro verso si tratta di ritrovare su significati più ampi, ricomponendo quelle che erano delle vaste unità che nel tempo si erano per così dire tagliate a pezzi. Se non ho inteso male, Ricciardi in questo libro insiste sul fatto che attraverso questi nuovi mezzi, le reti e altro, attraverso questo mondo che qualcuno chiama delle "telepresenze", riprende un certo significato l'atto stesso del leggere: non scompare, si trasforma e prende altre dimensioni e, a mano a mano che parliamo di ipertesti o di altro, l'iniziativa del lettore; la sua "responsabilità creativa", avrebbe detto Bachtin, tende a crescere; in altre parole torniamo a un'idea vasta del leggere, quella per cui Wittgenstein si chiedeva come mai non si riuscisse a leggere un paesaggio come si legge Shakespeare. Perché si può anche leggere un paesaggio, si può, in altri tempi si diceva, leggere la natura, certe cose che si sono separate forse tornano a prendere di nuovo dimensioni comuni. Non lo so, è certo qualcosa che dà da pensare, come a dire che, sotto sotto, più siamo modesti nel parlare di certe cose e più vediamo che queste cose sono piene di conseguenze, di cui non sempre sappiamo i fini. Oppure li sappiamo quando introduciamo anche le nostre ragioni morali e civili, sempre avendo in mente, almeno per me, qualcosa che cresce, qualcosa in cui il cosiddetto nuovo è soltanto il segno della vita che si trasforma, che si incrementa anche quando poi ci sono delle cesure. Non voglio entrare adesso nella questione della continuità e della discontinuità; c'è invece quest'altro punto, e credo che quest'incontro che segue all'altro - certo questo è l'augurio - possa trasformarsi in una sorta di seminario periodico, una specie di colloquio vero, e possa andare avanti sul doppio binario che si è posto: da una parte discutere di lavori, di operazioni, di significati e di risultati di quelle operazioni; dall'altra, esercitare anche la riflessione su ciò che accade in noi nel momento in cui entriamo in questi spazi e in queste - tanto per citare Greenblatt, sulla scorta degli antropologi - nuove forme di negoziazione. Negoziazione è proprio la parola, è il negotium, è il fare qualche cosa: e con ciò ci si muove verso una logica della razionalità pragmatica, cioè che fa, e nello stesso tempo verifica i suoi poteri e i suoi limiti. È certo cosa che ha a che vedere sul serio con quella che chiamiamo in un senso più lato - di là anche dai significati politici che valgono per il nostro paese - la grande transizione di questa fine di secolo, che non sappiamo se, come e in che modo apra all'altro.

Resta però forse un'ultima riflessione da fare, proprio per quello che riguarda le nostre discipline, quelle che chiamerei le discipline del testo ampliato. È anche vero che mi ha sempre fatto effetto una formula che Clifford Geerz,6 l'antropologo, riprende da Becker, su un'idea nuova di filologia più ampia di quella tradizionale che sia una competenza intercontestuale relativa a tutte le discipline nelle quali la costituzione di un testo è centrale, testo scritto o orale. Forse discorsi come questi vanno verso dimensioni di questa natura ma, nello stesso tempo - di là dalle integrazioni, dalla rimozione dei confini, dall'apertura dei transiti e dei molti colloqui che non devono però portare alla confusione ma a una distinzione multipla - resta un ultimo pensiero da non tacere: c'è anche un pericolo in tutto questo. Non nella pratica di cui parliamo, ma nel nostro lavoro così come si è codificato a tutt'oggi. Il rischio è che in qualche caso queste operazioni nascondano le crisi di uno spazio già dato di cultura, mentre invece devono servire a sciogliere quelle ragioni di crisi. Queste nuove possibilità giungono nel momento in cui discutiamo del senso della letteratura, del cosiddetto discorso storico, delle procedure interpretative, di diverse possibilità che qualche volta convergono e qualche volta tendono a divergenze certamente imbarazzanti. Dobbiamo a questo punto, nel momento in cui facciamo questa riflessione, riflettere anche sul patrimonio da cui veniamo e in cui i più anziani tra noi sono immersi, perché tutto questo deve servire anche a modificare strumenti, proposizioni, teoremi, principi, assiomi che si credevano fermi e che invece sono essi stessi convenzioni di una formazione culturale. Per questo mi sembrano importanti le riflessioni che, a mio avviso, in qualche modo anche obbligano a questo tipo di confronto. L'augurio è proprio questo: che discussioni, colloqui, rendiconti come quelli di queste mattine e che io spero possano poi avere seguito, non siano soltanto un capitolo che si aggiunge, un capitolo d'avanguardia di cui tutti oggi vogliono fregiarsi perché fa grande vetrina, ma aiutino anche a riconsiderare altre questioni, altri problemi, a modificare degli equilibri: e più questo avverrà dal vivo del lavoro e più avrà la certezza di un effetto. Tanti anni fa, in una situazione piena ancora di tante nebbie, con logiche disciplinari in parte diverse, si pensava anche a questo, a discipline che si modificano, che assumono nuove ragioni, e non solo aggiungano dei nuovi capitoli, ma diventino in parte anche diverse o riscoprano attraverso queste nuove esperienze in modi nuovi le proprie vecchie categorie, che è un altro modo per trasformarsi. Il problema si pone anche oggi, in un contesto in cui alcune cose sono diventate chiare e nuovi enigmi forse si sono aggiunti; ma non voglio a questo punto muovermi su questi orizzonti che possono essere persino scoscesi. Dico soltanto che c'è una grande prospettiva davanti, soprattutto se il lavoro darà luogo a un'interrogazione che quanto più sembra modesta tanto più sappia anche essere radicale; e che tutto questo sia affidato a giovani e giovani studiosi è il segno di una vitalità operosa che ha un futuro e un futuro che può essere riempito di tutto questo. Alla fine potrebbe essere che anche il nostro modo di intendere gli studi letterari anziché ridursi assumesse nuove ragioni, si integrasse in spazi espressivi e in codici più complessi; non già per piangere la perdita di qualche cosa ma per trovare il proprio posto vero in quest'altra grande cattedrale invisibile che è un'enciclopedia del sapere e dunque il modo con cui un certo tempo nella sua pluralità riflette su se stesso e si costruisce gli strumenti adeguati per riflettere su se stesso. Ero partito dall'imbarazzo di un saluto e torno questa volta all'imbarazzo del lavoro ma, nel momento in cui il testimone passa a persone giovani si ha anche la certezza che riuscirà a percorrere un lungo spazio e questa volta il saluto non è un saluto solo su questo stretto presente ma su questo futuro di ipotesi e di lavori, e il mio augurio è che possano crescere, continuare anche al di fuori dell'enfasi in cui pure qui a Bologna siamo immersi, di Bologna capitale della cultura del Duemila.

 

 

Macciantelli «Internet: ricerca e/o didattica», Bologna, 15 e 27 novembre 1996 Ricciardi


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