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          BOLLETTINO '900 - Discussioni / A, dicembre 2003             Successivo

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SOMMARIO:

- Remo Ceserani
Riflessioni sulla riforma universitaria

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Remo Ceserani
Riflessioni sulla riforma universitaria

1. Alcune premesse. Mi sembra che sia da respingere
e da considerare obsoleta, nella nuova universita',
sia negli Stati Uniti sia in Europa, la distinzione
netta fra aree delle scienze naturali e aree delle
scienze umane. In tutte le universita' del mondo a
capitalismo avanzato la dialettica piu' forte e' tra
aree scientifiche e di ricerca, che comprendono anche
le scienze umane, e aree piu' legate alle attivita'
esecutive, tecniche e manageriali. C'era un tempo,
in molti paesi, una distinzione fra da una parte le
universita' che avevano come compiti la ricerca e la
formazione culturale delle classi dirigenti, e
dall'altra le scuole a livello avanzato tecniche e
professionalizzanti: i politecnici, le Hochschulen,
le scuole di medicina, le strutture speciali per
la preparazione degli insegnanti delle scuole primarie
e secondarie, le accademie, i conservatori. La
distinzione a volte riguardava istituzioni diverse,
altre volte si riferiva a settori diversi dentro la
stessa istituzione, ma era comunque sempre molto
netta e aveva un suo valore gerarchico: altra cosa
era la ricerca di base nella chimica, nella fisica,
nella biologia, nella fisiologia, altra cosa erano
i corsi professionalizzanti per ingegneri, medici,
architetti; diverso era lo studio della filosofia
o della storia del diritto o dell'economia, diverso
l'addestramento alla pratica legale o alle professioni
commerciali. Gradualmente, sulla spinta degli sviluppi
e delle esigenze della moderna societa' industriale,
le scuole professionalizzanti hanno preso un posto sempre
piu' di rilievo *dentro* l'universita', hanno assorbito
energie e attirato finanziamenti, hanno cambiato gli
equilibri e trasformato compiti e organizzazione
dell'intera istituzione. Le grandi universita' americane,
come Harvard e Yale, la cui caratteristica principale
e' stata tradizionalmente quella di essere dei
*colleges* dedicati all'educazione degli *undergraduates*
nelle scienze di base e nelle arti liberali e al tempo
stesso dei luoghi avanzati della ricerca primaria
(*research Universities*) hanno a lungo resistito
prima di ammettere sui propri campus le scuole
professionalizzanti (accanto alla *Law school* per la
formazione di magistrati e avvocati e alla *Faculty
of Theology* per la formazione dei pastori delle chiese
protestanti, che avevano gia' una lunga tradizione).
Alla fine, dopo parecchie incertezze, cedendo alle
convenienze e alle esigenze del mercato, hanno
progressivamente allargato le maglie e sono giunte ad
ammettere anche la scuola di *Management*, che e' forse
la piu' lontana dal modello dell'Universita' di
educazione liberale e di ricerca, ma e' quella che
porta piu' quattrini. Processi analoghi si sono avuti
nelle universita' europee. In Germania le Hochschulen
sono state trasformate in Universita'. Da noi il tutto
e' avvenuto in modo confuso, con la frequente inserzione
di istituzioni private nel processo di frammentazione e
ristrutturazione.
Questa trasformazione puo' non piacerci e spingerci
a rievocare nostalgicamente tradizioni nobili e modelli
diversi di Universita' del passato, e pero' credo che
si tratti di un processo irreversibile, condizionato
dallo sviluppo storico delle nostre societa', al quale
e' velleitario pensare di opporsi in modo pregiudiziale
e rigido, e che tuttavia credo che si possa e si debba
governare, con interventi di riequilibrio, con battaglie
per correggere le disuguaglianze tra aree di ricerca e
aree professionalizzanti, per far valere le esigenze di
crescita culturale complessiva dei nostri paesi rispetto
alle esigenze immediate e transeunti di questo o quel
settore, per mantenere i finanziamenti statali alla
ricerca di base a un livello consistente e lungimirante,
nettamente privilegiato rispetto ai finanziamenti
settoriali, spesso legati alle esigenze delle
istituzioni militari e a quelle delle industrie private.
Una distinzione forte, che e' al centro delle tensioni
piu' potenti nella universita' in trasformazione, e'
quella fra da una parte l'universita' come luogo di
formazione culturale, dialogica, civile (addirittura,
negli ideali ottocenteschi, nazionale), e come luogo
di ricerca libera, collettiva, comunitaria, nei piu'
diversi campi del sapere, investita anzi del compito
di conservare e revisionare a ogni generazione l'intero
assetto dei saperi, in una continua dialettica fra
conservazione e innovazione e dall'altra parte
l'universita' come scuola superiore (Hochschule),
addestratrice di funzionari delle amministrazioni dello
Stato o del management delle grandi corporations, di
professionisti nei piu' diversi campi dell'attivita'
industriale o in quelli delle attivita' sociali
(medici, liberi professionisti, insegnanti, psicologi,
ecc.).
Le grandi universita' della moderna tradizione europea
(Sorbona, Cambridge, Oxford, Tubingen, Heidelberg,
Salamanca, Bologna, Padova, ecc.) e anche quelle
americane hanno cercato di mantenere un equilibrio e
anzi uno scambio continuo di energie fra le due attivita':
ricerca e insegnamento, formazione culturale e
scientifica (saperi, pensiero e linguaggi, metodi della
ricerca) e formazione tecnica, esecutiva, professionale.
Questo equilibrio, per poter essere mantenuto, richiede
finanziamenti ampi e non rigidamente finalizzati a
profitti e risultati immediati, sostegno e coordinamento
delle istituzioni statali, una rete organica e
coordinata di centri di ricerca in connessione e in
nobile gara fra loro, forme corrette, disinteressate e
trasparenti di selezione e cooptazione a tutti i
livelli, dall'ammissione degli studenti al reclutamento
dei ricercatori e dei professori. Lo sviluppo tumultuoso
delle universita' nella seconda meta' del Novecento ha
reso quel modello e quell'equilibrio difficilissimi
da mantenere. Nel frattempo la pressione di enormi
masse di studenti ha scardinato tutto il sistema,
intasando le grandi universita' tradizionali,
stimolando gli enti piu' diversi a fondarne di nuove.
Nuove universita' sono sorte come funghi in luoghi e
territori spesso privi di strutture adeguate,
appoggiati a una insufficiente tradizione di
ricerca, quasi sempre squilibrati a favore della
formazione puramente professionale o di quella culturale
di basso livello.

2. Sulla base di queste premesse, propongo alcune
riflessioni e indicazioni di comportamento:

I. E' inutile combattere contro la PROFESSIONALIZZAZIONE
precoce, che viene inserita nel sistema su richiesta
pressante delle aziende, del mondo economico, delle
autorita' politiche e che ha una sua logica funzionale
anche se non formativa. Si puo' contrapporvi, tuttavia,
una serie di richieste, che vanno fatte in tutte le
occasioni e a tutti i livelli: una richiesta continua di
formazione piu' ampia e non-funzionale, con corsi fatti
fuori dalle aree professionalizzanti (corsi di filosofia
a ingegneria, di storia a medicina, di letteratura a
economia), momenti di discussione su significato e portata
delle singole professioni e del loro posto nella societa'
e dei valori etici che esse comportano, richieste di
scorrimento senza impedimenti da un'area all'altra, da un
livello di laurea all'altro, da una professione all'altra,
da un master professionalizzante a corsi e seminari
formativi, in nome se non altro di una delle parole
ideologiche correnti: la flessibilita'.

II. Credo che sia anche inutile opporsi al sistema dei
CREDITI, nonostante il loro carattere negoziale e
quasi bancario. Essi sono, oltretutto, richiesti
dall'uniformazione europea, anche se sono radicate e
persistenti, e forse necessarie, le differenze fra i
sistemi di valutazione dei diversi paesi e atenei.
Si puo', tuttavia, complicarne la logica burocratica
e puramente contabile rifiutando di fare corrispondere
unita' di credito a numeri di pagine lette e preparate
per un esame, rovesciando il vecchio sistema degli esami
a fine corso con prove e valutazioni in itinere,
promovendo il piu' possibile corsi di tipo seminariale
con lavoro individualizzato e di tipo dialogico nel senso
in cui ne parlano Bachtin e Readings, allacciando rapporti
con universita' straniere in modo integrato e privilegiando
quelle che non usano sistemi automatici di crediti, ma
che sono disposte a un lavoro comune piu' profondo,
confrontando le proprie debolezze e i propri punti di
forza. Qui possono servire, le esperienze che abbiamo
fatto con la scuola estiva Synapsis, con la scuola
superiore di Eco SSSUB e con i seminari che abbiamo
organizzato in comune con Tübingen in Germania, e
Cambridge e Oxford in Gran Bretagna.

III. Credo che vada invece rifiutata in partenza la
logica centralizzata che stabilisce TEMPI uniformi per
i vari corsi: tre anni per la prima laurea, due anni
per quella specialistica, tre anni per il dottorato.
La scelta che e' stata fatta da chi ha impostato la
riforma e' assurda e non e' vero che sia suggerita
da esigenze di uniformita' europea, perche' molti
paesi europei hanno sistemi diversi e comunque piu'
flessibili. E' a tutti evidente che non si possono
uniformare i tempi di studio nelle diverse aree
e discipline: alcune richiedono tempi molto piu'
lunghi di altre, alcune possono appoggiarsi su
una preparazione nella scuola superiore altre no;
studiare il cinese o la teoria dei sistemi richiede
sicuramente tempi piu' lunghi che studiare lo spagnolo
o il motore a scoppio. Per combattere l'assurda logica
uniformatrice del sistema introdotto dalla riforma si
puo' fare leva su una delle parole d'ordine del nuovo
corso, quella dell'autonomia: che autonomia e' quella che
deve adattarsi a regole e scansioni rigide imposte dal
centro? Dove vanno a finire le diversita' fra le realta'
locali, fra i percorsi di studio, fra le capacita'
individuali? Ancora piu' decisamente va respinta la
logica che introduce misure fisse nei TEMPI di
svolgimento dei corsi, uniformita' e rigidita' nel
loro svolgimento. E' capitato che nei questionari
sottoposti agli studenti compaia la domanda: "il
professore si e' attenuto nelle lezioni al programma
enunciato all'inizio e pubblicato nelle bacheche
delle facolta'?": una domanda che sottintende un giudizio
negativo su quei professori che non si attengono al
programma e se ne allontanano piu' o meno ampiamente.
Mi pare invece che un professore che cambia il programma
in itinere, dopo aver conosciuto i suoi studenti e
misurato le loro capacita' e ritmi di apprendimento,
dimostri di avere una genuina vocazione pedagogica e vada
semmai lodato per la sua attenzione ai bisogni dei suoi
allievi.

IV. Va respinta nettamente l'idea, purtroppo diffusissima
e ripetuta a ogni pie' sospinto da autorita' accademiche,
uomini politici, amministratori, giornalisti, che
l'universita' sia un'AZIENDA e debba essere governata con
le stesse regole con cui si governa un'azienda. Per quanto
le modifiche degli ultimi decenni abbiano trasformato
profondamente e irriversibilmente l'Universita', il nostro
compito e' di preservarne la natura piu' genuina e
originaria, humboldiana, di comunita' scientifica e
didattica basata sulla crescita collettiva, sul lavoro e la
sperimentazione comuni e solidali, sul dialogo, e non sulla
competizione esasperata come avviene in un'azienda. Certo
il germe della competizione e lo spirito aziendale sono
ormai molto forti nelle nostre universita': ne da'
prova la forte litigiosita' dei gruppi di ricerca e dei
membri dei vari dipartimenti, che esibiscono una
conflittualita', spesso molto personale e caratteriale,
che e' in netta contraddizione con lo spirito
tradizionale della universitas, come luogo di
collaborazione scientifica e formazione condivisa.

V. Va evitato il piu' possibile l'uso del termine
ECCELLENZA e va respinta la logica a cui esso si
richiama e che viene spesso evocata al momento di
fondazione di scuole di eccellenza, collegi di
eccellenza ecc. L'idea dell'eccellenza, che arriva
all'Universita' dal mondo delle aziende e dei mercati,
e' strettamente collegata con pratiche di competizione
esasperata ed e' in netta contraddizione con
l'ideale forte e antico dell'Universita' come luogo di
ricerca e formazione collettive.

VI. Vanno rifiutate con decisione, e comunque non
affidate alle scelte degli uffici amministrativi,
tutte le pratiche di VALUTAZIONE QUANTITATIVA,
le tabelle di corrispondenze, i quiz a risposta chiusa,
le graduatorie di merito del lavoro di professori e
studenti basate semplicemente su misure quantitative,
non accompagnate da accertamenti individuali e
collettivi, affidati a commissioni responsabili e
trasparenti, attraverso un pubblico confronto (e magari
anche uno scontro) di idee e opinioni.

VII. Va sostenuta con forza una richiesta di FINANZIAMENTI
STATALI adeguati delle strutture universitarie, considerate
un bene di investimento primario per l'intera societa' e
non un'azienda che si fonda soltanto sul principio
individualistico del rapporto di scambio fra tasse
di iscrizione e frequenza da parti degli studenti e
servizi a essi in proporzione erogati. L'Universita'
europea, ora che gli investimenti statali per ricerche
finalizzate (anche di tipo militare) sono in netta
diminuzione, non puo' evitare di ricorrere anche
a finanziamenti a contratto di aziende private, enti
locali, regionali, nazionali e sopranazionali.
E pero' non deve, per principio, perdere il suo
carattere di impresa collettiva. E' interesse della
societa' in generale che nascano al suo interno non solo
i luoghi della formazione funzionalizzata e finalizzata,
ma anche quelli della difesa e apprendimento delle diverse
culture che la compongono, dalla costituzione del
consenso e anche di quello che e' stato definito il
non-consenso (in altri tempi si parlava di
pensiero critico e antagonistico).

VIII. Va combattuta, almeno nella situazione italiana,
la tendenza ad espandere il numero delle UNIVERSITA'
PRIVATE. Molte di esse puntano proprio sui corsi
professionalizzanti (dalla medicina al management
alle attivita' di servizio) e quindi contribuiscono
allo squilibrio generale del sistema, con l'inevitabile
impoverimento delle risorse che i governi mettono
a disposizione delle universita' pubbliche.

IX. Vanno rifiutate deleghe sostanziose del GOVERNO
UNIVERSITARIO, soprattutto per quanto riguarda
ammissioni, valutazioni, istituzioni di dipartimenti
e aree di ricerca, organizzazioni dei corsi, a organi
amministrativi dotati di autonomia decisionale e
funzionale. La tradizione, molto forte, nelle
Universita' europee, di essere governate da organi
costituiti in prevalenza da membri del corpo accademico
e da studenti, ha subito negli anni un forte
indebolimento, con il passaggio di poteri dai senati
accademici ai consigli di amministrazione. Il problema
e' divenuto quella della composizione dei consigli
di amministrazione, dell'equilibrio tra le forze
universitarie e sociali che vi sono rappresentate,
dell'autonomia e automaticita' delle sue decisioni.
E' questo uno dei punti decisivi della
sopravvivenza. A essa devono lavorare i rappresentanti
delle diverse forze universitarie, culturali, economiche,
sociali, forniti di responsabilita', di impegno etico e
di una sufficiente consapevolezza della trasformazione
in atto e delle ragioni di resistenza contro gli
interessi e le ideologie diffusi e coalizzati che la
governano.

X. Va con urgenza cambiato il sistema di
RECLUTAMENTO dei professori. L'attuale sistema dei
concorsi, e' nato da un compromesso politico al ribasso
fra un parlamento troppo incline a lasciarsi condizionare
dalle pressioni corporative e un ministro che troppo
presto ha abbandonato un progetto decente che lui stesso
aveva presentato ed era in linea con le universita'
europee (idoneita' nazionali, concorsi locali con
intervento di esperti stranieri, obbligo dei giovani
reclutati di andare a radicarsi, magari anche
temporaneamente, fuori dal loro ateneo di origine).
Il sistema che ne e' risultato e' forse uno dei peggiori
al mondo. Qualcuno lo ha giustificato come una *ope legis*
mascherata che rimediava alle lungaggini e alle
storture del sistema precedente. Va pero' detto che
in questi tre-quattro anni di applicazione il sistema,
oltre ad aver sanato situazioni incresciose, ha
combinato guasti molto gravi, le cui conseguenze si
avvertiranno per molti anni. In ogni caso l'universita'
italiana ha bisogno di un sistema nuovo, trasparente,
equilibrato, che faccia finalmente spazio alle forze
giovani, che scelga solo e soltanto sulla base
della qualita' e dell'impegno nella ricerca e
nell'insegnamento, senza subire condizionamenti
di generazione, di localita' e ateneo, di scuola, di
tendenza ideologica.

[La versione integrale di questo intervento uscira'
nel numero 2003, 2 di "Bollettino '900", di imminente
pubblicazione]

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Discussioni/ A, dicembre 2003. Anno IX, 6.

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