André Gaudreault, Dal letterario al filmico. Sistema del racconto (prefazione di Paul Ricoeur), Torino, Lindau, 2000, pp. 238, € 14,46
di Giulio Iacoli

 

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Nel cuore di un problema narratologico, il libro del canadese Gaudreault, frutto di lunghe ricerche sul cinema delle origini e di una tesi di dottorato dedicata al racconto filmico, ben presto giunge a una verità della forma racconto che vediamo dipanarsi sullo schermo: associata per lungo tempo al racconto scenico e allo specifico della forma teatrale, la narrazione filmica appare molto più intimamente legata ai dispositivi di narrazione propri del racconto scritturale (già per Christian Metz, «il cinema ha la narratività strettamente avvinta al corpo»), e dunque l'idea di una narratologia applicata al cinema, già da anni intrapresa, non può che illuminare anche il cammino dello studioso di letteratura. L'intersezione appare oggi quanto mai necessaria, sulla via di una definizione massimalista di racconto, senza restrizioni tra le serie, se è vero quanto enunciava un passo di Tzvetan Todorov, riportato dall'autore, secondo il quale «oggi non è più la letteratura a offrire i racconti di cui ogni società sembra avere bisogno per vivere, bensì il cinema» (p. 36): il che, di per sé pensato a partire dal nouveau roman, converge con il dichiarato influsso del mondo di Godard sul proprio romanzo da parte di Don DeLillo, tra gli altri (una "funzione Godard"). Ma occorre tornare indietro al cinema delle origini dove si attua un passaggio significativo per poter parlare di racconto filmico: dall'inquadratura-quadro unica, che costituiva i primi film, alla svolta degli anni Dieci, al «periodo del film a più inquadrature continue: riprese in funzione del montaggio» (p. 29). Dall'unipuntuale al pluripuntuale, dunque, si sviluppa quella funzione di voce (perché è della narratologia anziché della semiologia, nello specifico, della narratologia dell'enunciazione/dell'espressione che il libro si occupa maggiormente, sulla scia più di Genette che della narratologia del contenuto propugnata da un Greimas - p. 47; in termini chatmaniani, il discorso prima della storia) caratteristica del film, nel quale è un soggetto distinto dall'Autore a incarnare, attraverso le funzioni del montaggio, i tagli e i raccordi, la figura del «grande venditore di immagini». È qui che Gaudreault introduce una distinzione fondamentale tra le due istanze alla base del discorso filmico, quella tra mostratore e narratore (artefici di mostrazione e narrazione, «gli equivalenti moderni […] delle categorie platoniche della diegesis mimetica e della diegesis non mimetica», p. 91), riassumibili nel chiaro quadro che ne ha dato Massimo Fusillo: il primo «organizza il racconto scenico della ripresa», ne è il rappresentatore, mentre il secondo «organizza il montaggio» e dunque visualizza il punto focale, o oculare che dir si voglia, della narrazione, andando oltre le possibilità del mostratore, il cui limite più evidente risiede nel non potere mai «al suo livello di intervento, comunicare al narratario […] ciò che uno dei suoi personaggi non pensa o non sente» (p. 99); si evince da ciò che il «narratore controlla la nostra visione in modo più decisivo di un mostratore» (p. 100), orientando in maniera significativa la nostra interpretazione.

Concetti quali mimesis e diegesis di Platone e Aristotele ma anche showing e telling di Lubbock ed Henry James, vengono così riassorbiti in un diagramma non oppositivo ma di reciproca integrazione, nel quale una istanza prima, il narratore fondamentale o meganarratore, per molti versi simile all'autore implicito di cui parla Booth, organizza a monte il meccanismo diegetico, narrator ab alto che mette in scena narratori delegati, come il Romano interpretato da Marcello Mastroianni in Oci ciornie di Michalkov, che ci raccontano la storia attraverso il loro sguardo ma che, appunto, non vanno confusi con il narratore che si pone «all'origine del testo narrativo, dunque prima di esso e, di conseguenza, al di fuori di esso», una «istanza im-personale (o piuttosto a-personale) che, in quanto non attorializzata, non può presentarsi» (p. 144). Ricalcando gli studi di Lavagetto su Proust, verrebbe da pensare: «a patto di non dire je». Conclude il volume un'interessante postfazione datata 1998, nella quale si affronta la questione dell'intermedialità, di quella condizione particolare del cinema, di essere dalle origini «un reticolo intermediale» (p. 183): nel mezzo filmico andrà riconosciuta una particolare forma di narratività, la letterarietà, quella che, ancora nelle parole di Platone, è la haplè diegesis, opposta alla teatralità, espressione a sua volta della diegesis dià mimeseos. La letterarietà filmica andrà situata al livello degli intertitoli e del montaggio, consentendo - i primi - di iterare i sintagmi, di perturbare tempi e modi del racconto, aggirando la natura singolativa delle immagini (Figures III di Genette, ancora, in filigrana) attraverso vere e proprie «ali letterarie, che gli [scil. al cinema] permettono di decollare, letteralmente, dall'attaccamento fenomenologico-singolativo cui la sua iconicità costitutiva lo votava» (p. 190); mentre nel montaggio andrà riconosciuta la capacità fondamentale, «a seconda della coniugazione del contenuto delle immagini con il modo di incidenza e di ricorrenza degli stacchi, di produrre enunciati di valore differente» (p. 190): resta, una volta messe in luce le peculiarità espressive del racconto filmico, da chiarire se si possa introdurre la nuova nozione di filmicità, e qui, in fieri, l'ampia macchina narrativa di Gaudreault si arresta.

 

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Dicembre 2001, n. 2