Giulio Iacoli
Hortus conclusus, rupe. Modelli per un accerchiamento testuale nella «Giornata d'uno scrutatore» di Italo Calvino

 

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Sommario
I.
II.
III.
IV.
V.
VI.
VII.
Premesse: la tipologia eterogenea
Retroterra
Lo spartiacque oggettivo
Il paesaggio retorico
Una parentesi
Modelli altri
X, Y, Z



 

«Ogni tuo tentativo di uscire fuori dalla gabbia è destinato a fallire: è inutile cercare te stesso in un mondo che non t'appartiene, che forse non esiste».

Calvino, Un re in ascolto

«Der raum räumt. Nach den gewöhlnichen Logik sagt dieser Satz nur: der Raum ist Raum. Ein solcher Satz zweimal das Selbe. Er tritt auf der Stelle: Der Satz ist eine Tautologie. Sie führt nicht weiter».

Heidegger, Bemerkungen zu Kunst - Plastik - Raum

 

§ II. Retroterra

I. Premesse: la tipologia eterogenea

Nella natura breve della Giornata d'uno scrutatore, Calvino inscena un'autobiografica rincorsa del genere saggistico sulla narrazione; la distinzione tra racconto lungo e romanzo breve si risolve meno a favore della sicura supremazia di quest'ultimo genere che nella constatazione di un'avvenuta ibridazione: si delineerebbe l'idea di un istantaneo romanzo-saggio».1 Se della forma racconto la Giornata trattiene la volontà di narrare una vita intera, solo rappresentandola sotto forma di «un momento, come una crisi, come una manifestazione del puro accadere»,2 quello che Corrado Alvaro definiva il "momento culminante" allo stesso tempo rigetta l'opposizione tra semplicità e complessità, intendendo quest'ultimo carattere come proprio della forma romanzesca;3 la componente di complicazione saggistica insita nel testo fa virare l'interpretazione verso una tensione tra romanzo autonomo, conclusus, e il racconto lungo, secondo una costante che Pieter de Meijer ravvisa in quasi tutti i romanzi calviniani oltre che in altri casi esemplari nel Novecento, quali Agostino, Il compagno e Racconto d'autunno, i quali decretano la presenza di «una forma intermedia, non subito ascrivibile al genere breve»:4 in questo caso, una più ambigua narrazione di tranche de vie o di "situazione".
In una simile tensione/oscillazione, occorrerà sottrarsi ai vincoli di uno sguardo unicamente teorico o storiografico; andrà qui invocata una mediazione decisiva da parte del dominio stilistico (da intendersi come modo soggettivo della percezione e della strutturazione del mondo narrativo):5 a simboleggiare la brevità, l'istantaneità delle vicende recluse di Amerigo Ormea andrà ritenuta la natura proteiforme delle immagini che lo circondano, la sintesi fulminea con la quale le esperienze del personaggio si tramutano in lineamenti non organici di pensiero, in spezzature quasi aforistiche di una più generale e, come vedremo, affatto critica, visione del mondo. Il modo di avvicinamento al testo che qui propongo consiste in una verifica delle idee spaziali, dei contenuti che assolvono a una precisa irregimentazione in forme eloquenti, in opera nel libro».6 Che si dovrà leggere come un tentativo continuo, coerente, di imprigionamento, di assistere con una rete coagulante (i requisiti del genere narrativo, la costrizione del plot) la fluidità dell'osservazione saggistica. La chiusura entro una forma breve di romanzo trova così rispondenza nei segni stilistici consistenti in densi modelli spaziali elaborati da Calvino, siano essi l'architettura della pietà dove converge la vicenda, o un modello altro, allusivo di un mondo e di un'armonia perduti per sempre, la polis greca metonimicamente raffigurata nella spietatezza della rupe, contrapposta, si vedrà, ad altre immagini di modernità. In mezzo, scorrono le mille possibilità della forma, i mille tentativi del pensiero di saggiare la varietà delle immagini del mondo: tutto questo sorregge l'impalcatura ermetica dell'unitaria Giornata - salvo poi aprire a un finale sospeso, ancora asistematico, dispersivo, dalla singolare preveggenza».7

 

§ III. Lo spartiacque oggettivo Torna al sommario dell'articolo

II. Retroterra

In primo luogo, allora, due saggi: con Natura e storia nel romanzo e Il mare dell'oggettività (risalenti, a livello di prima stesura, al '58 e al '59, entrambi poi compresi nel 1980 in Una pietra sopra), l'uno in certa misura propedeutico rispetto all'altro, lo scrittore focalizza la lotta tra le forze dell'interiorità, le pulsioni morali che animano - che continuano ad animare - le categorie umane di conoscenza e giudizio, e l'invasione di un esterno che preme, «una specie d'inondazione dell'oggettività» che lo scrittore così tratteggia, a conclusione del primo dei due saggi:

«Negli aspetti più nuovi della letteratura e dell'arte degli ultimi anni assistiamo a una resa dell'uomo alla natura. Siamo nell'epoca della pittura informale, che vuole rappresentare il flusso della vita biologica che tutti ci percorre, la continuità tra il fluire della linfa, dei succhi terrestri, del sangue nelle vene e del brusio e fragore umano. In poesia la natura non è più sentita come alterità, come è avvenuto fino - si può dire - a Montale; con Dylan Thomas il tessuto delle analogie distrugge ogni differenza tra l'uomo e il coacervo della materia vivente [...].
Da questo sprofondamento dell'autore e del lettore nel ribollire della materia narrata nasce un senso di sgomento: ma questo sgomento è il punto di partenza d'un giudizio; il lettore può in grazia d'esso fare un passo in là, riacquistare il distacco storico, dichiararsi distinto e diverso dalla materia in ebollizione. Anche per questa strada potremo dunque ritrovare un rapporto tra la coscienza di sé e i dati della storia e della natura?
Una resa dell'individualità, e volontà umana di fronte al mare dell'oggettività, al magma indifferenziato dell'essere non può non corrispondere a una rinuncia dell'uomo a condurre il corso della storia, a una supina accettazione del mondo com'è. Per questo vogliamo richiamarci a una linea dell'ostinazione nonostante tutto che collega i più ardui esempi di atteggiamento verso il mondo che siamo andati tratteggiando, come alla lezione più priva d'illusioni e più carica ancora d'una forza positiva che possiamo trarre oggi dai libri e dalla vita».8

Calvino, nella sua retorica improntata a un pragmatico vedere lo stato delle cose, non rifugge dall'orizzonte della prassi (la "linea dell'ostinazione"); ammette l'incapacità presente di "mappare", e dunque padroneggiare, la mutata situazione. Eppure, come stiamo per vedere nel secondo dei saggi, non perde l'occasione per rinsaldare il filo della descrizione storica di quel vincolo tra la soggettività e «la natura, come un simbolo di vita ultraindividuale che c'è stata e ci sarà dopo di noi» e ancora «la storia, il suo trascorrere, il suo cercare un senso, il suo essere intessuta delle nostre vite individuali nelle quali continuamente entra a far parte» (così su Guerra e pace, nuovamente nel saggio su Natura e storia):9

«Diciamo subito che un mutamento di questo genere non entrava nei nostri piani, nelle nostre profezie, nelle nostre aspirazioni; ma ormai non si tratta più di accettarlo o di rifiutarlo; già ci siamo dentro; la geografia del nostro continente culturale è profondamente cambiata sotto quest'alluvione imprevista e che pure ha preso forma lentamente e ben visibilmente sotto i nostri occhi; il riconoscerlo però non vorremmo equivalesse per noi a un arrenderci, a un lasciarci annegare anche noi nel magma, come coloro che credono di capirlo e contenerlo identificandosi con esso. I termini del discorso etico-poetico che ci è sempre stato a cuore, quella tensione tra individuo storia e natura che usavamo come filo conduttore per scegliere e ordinare il nostro albero genealogico letterario, continuiamo a ritenerli validi anche sullo scenario di questo silenzioso cataclisma».10

I due passi concatenati offrono molteplici spunti per l'interpretazione di un nodo nella diacronia letteraria. In termini biografici, Calvino si è lasciato alle spalle la militanza nel PCI, i tragici accadimenti ungheresi del '56, una stagione letteraria nazionale quanto personale improntata al Neorealismo. Del periodo non viene meno la tensione etico-conoscitiva (le fila del "discorso etico-poetico"), né l'intera serie di questioni irrisolte lasciata in eredità dal Modernismo. Quello che, in termini retorici, è mutato, tra i due scritti, nell'asserzione di una volontà di resistenza, è il segno dell'asserzione stessa: laddove il ritorno ciclico del nodo individuo-natura-storia giungeva a porre come reale la resa, ad autenticare un sentimento di avvenuta omologazione, il secondo intervento-riscrittura invoca, di contro, una negazione che apra uno spazio di ridiscussione, che, al posto dell'indeterminazione, reinstalli la conoscenza per mezzo del procedere genealogico, il riconoscersi del soggetto in una tipologia storica di narrazione volta a inquadrarlo nella sua delineata soggettività. E il rilievo accordato alla «prorompente» posizione soggettiva, continua l'autore, è una delle eredità più notevoli delle poetiche moderniste, un «flusso» -

«espressionismo, Joyce, surrealismo, - che pareva voler inondare tutto, contestare la cittadinanza dell'uomo in un mondo oggettivo per farlo navigare nel fiume ininterrotto del monologo interiore o dell'automatismo inconscio. Ora è il contrario: è l'oggettività che annega l'io; il vulcano da cui dilaga la colata di lava non è più l'animo del poeta, è il ribollente cratere dell'alterità nel quale il poeta si getta».11

Il reale magmatico vede smarrirsi, intorno a sé, ogni virtualità di correlazione oggettiva intuita dall'artista; e questi, assorbito dall'alterità che lo permea, cerca di divincolarsi dall'oggettività definita in un altro punto «soverchiante» tramite l'esibizione di segni positivi, di coerenza rispetto a un progetto di «distacco storico», la materializzazione di quello che Calvino legge, in negativo, nel Pasticciaccio come lo sprofondamento della «coscienza razionalizzatrice e discriminante» datosi inoltre, nei romanzi di Pasolini, come la sperimentazione di «un'umanità grado zero». Sprofondamento, grado zero: si tratta di scacchi, di esperienze critiche e discenditive, ma che postulano, nel loro stesso valore diminuito, di paralisi cognitiva, la sopravvivenza di una forma autonoma di discernimento, un aurorale appiglio richiesto alla coscienza. E sull'ipotesi di continuità nel segno di uno «scatto attivo e cosciente», Calvino conclude Il mare dell'oggettività e, con esso, gli anni Cinquanta della letteratura, anticipando idealmente la «pietra sopra» a venire, di lì a vent'anni dopo, facendo irrompere le ragioni del critico e dell'autore impegnato nei testi che affollano la contemporaneità. Il proclama è quello, ancora una volta, della ricerca di una consonanza con le forme complesse dell'oggi (in un rapporto di rispecchiamento critico della realtà che prelude alla Sfida al labirinto che sarebbe uscita sul «Menabò» nel '62), di un salto necessario «dalla letteratura dell'oggettività alla letteratura della coscienza», dall'oggettività imperante alla perseveranza nella «regola del cercare anche nei testi più lontani le ragioni di forza d'un nostro discorso», in un'ossimorica, illuministica missione di «ostinazione senza illusioni».12

 

§ IV. Il paesaggio retorico Torna al sommario dell'articolo

III. Lo spartiacque oggettivo

Il quadro esemplificato dai due interventi, da leggere attraverso l'analisi di una reciproca solidarietà retorica, di una comune preoccupazione di natura conoscitiva ed etica, ha di certo il pregio di riferirci un'osservazione critica, dettagliata, del tempo presente dell'autore. Ma che avviene delle posizioni di Calvino se conferiamo loro un valore già implicito nella rivendicazione genealogica al loro centro, ovvero se le si considera un documento di storiografia artistica e culturale? Che genere di "forzatura" io, in quanto interprete, introduco, sovrapponendola alla forzatura che l'autore stesso applicava ai testi che andavano decifrati, che richiedevano una comprensione al di là della mera opacità delle forme, dell'occultamento apparente delle relazioni storico-ambientali del soggetto al centro della nuova narrativa? Nel limpido impegno da parte di Calvino a scrutare la mutata realtà culturale andrà intuita la necessità di vincolare le trasformazioni della contemporaneità a un progetto di interpretazione storica, la volontà di far scorrere a fianco delle inquietudini moderniste, in regime di continuità come di fertile contrasto, i segni dell'ubiquitaria oggettività, all'interno dei quali l'impegno logico del critico non può non discernere i germi di un ritrovato senso di «interrogazione»13 della realtà. Si tratta di un quesito, nuovamente, gnoseologico, che certa arte del decennio a venire porrà, almeno in apparenza, tra parentesi, tramite il ricorso a uno spazio alternativo, di sospensione: le forme del silenzio».14 Quanto al mio intento di forzatura nel senso di una valenza (almeno in nuce) storiografica dei testi in questione, vorrei che da esso emergesse il senso di "stasi" che promana da questi anni di Calvino, il loro fungere da parete divisoria tra lo spettacolo realistico consumatosi in cinereo esaurimento («Anch'io ho scritto e scrivo storie realistiche. Le mie prime novelle e il mio primo romanzo trattavano della guerra partigiana: era un mondo colorato, avventuroso, dove la tragedia e l'allegria erano mescolate. La realtà intorno a me non mi ha più dato immagini così piene di quell'energia che mi piace d'esprimere. Di scrivere storie realistiche non ho mai smesso, ma per quanto io cerchi di dar loro più movimento che posso e di renderle deformi attraverso l'ironia e il paradosso, mi riescono sempre un po' tristi; e sento il bisogno allora nel mio lavoro narrativo di alternare storie realistiche a storie fantastiche», così l'autore in una fortunata conferenza, ancora del 1959),15 e una spaziatura nel processo temporale di consegne tra modernità e postmodernità, riassunta emblematicamente dalla figura dell'"oggettività". Dunque, non una fissione irrimediabile tra i due termini di John Barth, exhaustion e replenishment (sia pure congegnati con uno sguardo esente da eccessiva preoccupazione - e in questo già pienamente postmodernista - da parte di Barth, per l'idea di esaurimento: «By "exhaustion" I don't mean anything so tired as the subject of physical, moral, or intellectual decadence, only the used-upness of certain forms or the felt exhaustion of certain possibilities - by no means a cause for despair»),16 come tra il Calvino dell'adesione alla poetica neorealistica e il Calvino delle sperimentazioni semiotico-strutturalistiche,17 ma una periodizzazione che al rigore della diacronia opponga, ricorsivamente, la categoria del mare magnum dell'oggettività come controcampo pensoso e critico della prassi letteraria dell'autore, il dominio dell'apparente con il quale confrontarsi (un'"alterità" che avrebbe costituito lo sfondo per la ricerca letteraria dell'autore, fino a Palomar), almeno a partire dal passaggio significativo tra anni Cinquanta e anni Sessanta in esame.18 Rimane da individuare l'area promossa da un tale, cogente confronto con l'oggettività, con un mondo pervaso dal «senso della complessità del tutto, il senso del brulicante o del folto o dello screziato o del labirintico o dello stratificato»:19 non è, ancora, lo spazio ricreato a partire da emanazioni fantastiche, da una volontà cosmografica construens e positiva, che traccerà racconti-mappe rizomatici e surreali (se si ragiona a partire dal concetto di adesione realistica alla configurazione degli spazi) nelle Cosmicomiche. Ma non è più uno spazio, quello della Speculazione edilizia o della Formica argentina o del libro-cardine di questa eclissi del referente, La giornata d'uno scrutatore, che si possa descrivere ricorrendo a una candida operazione di mimesi del reale: i fondali persistono in una loro riconoscibilità (è - chi non la vedrebbe? - la Liguria contemporanea; il Cottolengo è nominato sin dall'inizio, la cornice storica appare esibita e, quantomeno parzialmente, attendibile...),20 eppure il farsi paesaggio dello spazio inquadrato risponde non a una funzione "narrativa" - il paesaggio come accompagnamento, in senso di rispondenza o di contrasto con lo stato d'animo del personaggio - ancora in opera per il Sentiero di Pin, realistico quanto simbolico, o per gli eroi "manchevoli" dei Nostri antenati, quanto a una funzione di variatio rispetto alle linee cogenti depositate nel testo, di esaltazione degli inquietanti dati del reale al centro del racconto.21
Il deforme che, per definizione dello stesso scrittore, fuoriesce dal moto volutamente ondoso, crespo, che attraversa le storie realistiche, si impadronisce degli spazi disegnati, ne determina una qualità "iperrealistica", rivolta ad accentuare il lato crudo della realtà, visto, non di rado, nel suo trascolorare in grottesco, tramutando così lo spazio narrato in esposizione dello sgomento - investendo in senso morale il piano della diegesi.22

 

§ V. Una parentesi, ancora sui presupposti della finzione: mondi di bellezza Torna al sommario dell'articolo

IV. Il paesaggio retorico

In altre parole, lo spazio, all'altezza della fine degli anni Cinquanta, per Calvino si è "maliziato", come direbbe, a proposito dei pesci che non abboccano, un personaggio verghiano; ha mantenuto, là dove il quadro d'insieme sembra perdere in leggibilità, i caratteri imprescindibili di un sistema dall'orientamento definito, secondo assi tassonomici che assisteranno le prove delle Città invisibili o i microeventi di Palomar, ma, al suo interno, la frizione tra il tempo presente e le questioni pressanti che arrovellano il mondo esterno sta preparando voragini immani. Risulta vano, per i personaggi, pretendere di proiettare singoli moti del proprio animo sul paesaggio circostante: le spazialità interessate rigettano ogni proposta di relazione narrativa. E dunque gli oggetti si stagliano con protagonistica evidenza, si levano dall'indistinto con una forza d'urto che eccede i modi canonici del realismo. È l'apoteosi del deforme, dell'alterità difficile a conciliarsi, a premere e a sommergere il pensiero del protagonista, e con lui la sua capacità di relazionarsi a un simile mondo, e a condizionare il procedere di un romanzo come La giornata d'uno scrutatore. Ed è, il microcosmo del Cottolengo nel quale si trova calato dall'esterno il protagonista, una realtà in vitro per la quale il narratore escogita il modo di formulare immagini che dal narrativo si trasfondono al saggistico, come quella, icastica e celebre, del carciofo, analizzata da Ulla Musarra-Schrøeder nell'incipit del discorso a sostegno della candidatura della Cognizione del dolore al Premio Internazionale degli Editori, nel 1963, e messa a confronto con due passi del romanzo (uno dei quali espunto e reintegrato in nota nell'edizione dei «Meridiani» da Bruno Falcetto) che, ricordo, risale allo stesso anno di composizione.23 Se la realtà è, nelle note parole del Calvino sponsor, «multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo»,24 o, tra le pagine del romanzo, appare ad Amerigo, nella complessità delle cose, «un sovrapporsi di strati nettamente separabili»25 come appunto le foglie dell'ortaggio, lo spazio stesso che racchiude (perché, va sin dall'inizio chiarito, si tratta eminentemente di un claustrale, geometrico inquadramento in interni) il personaggio decentrato, deiettato nel mondo sommerso, sarà multifoliare, screziato e individuabile per veli in successione. E questi ultimi, rimossi per opera di un'ostinata ragione, restituiranno le immagini di un microcosmo composto da strati che non convergono su di una spiegazione lineare, ma che nel loro sovrapporsi definiscono un'idea di complessa interazione tra episodi di marginalità sociale e di caotico regolarsi delle cose in uno spazio alternativo: un antispazio e antimondo irriducibile al procedimento conoscitivo dello scrutatore in crisi. La stessa Musarra ha individuato le spie sintattiche di un simile franare delle regole di comprensione in forme di involuzione, di chiusura (periodi lunghi e contorti, reiterate parentesi che affacciano il dubbio del personaggio sulla superficie diegetica percorsa dal lettore, spesso con funzione di digressioni descrittive).26 Involuzione, sì, ma anche un abile percorso di complicazione e storpiatura dei nessi, di evidenziazione dei cedimenti nella patina ufficiale del linguaggio o di iuncturae dissonanti per dare vita a una retorica del sovrappiù e del ripetersi identico, pleonastico delle cose: si veda la complessità di una diafora, a sua volta incastonata in un'epanadiplosi che cinge i termini in forma di chiasmo («il "caso" che governa la generazione umana che si dice umana proprio perché avviene a caso...», GS 21); una fertile connessione ossimorica come «squallore ricco», al termine del battere anaforico sullo stesso sintagma "squallore", per farlo successivamente riecheggiare in anadiplosi (13); una serie di anacoluti e costrutti che riproducono i modi del parlato («Amerigo non era uno che gli piacesse mettersi avanti», 6; «la maturità gli portava insofferenza, una giostra di storie brevi e balorde che ogni volta si vedeva già che non andava», 48); il ricorso a un notevole utilizzo dei verbi in forma transitiva: «Era un'Italia nascosta che sfilava per quella sala, il rovescio di quella che si sfoggia al sole, che cammina le strade» (20); «Qualche rampicante fioriva un muro» (40).
Dai brevi sondaggi qui condotti pare emergere una ricerca qua e là affannosa, pleonastica, di simmetrie e di conferme, di asserzioni complete e ridondanti, insieme all'utilizzo di verbi che si muovono a stringere direttamente l'oggetto della loro azione, come riflesso di un agire non di rado scomposto, dell'attiva quête del senso intrapresa dal protagonista, contro ogni evidenza. Perché se la costruzione retorica asseconda i movimenti di immersione nel reale, spesso soggetti a distorsioni e a fenditure nel processo conoscitivo, da parte di Amerigo, lo spazio - uno spazio tramato di patenti allusioni alla storia del paese; il tentativo di rappresentazione di un possibile spazio sociale - palesa da subito la propria natura convenzionale e illusoria:

«Se si usano dei termini generici come "partito di sinistra", "istituto religioso", non è perché non si vogliano chiamare le cose con il loro nome, ma perché anche dichiarando d'emblée che il partito di Amerigo Ormea era il partito comunista e che il seggio elettorale era situato all'interno del famoso "Cottolengo" di Torino, il passo avanti che si fa sulla strada dell'esattezza è più apparente che reale» (GS, 7).27

Non è consolatoria né tantomeno animata da qualità chiarificatrici, questa presentazione concessa per via ipotetica-negativa, intesa a ricostruire tutto uno scenario storico e politico attraverso i modi renitenti, quasi svogliati, dell'allusione. Eppure, come a convogliarci dentro a un racconto che nella sua interezza avrà il senso di una recusatio indirizzata all'indietro, di un passaggio che esplichi al lettore come all'autore stesso il filo che lega il momento storico degli eventi narrati - il '53 della «legge-truffa» e della ricognizione personale di Calvino, al tempo presente del '63 - il narratore ci pone di fronte a una necessaria perdita di senso per quanto concerne la categoria dell'esattezza, aggiungerei, di un'esattezza diegetica. Siamo sin d'ora avvertiti: il racconto procederà relativizzando l'appropriatezza della descrizione rispetto al procedere della percezione, al mondo reinventato nella mente del protagonista, cancellando le tracce, svincolando i movimenti dello scrutatore Ormea (ex-Calvino; nuova personificazione di un'istanza già identificabile nella poliedrica coscienza - civica, intellettuale e ideologica - dell'autore) dallo spazio che li sottende e li inquadra. Confinato in un antimondo adiacente al mondo reale, allo stato vitale, e non solamente vegetativo, della città-Torino, Amerigo è continuamente portato ad avvertire la propria disarmonia rispetto alle quinte architettoniche che lo paralizzano in moti di adesione e ripulsa per la deformità racchiusa nel proverbiale Cottolengo - e fin qui il rapporto tra sfondo e personaggio sarebbe di natura contrastiva, ancora ascrivibile al genere di "paesaggio narrativo"; viene inoltre, nel medesimo tempo, condotto all'estraniazione da parte di deviazioni incidentali, interrogativi di natura morale in forma di disconnessioni dall'urgenza del reale, di interruzioni rispetto al corso regolare delle teatrali operazioni di voto; e dunque, nel senso codificato nella teoria cinematografica, la relazione va intesa come "disgiuntiva": lo scrutatore evade nel tempo, lasciando individuare dietro di sé lo scollamento avvenuto tra l'antipaesaggio umanoide in progress che viene componendosi ai suoi occhi, e la verità del mondo esterno che preme, promettendo domande dal fascinoso alone di conquiste conoscitive. Mentre nel seggio la recita a soggetto fintamente democratico deraglia, le parentesi vedono schiudersi, al loro interno, spazi alternativi di dubbio:28

«Una delle "brave" già aveva firmato per altre quattro. Arrivò senza carta d'identità una di quelle tutte in nero che Amerigo non sapeva se erano monache o cosa. - Conosce nessuno? - le chiese il presidente. Quella faceva di no, sbigottita.
(Cos'è questo nostro bisogno di bellezza? Si domandava Amerigo. Un carattere acquisito, un riflesso condizionato, una convenzione linguistica? E cos'è, in sé, la bellezza fisica? Un segno, un privilegio, un dato irrazionale della sorte, come - tra costoro - la bruttezza, la deformità, la minorazione? O è un modello via via diverso che noi ci fingiamo, storico più che naturale, una proiezione dei nostri valori di cultura?)
Il presidente insisteva: - Si guardi intorno se c'è qualcuno che conosce, che possa testimoniare.
(Amerigo pensava che invece d'esser lì avrebbe potuto passare la domenica tra le braccia di Lia, e questo suo rimpianto ora non gli pareva in contrasto con il dovere civile che l'aveva portato a fare lo scrutatore: anche far sì che la bellezza del mondo non passi inutilmente - pensava - è Storia, è opera civile...)
La donnetta nera muoveva gli occhi intorno senza raccapezzarsi, e allora saltò fuori la solita "brava" e disse: - La conosco io! (La Grecia... pensava Amerigo. Ma porre la bellezza troppo in alto nella scala dei valori, non è già il primo passo verso una civiltà disumana, che condannerà i deformi a esser gettati dalla rupe?)
- Ma conosce tutti, quella lì! - si levò a voce acuta della donna [un'altra scrutatrice, la sola alleata, che Amerigo intuisce essere socialista] in arancione. - Presidente, le domandi un po' se sa il nome.
(Per pensare alla sua amica Lia ora Amerigo sentiva come di dover chiedere scusa a quel mondo deserto di bellezza che per lui era diventato la realtà, e Lia appariva nel ricordo come non vera, una parvenza. Era tutto il mondo di fuori a diventare parvenza, nebbia, mentre questo, di mondo, questo del "Cottolengo", ora riempiva talmente la sua esperienza che pareva il solo vero)» (GS, 25, corsivi miei).

Al rincorrersi di esclamazioni che puntellano il movimentato dialogo, lo spazio altro in cui Amerigo è confluito oppone un continuum di sensazioni, di interrogativi che trasferiscono la riflessione sul piano della durata, della continuità di intenti che salda il protagonista a una tradizione segnatamente umanistica. La questione fondamentale che incrina l'ethos umanistico di Amerigo - una proiezione dell'autore congegnata, va ricordato, in piena rispondenza intratestuale al legame etico intrattenuto dallo scrittore con il mondo osservato, già rilevata a proposito dei saggi composti sullo scorcio degli anni Cinquanta - è quella relativa alla coesistenza, alla condivisione di un medesimo piano ontologico da parte di forma e deforme (e non sfugga la gradatio ascendente orchestrata, verso una crescente coscienza dell'alienazione presente, nel cantiere psichico di Amerigo: «la bruttezza, la minorità, la deformazione»);29 la griglia tassonomica nella quale egli raduna per categorie usurate - le quali odorano di vecchia Europa, siano esse improntate al marxismo o al liberalismo che, in una coabitazione all'apparenza paradossale, animano Amerigo - il mondo che cerca di discriminare cede, permettendoci di assistere alla sovversione del punto di vista originario sul Cottolengo e sull'esterno. La bellezza, incarnata per fuggevole antonomasia dal personaggio di Lia, è parte di un mondo sensibile che va progressivamente perdendo il proprio carattere di realtà, mentre il dislivello esperienza/conoscenza teorico-storica si riscrive a favore del primo termine, che il protagonista si sente quasi in dovere, come in una sorta di riparazione, di adottare come forma primaria e accertata, accreditata, del mondo reale. L'operoso mondo esterno, rivolto ai fini della vita associata, soggiace alle leggi di autoconservazione pietosa dell'interno: il rovesciamento del punto di vista dominante, antropocentrico, a quest'altezza del romanzo è già definitivamente attuato.

 

§ VI. Modelli altri Torna al sommario dell'articolo

V. Una parentesi, ancora sui presupposti della finzione: mondi di bellezza

Bellezza e verità rappresentano i termini che maggiormente, nella Giornata d'uno scrutatore, confliggono, fanno problema, invocando problemi di natura estetica e di realismo narrativo. Giova forse, per un attimo, uscire dall'asfissiante mondo conclusus del Cottolengo, e affacciarsi ancora una volta alle proposte elaborate dalle università americane. In una delle Tanner Lectures, da lei tenute a Yale nel 1998, Elaine Scarry interviene a favore del concetto della bellezza, a suo dire vistosamente emarginato dal linguaggio delle scienze umane negli ultimi decenni (dove, a differenza di quanto avverrebbe nel contesto scientifico, il bello, l'armonioso, sono termini che impauriscono, e vanno dunque espunti dal linguaggio critico), rintracciando una linea significativa dell'estetica che, in una continua serie di richiami a paragoni precedenti, lega la ricerca della bellezza alla sfera dell'immortalità. È qui, all'interno di una conferenza dedicata agli errori che commettiamo nel non apprezzare o nel farci sfuggire - o ancora, nel sopravvalutare - la bellezza che il legame tra questa e l'idea di verità si precisa:

«si può comprendere perché la bellezza sia stata percepita, da quegli stessi artisti, filosofi e teologi del Vecchio e del Nuovo Mondo [si tratta di Omero, Platone, Tommaso d'Aquino, Dante, per giungere fino a poeti contemporanei quali Seamus Heaney], come correlata alla verità. Ciò che è bello è associato alla verità perché la verità risiede nella sfera dell'immortalità. Ma se questo fosse l'unico fondamento della correlazione, molti di noi contemporanei, scettici circa l'esistenza di un regno del soprannaturale, saremmo obbligati a concludere che bellezza e verità non hanno nulla da spartire. Per fortuna, vi è chiaramente un secondo fondamento di questo tipo: la persona o la cosa bella suscita in noi il desiderio della verità perché essa, grazie alla sua "chiara discernibilità", ci introduce (forse anche per la prima volta) a uno stato di certezza, pur non saziando in sé il nostro desiderio di certezza; la bellezza, prima o poi, ci mette in contatto con la nostra stessa capacità di compiere errori. Quasi senza alcuno sforzo da parte nostra, la bellezza provoca in noi l'evento mentale del convincimento: e si tratta di uno stato mentale così piacevole che anche successivamente siamo pronti a penare, affannarci, lottare contro il mondo pur di trovare fonti durevoli di convincimento, pur di trovare ciò che è vero [...]. Inno e palinodia, convincimento e presa di coscienza dell'errore, risiedono in molti dei nostri incontri con la bellezza».30

Lo statuto ontologico della bellezza è tale da non concludersi in una sua mera apparizione; la natura interattiva della relazione con il soggetto percipiente è imperniata sul valore decisivo affidato da Scarry al termine "ricerca". Il percorso appare dotato di caratteri di universalità tali da spaziare dall'inchiesta filosofica al nostro rapporto con le cose, intrattenuto nella quotidianità (il critico, a tal proposito, non manca di ragguagliarci su cosa ritiene bello; ci racconta in quali errori è incorsa nel passato: è un modo personale e ricco di raccontare le fasi della conoscenza cercando di estenderle a un quadro generale; un modo che non esiterei a definire performativo-deduttivo). Ma, per tornare al nostro Cottolengo quotidiano, è lo stesso carattere di universalità a inserire l'uomo Ormea in una del tutto umana e umanistica ricerca della bellezza come antidoto al dubbio presente che gli sfila davanti, a conferire centralità, per la nostra interpretazione, alla fallacia che permea, nel romanzo, l'inchiesta sulla bellezza. È su quella che Scarry identifica come falsa pista del convincimento che si sono spinte le premesse alla visita al Cottolengo; l'inveterata fede nel discernimento del bello ha organizzato la ricognizione spaziale nel mondo isolato in una sorta di "parodia del mondo", da parte del protagonista, facendo sì che questi operi ogni distinzione, ogni giudizio, sulla base della propria conoscenza del mondo realmente vissuto, e che per lui, in un solo punto, eclissatosi rispetto alla percezione dell'apertura del mondo, i termini dell'"inno" e della "palinodia", si alternino e convivano. Viene, di qui, posta in questione la misura ontologica della realtà rappresentata nel romanzo: quale grado di fedeltà nella riproduzione narrativa può avvenire, se lo spazio storicamente rievocato (con esso, la linearità del testo) viene di continuo franto per fare accedere il lettore direttamente allo spazio del dubbio che anima Amerigo - e dunque finisce per configurare un mondo percepito come incompleto, dislocato rispetto alla convenzionalità illusoria del binarismo dentro/fuori?31 Appare, con ciò, elusa ogni ipotesi di integrità di coscienza, se il pensiero della bellezza classica è rinviato alla sua stessa demistificazione in quanto errore conoscitivo che non apre alla verità, ma che perverte la sintassi spaziale presente al personaggio: non più sovraordinato rispetto all'umanità perduta nel labirinto ma unica alternativa praticabile all'idea della Grecia avversa alla pietas, l'esterno perde in visibilità, in congruenza ontologica, andando così a suffragare la tesi del presidente del seggio e della cordata cattolica composta da lui, da tre scrutatori su quattro, e da preti e suore che si avvicendano nell'accompagnare i votanti: il Cottolengo/il dentro è carità (in una ricostruzione silenziosa Amerigo, ancora vigile, fronteggerà il loro tentativo di imporre l'equazione: «Ecco, vogliono dire che il "Cottolengo" è possibile solo grazie allla religione e alla Chiesa, e i comunisti saprebbero solo distruggerlo, e dunque il voto dei disgraziati è una difesa della carità cristiana...», GS, 38). Frammentaria nel suo svolgersi, la sequenza tutta disgrega un mondo narrativo dove lo svariare della mente del protagonista evita di rispondere alla richiesta, da parte del mondo stesso, di una sua costruzione per immagini lineari. Agli occhi di Amerigo, invischiato nel magma, e nella separatezza del luogo inquadrato, il mondo esterno smarrisce progressivamente i tratti di verosimiglianza, di tangibilità («nel ricordo» Lia e il «mondo di fuori» sono tramutati in «parvenza, nebbia»),32 a favore del supposto antimondo che emerge, per considerazioni laterali, come apertura sul possibile intesa a rivelare, al suo cuore, che «le leggi del labirinto, - poiché non si vede più la possibilità di frantumarle e spazzarle via -, finiscono per imporsi come le uniche leggi possibili, le leggi dell'operare umano in generale, e, scoperte anch'esse nella loro parte di positività, costituiscono un campo d'azione obbligato, necessario».33

 

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VI. Modelli altri

Il ribaltamento paradossale che coinvolge le leggi della bellezza e della verosimiglianza all'interno del mondo narrato viene di continuo ribadito attraverso la sua tematizzazione, la quale si fa più avvertita a partire dal momento di crisi denunciato in precedenza. La stessa tensione ossimorica viene legata all'immagine del fare, all'operosità intrinseca all'istituzione concentrazionaria stessa, alle sue stesse mura:

«Però, qualcosa in lui faceva resistenza. Cioè: non in lui, nel suo modo di pensare, ma lì intorno, proprio nelle stesse cose e persone del "Cottolengo". Ragazze con le trecce s'affrettavano con ceste di lenzuola (verso - Amerigo pensò - qualche segreta corsia di paralitici o di mostri); camminavano gli idioti in squadre, comandati da uno che pareva appena meno idiota degli altri, (queste famose "famiglie" - si chiese con improvviso interesse sociologico - come sono organizzate?); un angolo del cortile era ingombro di calce e sabbia e impalcature perché sopraelevavano un padiglione (come si amministrano i lasciti? quanta parte va alle spese, agli ampliamenti, agli aumenti del capitale?) Della inutilità del fare, il "Cottolengo" era la prova e insieme la smentita.
Lo storicista, in Amerigo, riprendeva fiato: tutto è storia, il "Cottolengo", queste monache che vanno a cambiare le lenzuola. (Storia magari rimasta ferma in un punto del suo corso, incagliata, stravolta contro se stessa). Anche questo mondo dei minorati poteva diventare diverso, e lo sarebbe certo diventato, in una società diversa. (Amerigo aveva in mente solo immagini vaghe: istituti di cura luminosi, ultramoderni, sistemi pedagogici modello, ricordi di fotografie su giornali, un'aria fin troppo pulita, vagamente svizzera...)
La vanità del tutto e l'importanza d'ogni cosa fatta da ognuno erano contenute tra le mura dello stesso cortile. Bastava che Amerigo continuasse a farne il giro e sarebbe incappato cento volte nelle stesse domande e risposte» (GS, 42-43, corsivi miei).

Per immagini contrastanti, nello scivolamento di qualsiasi tentativo di erigere un'antitesi, l'antispazio ammorbante prende a offrire immagini di uno spazio sociale davvero percorribile.
Va ribadito: si dà un'ellissi tra le convinzioni del quanto mai autobiografico Amerigo34 e il passaggio avvenuto alla partecipazione alla pietà del mondo (lo sprigionarsi di una crisi religiosa), percepibile solo attraverso moti interni alla sua coscienza, avvertiti sul filo delle incessanti considerazioni parentetiche in voce off. La fioritura di alternative ricolloca il luogo - ora meno antispazio che crocevia di mondi e di immagini possibili - al di fuori dei primi, stereotipati, concetti («È l'India, è l'India, pensava, con la soddisfazione di aver trovato la chiave, ma anche il sospetto di star rimuginando dei luoghi comuni», 41), sul filo di un'immaginazione che tenta anch'essa di evadere, di seguire traiettorie che promettono civiltà, comfort sociale, ma anche un'asettica disumanizzazione della vita - la polarità svizzera che attrae Amerigo, disposto a farla da storicista e sociologo a un tempo, salvo poi sprofondare negli spazi di crisi che gli si dispongono innanzi, a ogni passo.

 

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VII. X, Y, Z

Va ancora esplorato, nel dare forma alla percezione dell'interno/dall'interno che interessa il protagonista, un rimando al carattere di visualismo o ipervisuale accordato al romanzo;35 il ruolo che Amerigo svolge, si è spesso notato, è sin dal titolo connotato da una disposizione al vedere il reale in ogni sua piega ("scrutare"). E dunque non sarà casuale che al centro del romanzo Calvino organizzi una sequenza dal forte impatto metavisivo, un gioco di sguardi quasi hitchcockiano che fornisce l'intelaiatura sulla quale il nodo bellezza-assenza di bellezza (in un «mondo che rifiutava la forma», 74) trova una sintesi provvisoria, dubbia e sdrucciolevole, nella pietà, nello specifico una forma di pietà assistita da un forte senso di esclusione, di isolamento. Il cortile - uno dei cortili scrutati da Amerigo - diviene così spazio delle interrelazioni nel cuore dell'impietoso labirinto, luogo di convergenza di occhi che verificano e svelano l'archè degli scambi elettorali, descritta nella scena della visita dell'onorevole (una figura chiaramente "allegorica", come l'autore aggiunge in una Nota conclusiva)36 al Cottolengo. Al suo arrivo, dopo i saluti di rito, il politico (e segnalo di seguito con i corsivi gli elementi che ineriscono alla metaforica del vedere):

«si trovò solo, nel cortile, e doveva aspettare che la sua macchina tornasse. Il sole occupava metà del cielo; ma ancora, a sprazzi, dalle nuvole cadeva qualche goccia. L'onorevole ebbe quel momento di solitudine che provano i re e i potenti quando hanno finito di dar ordini e vedono il mondo che gira da solo. Gettò intorno un'occhiata fredda, ostile.
Amerigo lo guardava d'attraverso una finestra. E pensò: "A quello lì il Cottolengo non gli sfiora nemmeno la falda dell'impermeabile". (Era il pessimismo cattolico sulla natura umana che si poteva riconoscere sotto l'aria spregiudicata del parlamentare, ma ad Amerigo ora piaceva vederela come un lucido cinismo) [...]. E tutt'a un tratto l'avversione si trasformò in solidarietà: non erano forse, loro due, più simili che chiunque altro là dentro? Non appartenevano alla stessa famiglia, alla stessa parte, la parte dei valori terreni, della politica, della pratica, del potere? Non stavano tutti e due insieme dissacrando il feticcio del "Cottolengo", l'uno usandolo come una macchina elettorale e l'altro cercando di smascherarlo in questa sua funzione?
Guardando dalla finestra, s'accorse che a un altro davanzale, apparivano due occhi dietro il vetro, una testa che non riusciva a sporgere più in su del naso, una grossa scatola cranica coperta di peluria: un nano. Gli occhi del nano erano fissi sull'onorevole, e contro il vetro della finestra s'alzarono delle dita corte corte, la grinzosa palma d'una piccola mano, che battè due volte, come per chiamarlo. Cos'aveva da comunicargli? si domandò Amerigo. Cosa pensava, il nano, di quell'autorevole personaggio? Cosa pensava - si disse - di noi, di tutti noi?
L'onorevole si voltò, il suo sguardo girò sulla finestra, si fermò appena sul nano, poi passò via, distante. Amerigo pensò: "Si è accorto che è uno che non può votare". E pensò: "non lo vede nemmeno, non lo degna di uno sguardo». E pensò anche: "Ecco, io e l'onorevole siamo da una parte, e il nano dall'altra», e se ne sentì rassicurato.
Il nano battè ancora sulla finestra, ma l'onorevole ormai non si voltava. Certo il nano non aveva nulla da dire all'onorevole, i suoi occhi erano solo occhi, senza pensieri dietro, eppure si sarebbe detto che volesse fargli arrivare una comunicazione, dal suo mondo senza parole, che volesse stabilire un rapporto, dal suo mondo senza rapporti. Qual è il giudizio, si domandava Amerigo, che un mondo escluso dal giudizio dà di noi?
Il senso della vanità della storia umana che l'aveva colto prima in cortile, lo riprese: il regno del nano soverchiava il regno dell'onorevole, e Amerigo adesso si sentiva tutto dalla parte del nano, s'identificava con quello che il "Cottolengo" testimoniava contro l'onorevole, contro l'intruso, il solo vero nemico infiltratosi là dentro.
Ma gli occhi del nano si posavano con uguale assenza di partecipazione su tutto quel che nel cortile si muoveva, onorevole compreso. Il negare valore ai poteri umani implica l'accettazione (ossia la scelta) del potere peggiore: il regno del nano, dimostrata la sua superiorità sul regno dell'onorevole, lo annetteva, lo faceva proprio. Ecco che il nano e l'onorevole confermavano d'essere dalla stessa parte, e Amerigo adesso non poteva starci, era fuori...» (GS, 45-47).

Ripercorrere quasi nella sua interezza, senza interruzioni, la sequenza, porta a vedere le minime inflessioni della percezione esteriore nel loro farsi strumenti di associazione o dissociazione di rapporti su base bimembre e oppositiva (esemplificando, se prendiamo la nostra coscienza narrativa, Amerigo, come soggetto X, l'onorevole come Y, e il nano come Z, si avranno nell'ordine le seguenti combinazioni: X+Y vs Z; X+Z vs Y; infine, Y+Z vs X, a esplicitare l'avvenuta instaurazione del regno di Z). Insieme alla gradazione di sentimenti e di posizioni intersoggettive, emerge una modulazione di sintagmi connessi alla metaforica del vedere che stringe da vicino, che letteralmente imprigiona, il passo: l'idea di un paesaggio disgiuntivo è fortemente sorretta e veicolata dalle continue variazioni di inquadratura. Per brevi successioni, chi legge è portato in continuazione a inseguire il punto di enunciazione dello sguardo: chi è, da quella precisa visuale, a guardare? E l'individuazione del punto di emissione dello sguardo coincide con la riconnessione dell'elemento vedente alla supremazia conoscitiva: l'onorevole che scruta il nano; Amerigo che coinvolge entrambi nel suo punto di osservazione superiore; il nano che, vedendo, annette a sé.
Il tutto funziona fino a quando Amerigo, che vede gli altri vedersi, non riconosce, all'interno di questo gioco asimmetrico di vedute, il proprio essere depotenziato, isolato in una veduta periferica rispetto ai poteri misteriosi della vita e dell'esperienza delle cose. Non avviene a caso che su un passaggio dalla preponderante forza empirica Calvino concluda la sua rassegna autobiografica e retrospettiva: la sperimentazione della pietà, ancora traguardata dall'interno del buio mondo amniotico, avviene in maniera incessante nel cortile-mondo delle calci e del lavoro perpetuo, in un tableau confuso e vitalistico, dove le luci della sera portano con sé l'impressione di una strana conciliazione, e insieme «le prospettive di una città mai vista». Riporto nella loro estensione le note e le considerazioni finali:

«Donne nane passavano in cortile spingendo una carriola di fascine. Il carico pesava. Venne un'altra, grande come una gigantessa, e lo spinse, quasi di corsa, e rise, e tutte risero. Un'altra, pure grande, venne spazzando, con una scopa di saggina. Una grassa grassa spingeva per le stanghe alte un recipiente-carretto, su ruote di bicicletta, forse per trasportare la minestra. Anche l'ultima città dell'imperfezione ha la sua ora perfetta, pensò lo scrutatore, l'ora, l'attimo, in cui in ogni città c'è la Città» (GS, 78).

Si è spesso avvertito come i germi di una sintesi possibile, di una nuova modellizzazione del mondo secondo quelle creature difformi che saranno Le Cosmicomiche e l'atlante utopico delle Città invisibili, in questo finale aperto già si riscontrino. Ma andrà aggiunto che non è priva di implicazioni, per Calvino, la situazione nella quale si celebra l'ultimo atto visivo del romanzo: per rientrare nella civiltà, Amerigo ha ancora bisogno di proiettare sull'antispazio che lo circonda i segni della vita associata, i modelli reali dell'urbs contrastanti con le forme autosufficienti di pietà che vincolano, che stringono in una forma discorde e interrogativa l'antimondo tutto concesso per interni alla coscienza del protagonista.

 

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Giugno-dicembre 2005, n. 1-2