Niccolò Ammaniti, Io non ho paura, Torino, Einaudi («Stile libero»), 2001, pp. 219.
di Anna Frabetti

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Dopo Ti prendo e ti porto via (1999), un altro romanzo, diverso dal precedente così come dagli esordi pulp, ormai relativamente lontani, di Branchie (1996) e Fango (1997). Ma in quale accezione usare il termine ormai inattuale - forse - di «romanzo»? L'interrogativo, reiterato sotto diverse forme, accomuna idealmente questo libro di Ammaniti ad altri usciti di recente, che descrivono una sorta di percorso (evolutivo o involutivo) di giovani autori estremamente diversi fra loro (come Silvia Ballestra o Giuseppe Culicchia o Aldo Nove, tra gli altri), alcuni cresciuti alla scuola di Tondelli, altri immersi nel pulp, tutti ora apparentemente alla ricerca di un'identità linguistica e narrativa da iscrivere in un orizzonte culturale che sia insieme tradizionale (canonico) e sperimentale. Un'identità tradizionale, per quanto riguarda i moduli, gli stilemi, i paradigmi letterari; sperimentale invece dal punto di vista linguistico, lontana ormai dal gusto postmoderno, per così dire, di certa koinè pop e mediatica, esaurita orizzontalmente, in superficie, dagli esperimenti un po' sterili e ripetitivi di tanta letteratura «cannibale».
Per Ammaniti, il tentativo di riappropriarsi di quella «dialettica tra tradizione e innovazione, tra conservazione e sperimentazione» che secondo Sinibaldi veniva negata dal pulp (cfr. M. Sinibaldi, pulp. La letteratura nell'era della simultaneità, Roma, Donzelli, 1997) era già evidente nel precedente Ti prendo e ti porto via, in cui sviluppava, in un ampio, imponente impianto romanzesco, storie diverse e convergenti. Se in quel caso l'autore proponeva una costruzione romanzesca nel senso più canonico del termine, in Io non ho paura ci dà piuttosto uno spaccato di un tragico diario d'infanzia, di un'infanzia che si chiude nella sfida alla paura e alla morte. In un imprecisato paese del Sud d'Italia, in un ambiente famigliare, angusto, opprimente e invasivo, si incrociano i destini di due bambini, l'uno, Filippo, rapito da una banda di balordi di paese e costretto in una buca; l'altro, Michele, la voce narrante, figlio di uno dei rapitori, che diventa il suo «angelo custode» e lo salva, morendo al suo posto, per mano del padre. In uno spazio spoglio, segnato dall'alternarsi di tenebre e luce e da una natura incombente e pervasiva, tutti i personaggi, adulti e bambini, sono portatori di una simbolicità primitiva e arcaica; tutti appartengono a microcosmi, famigliari, sociali (connotati da scelte linguistiche talvolta troppo elementari), in cui come in una tragedia antica, le forze del Bene e del Male si scontrano e si oppongono, come visibilmente si oppongono il giorno e la notte, la vita e la morte. E solo nel momento in cui i confini non saranno più netti, la realtà precipiterà verso l'epilogo tragico, in cui il padre carnefice trasforma in vittima il proprio figlio e se stesso. È in quel momento che il diario d'infanzia si chiude, nel punto in cui bianco e nero, buio e luce si confondono, crudeltà e violenza prevalgono, e vincere la paura diventa la chiave essenziale dell'essere uomini.

 

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Giugno 2001, n. 1