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          BOLLETTINO '900 - Discussioni / A, maggio 1997             Successivo

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Su invito di Federico Pellizzi, invio a questa lista notizia
della recente discussione sull'universita' italiana avvenuta sulle
liste Let-it (curata da Giuseppe Gigliozzi) e Lettere Italiane
(curata da Emilio Speciale).
Mi scuso da subito con gli iscritti a tutte e tre le liste che sono
gia' a conoscenza dei fatti (e delle mie opinioni).

Il dibattito ha preso il via dall'invio di una mia mail, piuttosto
polemica (e amareggiata) in cui riportavo ampi stralci di un articolo
pubblicato dal Guardian il 25 marzo scorso. (L'articolo, a firma
Domenico Pacitti e James Meikle, mi dicono sia apparso
tradotto da Alberto Cavallari sull'Internazionale. Per corretezza
ne mandero' comunque una copia in un msg. separato.) Io ed i miei
colleghi del dipartimento di Italiano di Edimburgo lo avevamo
giudicato offensivo e superficiale. Altri non hanno creduto cosi',
anzi, si sono arrabbiati o stupiti di me, pensando che io stessi
difendendo l'universita' italiana. Qualcuno mi ha dato del
sindacalista della CGIL. Un pensionato-poeta dell'Indiana mi
ha risposto commosso citando Canetti e Frost. Fabio Ghirelli-Cerasi
ha scritto che la mia difesa era comprensibile, ma non giustificabile,
rientrando nella categoria "solo io prendo a calci il mio cane".
Un amico incredulo mi ha risposto privatamente, sostenendo che
in realta', in un accesso Stevenson-Flaubertiano (l'aria di Edimburgo),
Pacitti Domenico era mois, vittima e carnefice dell'universita'
italiana a un tempo. Eccetera.
In generale, se si eccettua Nanda Cremascoli, pochi hanno avuto la
bonta' di analizzare a sangue freddo la situazione ed andare al di
la' della issue of contention del momento.
Nella mia replica, comunque, cercavo di spiegare le mie posizioni.
Eccola, preceduta, come nell'orignale, da due e-mail arrivatemi dal
Prof. Lorenzo Calabi, Pro-Rettore per gli affari internazionali a Pisa,
che avrebbero (avrebbero) dovuto contribuire a chiarire il significato
della mia lettera.

(1)

Organization: Amministrazione Centrale - Universita' degli studi
di Pisa - Italia Date sent: Wed, 16 Apr 1997 02:03:23 +1800 To:
itadfp@srv0.arts.ed.ac.uk From:
calabi@adm.unipi.it (Lorenzo Calabi)

Caro Fiormonte,

personalmente non ci conosciamo, ma mi permetto di scriverti perche'
qualche collega mi ha fatto avere la tua e-mail letter riguardo
all'articolo del Guardian on Italian Universities and so and so forth.
Vorrei: 1st: solo confermarti che il rilievo di Lepschy e' affatto
giusto. [NELLA MIA MAIL CITAVO LEPSCHY COME FONTE
INDIRETTA DELLA NOTIZIA SU COME QUESTI ARTICOLI
FOSSERO MANIPOLATI DAI LETTORI]
Avrai notato l'incongrua commistione che ricorre tra studenti
e lettori. L'autore, lettore di inglese a Lingue, mi dicono (ma non
posso confermartelo) intenti cause giudiziarie perche' non gli e'
riconosciuto la posizione di prof. di ruolo. E' da un po' che scrive
cose analoghe, solo che almeno una volta dichiarava nomi e cognomi;
adesso sembra si sia reso conto che cosi' si stava esponendo a
possibilita' di denunce. 2nd: ho segnalato la questione, oltre che al
prof. Luciano Modica, nostro Rettore a Pisa, anche al prof.
Rizzarelli, Rettore di Catania e responsabile dei Rapporti
Internazionali della CRUI (che, forse sai, e' la Conferenza permanente
dei Rettori delle Universita' Italiane).

Naturalmente, la spiacevolezza della cosa resta. Che vi siano MPs che
si prestano, no wonder. Certo, che, per esempio, la semplice
commistione di cui dico non abbia sollecitato lo spirito critico della
redazione del Guardian stupisce un po'.

Grazie.

Lorenzo Calabi

Prof. Lorenzo Calabi. Pro-Rettore per i Rapporti Internazionali
Universita' degli Studi di Pisa. Lungarno Pacinotti 43. I-56126 Pisa
Tel: +39.50.920.175/217. Fax:+39.50.42446. e-mail: calabi@adm.unipi.it
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(2)

Organization: Amministrazione Centrale - Universita' degli studi
di Pisa - Italia Date sent: Thu, 17 Apr 1997 01:41:02 +1800 To:
"Domenico Fiormonte" <ITADFP@srv0.arts.ed.ac.uk> From:
calabi@adm.unipi.it (Lorenzo Calabi) Subject: Re:

Caro Fiormonte,

uno degli autori, i. e., Domenico Pacitti, e' lettore qui a Pisa. E'
da tempo in contesa con la Facolta' di Lingue: e' parte della lobby
dei lettori, che negli trascorsi hanno in vario modo cercato di
ottenere il riconoscimento della propria posizione come posizione di
professori di ruolo, arrivando a sollecitare non so quali istanze
europee -- a quanto risulta dalla documentazione di cui ti dico sotto
l'Aia, oltre che il Parlamento Europeo. [...]

Ricevo oggi dalla nostra (i. e., per i Rapporti Internazionali)
segretaria alla CRUI un fax che mi riproduce: 1, un precedente
(indecente) articolo del Pacitti "Italian Jobs in High Places"; 2, una
lettera di Cesare Pacioni al prof. Paolo Blassi, Rettore di Firenze e
Presidente della CRUI, che allega uno scritto del prof. Franco
Marenco, Presidente dell'Associazione Italiana di Anglistica, "The
real scandal: Lettori not Lecturers, pubblicato in "English Messanger"
(organo dell' ESSE, ossia European Socety for the Study of English),
5. 2. 96. 3, una lettera del prof. Adriano Rossi, Rettore
dell'Istituto Universitario Orientale di Napoli, ancora una volta a
Paolo Blasi (v. supra), dell' 11. 4. 97, il quale dice che
sta"informando in pari data il Ministro Berlinguer, il Sottosegretario
Guerzoni e il Rettore Marigo dell'Universita' di Verona".

Ieri sera ho trasmessa il tuo e-mail al nostro Rettore, prof. Luciano
Modica, che e' Segretario Generale della CRUI, pregandolo di valutare
se non sia opportuna una presa di posizione ufficiale della CRUI,
appunto.

[...]

Cordialmente,
Lorenzo Calabi

Prof. Lorenzo Calabi. Pro-Rettore per i Rapporti Internazionali
Universita' degli Studi di Pisa. Lungarno Pacinotti 43. I-56126 Pisa
Tel: +39.50.920.175/217. Fax:+39.50.42446.
e-mail: calabi@adm.unipi.it
------------------------------------------------------------

[...]

E ora veniamo alle questioni di merito. Per quanto mi riguarda
l'universita' italiana ha molti problemi.
Non sono stato io stesso a dire che l'articolo conteneva
<<amare verita'>>?? E non l'avevo definito "spietata denuncia"? E
dunque sapete spiegarmi com'e' che tutti hanno sottolineato solo il
mio orgoglio italico e non il riconoscimento implicito? Ogni seria
inchiesta sui mali dell'universita' (non solo italiana) e' benvenuta,
ma credo che da questo agli indecenti articoli letti in questi mesi ce
ne passi. Altrimenti pensate siano accetabili frasi come questa:
"Academic incompetence on the part of Italian professors, one of the
most recurrent themes, can be explained by the fact the Italian system
selects its teaching staff on the basis of recommendation rather than
one of honest merit."? Andiamo, siamo seri. Se siamo incompetenti,
allora sono incompetenti anche le universita' dove lavoriamo, e cosi'
su per li rami fino a alle piu' becere (e deleterie, anche per i
critici) generalizzazioni. Tutta altra musica l'articolo di
Bollag [CITATO DA GHIRELLI-CERASI], che cita nomi,
cognomi, e non e' affatto "diffamatorio" Il
piu' delle volte riporta fonti italiane (note piu' per recenti
accapigliamenti che per la loro obiettivita'), ma soprattutto concede
degli spiragli (la riforma di Ruberti, ecc.). A dire la verita' io
l'ho trovato addirittura filo-governativo. Insomma ammettiamolo: il
Guardian ha preso una bella toppa pubblicando l'articolo
di un giornalista che e' parte in causa.

Vorrei ora accennare a un altro paio di problemi che sono strettamente
collegati alla mia posizione (che mi e' stato richiesto di
esplicitare): 1) un problema di "definizione culturale"; 2) i i
sistemi stranieri e quello italiano.

1) Universita' cattiva o no dobbiamo onestamente ammettere che ci
troviamo di fronte anche a un "problema culturale" di enormi
proporzioni. Qualcosa che gli osservatori stranieri piu' acuti e
profondi conoscono bene --penso per esempio a Paul Ginsborg (che ha
una cattedra in Italia) o a Robert Lumley. Il problema e' la maniera
in cui l'Italia e gli italiani "percepiscono se stessi" e la loro
scarsa capacita' di diffondere all'estero una genuina e equilibrata
informazione su se stessi. Non entrero' troppo nel merito di questa
questione, e di come la nostra attitudine ipercritica, autoironica,
piagnona e teatrale influisca. Influisce d'altronde 'un pizzico' il
fatto che l'input mondiale delle notizie e delle informazioni non
viene da agenzie di stampa con sede a Roma, e che in genere il livello
di risposta dell'Italia e' direttamente proporzionale al suo peso
politico (non irrilevante, ma nemmeno preponderante). Altrettanto
NON vale per le universita' di altri paesi e per il carattere e la storia
dei suoi cittadini. In USA le application delle universita' sono
depliant turistici, menu, listini prezzi da far invidia a Cartier, e
Ivy League e' una mistica che a confronto quella buddista
impallidisce. (Qualcosa di paragonabile in Italia e' forse solo
rintracciabile nei collegi monacensi.) Ma veramente bisogna fare tanto
di cappello agli americani per la bravura con cui sanno costruire e
vendere un'immagine vincente delle proprie istituzioni. In Spagna uno
spagnolo si farebbe squartare prima di ammettere di fronte a uno
"straniero" (un "guiri") che il suo paese ha uno o due difetti al
massimo. Non parliamo della Francia, mentre in UK e' noto che i gruppi
di potere sono stabili e riconosciuti, hanno un nome (lobbies) e
nessuno si sogna di metterli in discussione.
Noi? abbiamo Pacitti.

2) Conosco gli USA da 15 anni, ho iniziato il mio PhD in una
universita' statunitense, ho passato piu' di un anno in una spagnola ed
ora sono da settembre in UK. Ho visto da vicino diversi sistemi
universitari (almeno tre escluso quest'ultimo), ed ho il coraggio e
l'orgoglio di dire, dopo tutto questo peregrinare, che gli standard di
qualita' dell'universita' italiana non hanno nulla da invidiare a
quelli delle migliori istituzioni straniere. In USA, in particolare,
oltre a insegnare spagnolo e studiare per il mio PhD sono stato
assistente amministrativo del direttore dei Graduate Studies del mio
programma (RTC, Michigan Tech), e ho dovuto studiare il sistema
procedurale di ammissione, le regole scritte e quelle non scritte, i
finanziamenti, le raccomandazioni, l'insegnamento, i quality
assessment, ecc. Su questi temi ho raccolto materiale da altre fonti e
altre universita' (qualcuno forse si ricordera' della rivolta degli
studenti graduate di Yale, che provoco' addirittura una censura
ai docenti da parte dell'American Association of University
Professors?).
Con questo materiale potrei pubblicare un libro piu' corposo
di quello di Anne Matthews ("Bright College Years: Inside the
American Campus Today"). I problemi del sistema universitario
americano sono stati recentemente discussi anche su Humanist
(Discussion Group vol. 10.0819-10.0845), dove con pacatezza
molti hanno espresso la loro opinione, ma certo nessuno si e'
sognato di gettare fango sul sistema nel suo complesso. Mi offro
di mandare su questa lista (o privatamente) la lettera-dossier da
me raccolta durante il mio soggiorno USA, dossier che e' stato
consegnato al Presidente dell'universita' ma che non ha mai
ricevuto risposta. Sono confortato dal fatto che ho trovato
conferma a molte mie osservazioni nei casi discussi su Humanist.
In generale il problema statunitense puo essere riassunto cosi':

I) L'UNIVERSITA' AZIENDA

A livello specifico la competizione su base commerciale e i tagli
sempre piu' duri alla spesa per l'education hanno in parte gia'
prodotto: a) un abbassamento del livello dell'insegnamento; b) un
livellamento della retribuzione; c) il congelamento implicito del
passaggio a "tenured" per moltissimi insegnanti;

Questi tre (quattro, compresi i tagli) fattori --come sa chiunque
abbia lavorato in un universita' americana-- sono la causa di un
aumento inverosimile del livello di stress e di logoramento sociale
all'interno dei campus.

d) il crescere del peso della didattica sugli studenti graduate, che,
ricordiamolo, non sono riconosciuti come lavoratori (vedi appunto il
caso di Yale), sono pagati con stipendi di sopravvivenza (dai 500$
agli 800$ al mese) e non possono protestare se il contratto prevede 20
ore settimanali ma in realta' gli assignment sono per 30 o 40
(qualunque teaching assistant sa che, quando si hanno 20-25 studenti e
gli si voglia dare un aiuto concreto, la distinzione fra "contact
hours" e preparazione e' truffaldina, perche' fa decidere la seconda a
dei calcoli astratti che nulla hanno a che vedere col carattere
"individuale" dell'insegnamento;

e) il crescere del ricatto nei confronti dei graduate students produce
un impoverimento della ricerca di base: si ricerca su temi che
impegnano per brevi periodi, altrimenti non si riesce a pubblicare e
alla fine del PhD non si trova lavoro (il problema e' non solo delle
Humanities, questo tema e' stato affrontato drammaticamente in una
conferenza a Madrid da Marvin Minsky, IA);

II) DISCENTE E CLIENTE

f) la mentalita' "quantitativa" tipica dei processi di valutazione
scientifica (o pseudotali) da' risultati devastanti quando viene
imposta a settori alieni alla quantificazione. L'introduzione, nella
maggioranza dei college americani, delle teaching evaluation anonime
(da parte degli studenti) come criterio di giudizio dell'insegnamento
s'inserisce nel solco. Gli studenti (diritto, beninteso, *sacrosanto*)
compilano ogni term dei prestampati multiple-choice che verranno
distribuiti all'inizio del succesivo term all'insegnante. [Un sistema
di questo genere sarebbe stato un tempo il mio sogno alla Sapienza.]
Tutto va bene pero' finche' questo rimane uno
strumento "consultivo". Ma cosi' non e'. Quando l'universita' si
auto-concepisce come "struttura di servizio", lo studente si trasforma
da discente in cliente. Cosa produca il diffondersi di questa
mentalita' a livello pedagogico non e' difficile immaginare. Piu' la
responsabilita' cade sull'insegnante- commesso (e per motivi diversi,
tipo l'ipocrisia del politically correct, per cui siamo tutti "peers"
e abbiamo una "open door policy"), piu' il rapporto allievo-insegnante
si snatura, diventando impossibile da parte di chi insegna esercitare
la dose minima di "autorita'" (parola tabu') che esige la transizione
fra uno stato di "minor conoscenza" a uno di "maggior conoscenza".
(Horkheimer definisce l'_autorita'_ una superiorita' che si accetta e
che viene _riconosciuta_.) Per non parlare del problema del rispetto e
della indipendenza di giudizio, sempre piu' ardui da definire in un
sistema che in certi casi non prevede l'istituto della bocciatura
(proprio cosi': in molti college americani, compresi Ivy League, gli
studenti non possono venire bocciati).

g) Le teaching evaluation costituiscono una fonte di manipolazione
anche a causa del perverso meccanismo della "media universitaria".
Come molti sanno, le scale di valutazione (riprese dal sistema
militare), vanno in genere da 1 a 5. Dove 1 sta per "poor" e 5 per
"excellent". Mettiamo che la media universitaria sia 4. Questo nella
pratica significa che qualsiasi punteggio al di sotto viene
automaticamente (ma tacitamente) considerato dagli addetti alle
global performance evaluation (o dal tuo supervisor) "insufficiente".
Una volta stabilita la "media universitaria", tutto cio' che c'e' fra l'1
e il 4 perde di significato, perche' (come sa chiunque ha lavorato per
l'industria) e' "fuori standard". In questa modo la scala di
valutazione perde totalmente di senso (innescando, fra l'altro, un
potenziale meccanismo di complicita' --o peggio "baratto"-- fra
allievo e insegnante.)

h) La trasformazione in azienda di un sistema che veicola e produce
conoscenza puo' minare i processi di controllo di qualita' della
ricerca e dell'insegnamento. Qui giova forse una testimonianza
personale. Durante il mio soggiorno al MichiganTech mi era stata
assegnata la cura di un survey interno sul mio PhD Program (Rhetoric
and Tech Communication). Tale survey sarebbe stato distribuito poi
ad un "evaluation team" esterno, pagato dallo stesso dipartimento. Il
meccanismo della evaluation (al quale ho partecipato anche in veste
di accompagnatore del team) assomiglia molto a quello delle "job
interviews" aziendale dove l'agenda (il famigerato "scheduling")
prevede impegni ogni ora dalle 8 alle 20, tutto e' organizzato al
millesimo di secondo, il soggetto non viene lasciato solo per un
istante. Pur ammettendo che un tale trattamento produce una
impressione di accuratezza e efficienza altissima, bisogna notare che
in questo modo il controllo esercitato sui controllori e' massimo. Ai
valutatori non rimane un solo minuto per guardarsi intorno, ed ogni
informazione (o richiesta di) viene filtrata attraverso i "dipendenti"
del campus. Tutta questa complessa procedura si svolge nella
convinzione e fiducia reciproca che le informazioni date siano
corrette. Il team a questo punto, stremato da decine di cene e
incontri, se ne torna a casa con un bel malloppo di dati da
scartabellare e da verificare. Nel nostro caso, purtroppo, i dati del
survey erano stati elaborati dallo stesso dipartimento: un graduate
student del dip. raccoglieva i questionari dai quali si sarebbero
ricavati i diagrammi di "gradimento" sul dip. stesso. Last, but not
least, entrambi i "valutatori" figuravano nel comitato editoriale della
rivista diretta dal capo del dipartimento sotto esame. Il graduate
student incaricato della elaborazione ero io, e a causa dei miei dubbi
(espressi in maniera assai diplomatica, cercando di sottrarmi
all'incarico), sono entrato in rotta di collisione col capo del
dipartimento, pregiudicando la mia permanenza. Da tutta questa
storia, ho tratto una lezione molto chiara: quando un dipartimento,
per sopravvivere, deve imparare a pianificare una strategia di
mercato, pubblicita' e propaganda diventano vitali.

i) ultimo punto, forse il piu' preoccupante, da quanto detto sopra
consegue che gli studenti di MS e PhD vengono sempre piu'
selezionati non in base alle loro academic performances, ma in base
alla loro resistenza ai ritmi dell'insegnameno e alla loro flessibilita' sul
luogo di lavoro (spesso gli studenti svolgono lavori di segreteria,
ecc.). Di tutte le deformazioni questa e' certamente la piu'
pericolosa perche' fonde la nozione di lavoro retribuito con quella di
studente ricercatore, eliminando l'indipendenza del secondo e
distruggendo i diritti del primo.

III) FUNZIONE E CONOSCENZA

Tutti questi fenomeni, intrecciati come sono, innestano una miscela
esplosiva. La competizione di tipo commerciale, inserita nel mondo
della ricerca e dell'insegnamento, a lungo termine rischia di
fagocitare il significato della parola "education", intesa come
processo di acquisizione della conoscenza (oltre che di specifiche
"skills") all'interno del suo universo di valori. Cio' che rischia di
diventare bagaglio acquisito e coscienza collettiva e' dunque
l'equivalenza, certamente aberrante, fra "funzione" e "conoscenza",
dove per funzione s'intende: efficienza, performance, funzionalita',
commerciabilita' del prodotto (i valori dell'industria). Chi fa le
spese di questo processo? Le facolta' umanistiche innanzitutto, ma non
solo. Dopo l'anello debole verranno gli anelli forti.

Come si vede il discorso va ben al di la' delle frontiere dei singoli
paesi e coinvolge in profondita' le culture occidentali e quelle di
paesi che a tali culture hanno fatto (e fanno) riferimento per
l'organizzazione dei loro sistemi di istruzione (Giappone, Australia,
Africa, Latinoamerica, ecc.). In due parole ci troviamo di fronte a
una crisi generale e nel mettere mano a questa crisi io intravedo una
spaccatura e un bivio. Sul campo si affrontano due forze, a sua volta
riflesso di delicati equilibri economici, storici e culturali che
stanno lentamente venendo al pettine: un modello anglosassone,
assolutamente vincente, rappresentato dal sistema americano (e dai
suoi cloni piu' o meno temperati) e un sistema europeo, il cui modello
non esiste, ma che e' giunto il momento di inventare. Molto si sta
muovendo in UK, un sistema selettivo con ossatura pubblica, ma
per ora certamente vedo piu' analogie fra il sistema americano e quello
britannico (nelle sue ultime tendenze) che fra quest'ultimo e quello
francese. Nel primo caso, come tutti sanno, parliamo di un sistema
largamente privato (anche se con correttivi pubblici), nel secondo di
un sistema pubblico (con tratti a volte privatistici). L'idea
discriminante rimane che cultura, istruzione e formazione si possano
fare a prescindere _o_ attraverso la regolazione e il finanziamento
dello stato. Nonostante tutti i suoi difetti, io sono per il secondo,
soprattutto perche' non innesca un processo irreversibile.

Io vedo un potenziale conflitto fra i due sistemi, un conflitto
pericoloso, ma INEVITABILE. Un conflitto che, perche' negarlo,
non esiterei a definire _di culture_. A questo conflitto, per quanto mi
riguarda, con tutto quello che questa battaglia implica per la qualita'
della nostra vita futura, non ho nessuna intenzione di sottrarmi.

I mali dell'universita' italiana non hanno un corrispettivo,
come molti ingenuamente credono,
nelle virtu' dei sistemi stranieri. Discutiamone pure, ma sempre
tenendo presente che ci troviamo di fronte a una crisi generale dei
modelli educativi, una crisi che --inutile dirlo-- ha radici altrove,
nella ristrutturazione industriale (e poi sociale) degli ultimi 15-20
anni e dunque nella sostituzione, all'interno della coscienza
collettiva, di una paradigma di progresso sociale con uno di
avanzamento economico. (<<Prossimo e' l'avvento di un mondo
dove gli uomini saranno governati dai loro interessi e non da valori.>>,
Alberto Cavallari, "La Repubblica", domenica 3 luglio 1994.) Di
questo dobbiamo parlare, secondo me. C'e' chi pensa di risolvere i mali
dell'universita' pubblica con forti iniezioni di competitivita', di
privato, di efficienza, di legami con l'industria --col "mondo del
lavoro" (il lavoro di chi?). Follia --e soprattutto _bugia_.
L'apertura di credito nei confronti del sistema "commerciale" e'
sbagliata poiche' ha un contenuto ideologico. Ci troviamo di fronte a
un "credo" (o se preferite un termine postmoderno a un "discourse") i
cui tratti venivano qualche anno fa riassunti da Giovanni Raboni con
l'espressione "etica aziendale": <<E' lo spirito dell'azienda. Col
ricatto che comporta a vincere. E questo, pensate, e' del tutto
acquisito dallo spirito pubblico.>> (_Il Manifesto_, 19 aprile 1994,
p. 25.) Questo processo di emasculazione del dissenso attraverso il
ricatto "etico" e' mille volte piu' pericoloso di 40 anni di
democrazia cristiana, baroni, mafia, corruzione e stragi. Tutto si
puo' riformare, tranne un "credo" e la sua _narrative_. Un credo porta
solo distruzione e, nel nostro caso (universita', ricerca, ecc.),
lobotomizzazione del sapere.

Chi c'e' al mondo che critica quel sistema? quali mezzi, quali
strumenti ha? ma soprattutto: chi e' disposto a starlo a sentire?
Eppure ecco che arrivano Pacitti e Meikle, fanno un bel discorsetto
sull'Italia corrotta e tutti gli andiamo dietro, senza capire, senza
riflettere su che cosa vogliono dire queste critiche, cosa
presuppongono, quale modello educativo suggeriscono e _perche'_.
L'andazzo generale non ci permette di abbassare la guardia nei
confronti di nessuno -- nemmeno del Guardian, che, come molti
sanno, ha sull'educational system idee considerate da molti
conservatrici (e' per esempio per un ritorno ai "Politecnici", che in
UK sono delle universita' di serie B destinate alla specializzazione
delle classi medio-basse.)

Da quali pulpiti vengono queste bellissime prediche? Questa e' l'unica
domanda che intendevo pormi, e qui sta il significato piu' profondo
della mia protesta contro il fango sull'Italia.

[FINE]

ADDENDA

Carlo Testa, della British Columbia a Vancouver, a proposito di
questa mia frase commentava:

Bisogna essere grati alle critiche da dovunque vengano.
Non lo dicono anche i cattolici che i sacramenti valgono anche se
amministrati da un prete indegno? E allora, per quanto "indegni"
possano essere gli anglosassoni, si faccia buon uso di cio' che di
_utile_ essi possano rivelare .

Sono assolutamente d'accordo.
Ma un conto sono delle critiche, un conto una campagna diffamatoria
che tutto distrugge e tutti mette sullo stesso piano, critici,
disgraziati, baroni, corrotti --e persino diffamatori. Questo era il caso,
secondo me, degli articoli di Pacitti (soprattutto del primo, che
parlava di favori sessuali, etc.).


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Domenico Fiormonte
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<<Non sap de dompnei pauc ni pro
qui del tot vol si donz aver>>



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© Bollettino '900 - versione e-mail
Electronic Newsletter of '900 Italian Literature
DISCUSSIONI / A, maggio 1997. Anno III, 3.

Redazione: Vincenzo Bagnoli, Daniela Baroncini, Stefano Colangelo,
Eleonora Conti, Stefania Filippi, Anna Frabetti, Federico Pellizzi.

Dipartimento di Italianistica
dell'Universita' di Bologna,
Via Zamboni 32, 40126 Bologna, Italy,
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Reg. Trib. di Bologna n. 6436 del 19 aprile 1995.
ISSN 1124-1578

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