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BOLLETTINO '900 - Discussioni / B, gennaio 1997
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Il libro di Stefano Calabrese ambisce a riconfigurare una
teoria del romanzo che consenta di interpretare la vicenda e le
funzioni del *novel* nella sua eta' classica in maniera differente
dalla *vulgata* storicistica, che lega la genesi storica del romanzo
moderno all'ascesa della borghesia e al disincanto del mondo
(ipotesi che, peraltro, - lo confesso subito - continua, con i necessari
*distinguo*, a convincermi). La *dispositio* dei capitoli del libro
e' a cornice (e la cosa sembra significativa in un libro che esalta il
valore modellizzante del *plot* classico): apre il volume un
capitolo 'teorico' (ricco di informazioni sul caso paradigmatico del
romanzo inglese del Settecento), cui seguono tre capitoli 'storici',
dedicati al romanzo italiano dal Settecento, alla 'decostruzione'
dannunziana dell' intreccio, e un ultimo capitolo 'teorico' che si
impegna a definire la natura del 'possibile' romanzesco.
Quasi ad apertura di volume e' lo stesso Calabrese a
fornirci un perspicuo riassunto delle tesi di fondo del suo libro: "In
questo volume si sostiene che la nascita settecentesca del romanzo
moderno, e la sua sostanziale tenuta fino al tardo Ottocento, siano
da correlare non tanto al formarsi di un ceto borghese o all'avviarsi
di un processo di secolarizzazione, bensi' a fattori quali il
mutamento degli orizzonti d'attesa dell'uomo e la maggiore
imprevedibilita' del futuro, impliciti nel diffondersi di una cultura
urbana; il crollo dell'etica classica, sostituita da un orientamento
probabilistico, e la necessita' di raffrontarsi a modelli d'azione
osservati nel loro contesto situazionale; il bisogno claustrofilico di
proiettarsi in un intreccio concluso, di 'ridurre' le complessita'
storiche e tenere sotto controllo la categoria pragmatica del 'caso',
mai del tutto assente dalla forma-romanzo; una 'perdita
d'esperienza' ininterrotta e consistente, tale da vanificare ogni
competenza sulla storia passata come indicazione per una virtuosa
gestione del futuro" (p. 8). Da cio' consegue un'idea di romanzo
come strumento di orientamento etico-pragmatico (cui si
connettono le inevitabili patologie dell'identificazione romanzesca
su cui l'autore si sofferma nell'ultimo capitolo) volto a compensare
la perdita d'esperienza reale tramite la retorica romanzesca del
possibile. Non e' difficile individuare a questo punto il retroterra
teorico di questo lavoro, che si basa fondamentalmente sulle tesi
dell'estetica della ricezione di Jauss e sulla riflessione storico-
filosofica di autori quali Blumenberg, Marquard e Koselleck.
Altrettanto semplice e' individuare l'obiettivo polemico di
Calabrese: Hegel e, di conseguenza, la nostalgia lukácsiana per
l'epos. Ma Calabrese polemizza anche con Bachtin
(rimproverandogli ad es. la "mistificante insistenza sul
plurilinguismo" (p. 11), salvo poi accettarne fondamentalmente le
tesi sull'intreccio) e si avvale di ulteriori 'fonti' di riflessione: tra i
nomi piu' citati ricordo solo Ricoeur, uno degli studiosi oggi piu'
attenti ai rapporti tra teoria letteraria ed etica, mentre pure
consistente mi pare il debito di Calabrese verso certa narratologia
americana poststrutturalistica (un nome per tutti, Peter Brooks).
Questo regesto intertestuale (ovviamente incompleto) vuole
solo suggerire la grande *complessita'* del discorso interpretativo
tentato da Calabrese: in casi come questo i vantaggi della duttilita'
metodologica comportano inevitabilmente il rischio di una perdita
di 'presa' sull'oggetto del discorso. Pur nei limiti di spazio
impliciti in una mera nota informativa quale e' questa, cerchero' di
discutere alcuni degli spunti offerti da questo lavoro.
Credo che sia complessivamente condivisibile l'idea (qui
centrale) che l'intreccio romanzesco, regno del possibile e del
casuale 'controllato', assolva ad una funzione antropologica
(d'altro canto, gia' Aristotele non insisteva nella *Poetica* sul
ruolo primario delle trame?), ma il nesso di 'apertura' di
possibilita' e di 'chiusura' diegetica non richiedeva ancora qualche
riflessione? Non e' forse significativo che l'intreccio chiuso abbia
collassato nel momento in cui, a cavallo tra Otto e Novecento, la
perdita d'esperienza, da cui nascerebbe il moderno romanzo
'claustrofilico', registrava un incremento traumatico, mentre alcuni
avvertiti osservatori della realta' europea avevano gia' sperimentato
su di se' la sensazione dell'eterno ritorno dell'eguale? Forse
dovremmo disporre di una *fenomenologia* della perdita
d'esperienza, integrando al minimo le riflessioni di Koselleck con
quelle di Benjamin, o forse semplicemente si dovrebbe accogliere
con maggiore discrezione la teoria dell'*Erfahrungsverlust*, pur
riconoscendone il contenuto di verita'? Resta tuttavia il fatto che il
capitolo dedicato alle funzioni del romanzo italiano del Settecento
mi pare il meglio riuscito tra quelli 'storici'. Qui Calabrese ci offre
una serie di stimolanti riflessioni sui temi del caso e della ricerca
delle cause come 'calcolo delle probabilita'' nel romanzo italiano
del XVIII secolo: il solo fatto, ad esempio, che il testo forse piu'
fortunato del Chiari si intitoli *Le memorie di Madama Tolot
ovvero la giocatrice di lotto* assume qui come minimo un valore
di forte suggestione 'euristica'.
Su molte cose avremmo desiderato ragguagli piu'
dettagliati: per esempio, sui rapporti tra il probabilismo gesuitico e
il romanzo italiano, ma la mole tutto sommato esigua del volume
obbliga Calabrese a limitare gli 'affondi' verticali a vantaggio di
una tessitura 'orizzontale' di motivi e di microsondaggi testuali,
mediati da una scrittura saggistica sovente disamena. Ma passando
alle trame romantiche mi pare che le difficolta' aumentino. Ogni
modello 'forte' di teoria della letteratura sembra funzionare meglio
se applicato ad una classe di oggetti omogenea e priva di particolari
'devianze': e' uno dei problemi ad esempio della narratologia post-
proppiana, che Calabrese cerca di superare ricorrendo a Jauss,
Marquard, Blumenberg. Ma il 'nuovo' modello teorico, applicato
con una certa rigidezza, se risolve il problema ermeneutico posto
dal modesto romanzo italiano del Settecento, si scontra con la
maggiore complessita' - di la' dagli effettivi risultati artistici - della
fase romantica. Qui ci sono dei problemi concreti di cui Calabrese
non mi sembra renda conto: ontologizzando, per cosi' dire, la
perdita d'esperienza, egli sembra dimenticare che il romanzo
storico dipende anche dall'accresciuta consapevolezza storicistica
determinata dalla rivoluzione francese e dagli eventi che la
seguirono. Questa e' anche l'eta' delle filosofie della storia e della
'religione della liberta'', ma Calabrese preferisce *glisser*,
concentrandosi piuttosto, ad esempio, sullo 'scetticismo
storiografico relativo agli esiti degli eventi' (p. 133) osservabile in
certo romanzo storico italiano. Ora, il problema che Calabrese
solleva e' reale, ma egli finisce per illuminare un lato solo della
questione, semplificando la contraddizione dell'eta' romantica,
proiettata nel futuro ma consapevole allo stesso tempo che la
nottola di Minerva si leva in volo solo al tramonto. Non mi sono
qui richiamato ad Hegel per caso: questo lavoro si presenta come
dichiaratamente antihegeliano, ma forse Calabrese dimentica
quanto scrive uno dei suoi *auctores*, Odo Marquard: "La teoria
hegeliana della *forma romantica d'arte* non e' oggi frequente,
ne' amata. Essa appare, cio' nonostante, corretta a chi scrive...: non
c'e' ragione di abbandonarla"!.Faccio mia questa osservazione di
Marquard (1), ricordando altresi' che se un residuo di dialettica
hegeliana permane, a ben vedere, anche nelle ricostruzioni
storiografiche di Jauss, come ha recentemente chiarito Guglielmi (2),
cio' che rimane 'vivo' di Hegel e' la sua straordinaria capacita' di
situare l'arte moderna (e dunque anche il romanzo) all'interno di
una concreta contraddizione storica. E forse oggi e' venuto il
momento per quella 'fruttuosa alleanza' tra la scienza della
letteratura e l'estetica hegeliana che era negli auspici di Peter
Szondi (3). Con questo non e' mia intenzione censurare
l'antihegelismo di Calabrese: voglio soltanto sottolineare che una
teoria del romanzo come risultato di una perdita d'esperienza,
compensata da una rimodellizzazione del reale ad opera del *plot*,
otterrebbe un di piu' di concretezza se tenesse in maggiore
considerazione l'analisi hegeliana della modernita' artistica.
Superato in qualche modo l'ostacolo del romanzo storico
(cui sono dedicate, mi pare, le pagine meno coese del libro),
l'analisi di Calabrese puo' procedere spedita: lo sternismo, il
romanzo d'appendice, il romanzo naturalistico e infine quello
dannunziano, che liquida in Italia il *plot* 'classico', ci scorrono
velocemente davanti senza porre particolari problemi ermeneutici:
tra le pagine piu' riuscite di questa sezione voglio segnalare quelle
dedicate al romanzo d'appendice, nei suoi rapporti con la cultura a
oralita' residua del pubblico massificato delle grandi citta' (pp. 160
e sgg.) - mentre del 'behaviorismo' verghiano (p. 182) credo si
possa quantomeno discutere -.
Nell'ultimo capitolo Calabrese tira le fila del suo discorso,
concentrandosi sulla natura del 'possibile romanzesco', attraverso
la riproposizione delle riflessioni, tra gli altri, del filosofo del
bovarismo, Jules de Gaultier, e del classicista tedesco Erwin
Rohde, vicino a Nietzsche e autore di un importante studio sul
romanzo greco (1876), che avrebbe poi avuto una qualche
influenza su Bachtin. E qui inevitabilmente, come gia' nel primo
capitolo, dove alla 'categoria ontologica dell'io' si contrapponeva
la 'categoria etico-pragmatica dell'azione' (p. 21), compare il
fantasma di Nietzsche ad autenticare la retorica romanzesca del
possibile. Mi sembra evidente, a questo punto, come la costruzione
romanzesca, 'chiusa', di questo saggio sottintenda, come in ogni
buon romanzo, una serie di difficolta' non risolte che la finzione
ironica della trama (in questo caso, della disposizione dei capitoli)
consente, in qualche modo, di controbilanciare. Non posso piu'
discutere ora dell'uso molto disinvolto che Calabrese fa di
Nietzsche, come ho dovuto di necessita' trascurare altri aspetti del
suo discorso (come ad esempio il recupero, sulle orme di Jauss,
della nozione di *Einfühlung*, che finisce per enfatizzare il valore
della compensazione estetica dell'esperienza).
Vorrei concludere riflettendo soltanto sulla scelta,
apparentemente ovvia per chi si occupa di trame, di escludere il
romanzo del Novecento dal proprio discorso. Il problema e' in
realta' piu' complesso: nel romanzo del Novecento viene
esplicitamente allo scoperto quel nesso profondo di ironia e mimesi
(ben chiaro al Lukács hegeliano e romantico della *Teoria del
romanzo*) che avrebbe consentito di includere il romanzo di
questo secolo in una trattazione storica della forma-romanzo. Ma,
come e' naturale, il rifiuto di una tradizione di pensiero obbliga a
delle scelte.
1 Odo Marquard, *Estetica e anestetica*, il Mulino, Bologna
1994, p.76.
2 Cfr. Guido Guglielmi, *La parola del testo. Letteratura
come storia*, Il Mulino, Bologna 1993, p.25.
3 Cfr. Peter Szondi, *La poetica di Hegel e Schelling*,
Einaudi, Torino 1986, p.187.
© Bollettino '900 - versione e-mail
Electronic Newsletter of '900 Italian Literature
DISCUSSIONI / B, gennaio 1997. Anno III, 1.
Redazione: Vincenzo Bagnoli, Daniela Baroncini, Stefano Colangelo,
Eleonora Conti, Stefania Filippi, Anna Frabetti, Federico Pellizzi.
Responsabile: Flavio Niccoli. Editor: Federico Pellizzi.
Dipartimento di Italianistica
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Reg. Trib. di Bologna n. 6436 del 19 aprile 1995.
ISSN 1124-1578