Federico Pellizzi
L'ipertesto come forma simbolica

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Sommario
I.   Gli oggetti
II.  Le idee
III. Le pratiche


§ II. Le idee

I. Gli oggetti

L'aspetto forse più curioso di qualsiasi tipo di interfaccia digitale, appartenga a un particolare sistema operativo o a un'applicazione specifica, è che essa cerca di rappresentare nel proprio spazio operativo la presenza del visitatore. Qui ricomincia la storia, o per meglio dire, il dramma, del lettore, che non è più un «tu» come voleva Calvino, ma un «id», un vettore, un segno, la presenza oggettivata in fabula di un personaggio ridotto ai minimi termini. Dopo la diffusione universale delle due più geniali invenzioni di Douglas Engelbart, la finestra e il mouse,1 questa presenza minimale si è ulteriormente complicata: il visitatore si trova rappresentato in due forme, diviso nei due segni mobili del cursore e del puntatore. Ovvero viene scomposto nelle sue due componenti essenziali: atto e potenza, stasi e processo. Il puntatore, che muta di forma, che è sensibile agli oggetti che incontra e li trascina in qualche morbida trasformazione, rappresenta la nostra distanza, il poter fare e il saper fare, il ricercare, l'esser fuori. Il cursore, che lampeggia pedissequo, o che evidenzia un oggetto facendolo diventare blu – colore cristianamente spirituale, ma giottescamente reale – mostra dove siamo, non dove potremmo essere, quale oggetto abbiamo sotto mano e non come potremmo usarlo. Rappresenta il nostro essere dentro, la nostra «località» virtuale, il nostro lasciar segno ed essere segno.
In un certo senso cursore e puntatore sono le due metafore del nostro duplice modo di usare il computer, che è costitutivamente, e indissolubilmente, esperienziale e riflessivo, immersivo e indiretto. Diversi studiosi, con definizioni e prospettive differenti,2 hanno indicato questa duplice modalità di partecipazione al mondo digitale: l'interattività può essere immediata, plastica, corporea, mimetica, e quindi richiamare a una sorta di unità di tempo, di luogo e di azione che coinvolge emotività, propriocezione, decisione; oppure disporsi su molti piani, dividersi in tempi, spazi e intenzionalità differenti. In quest'ultimo caso diviene asincrona, acquista distanza, si rende molteplice, e implica scelte e dimenticanze, interruzioni e divagazioni, attese e ritorni.
Nello strumentario digitale ci sono infatti, a vari livelli, molti altri simboli, segni o sintomi dell'essere–dentro e dell'essere–fuori. Basti pensare allo schermo e alle finestre: un quadro che include altri quadri. Lo schermo è un vecchio sistema di incorniciamento, che ha ereditato alcune delle forme e delle funzioni del quadro dipinto. Delimita e rappresenta uno spazio altro in una superficie bidimensionale e in una scala differente rispetto allo spazio ospitante.3 Con il cinema lo schermo si trasforma: pretende di sostituirsi allo spazio ospitante, cresce di dimensione, diventa dinamico, e risucchia l'attenzione. L'idea è ora che sullo schermo accada qualcosa, che vi abbiano luogo eventi. Con la televisione quella superficie divenuta mobile e attraente ridiventa privata, ridiventa «da camera». Con il computer, infine, diviene un luogo dove il privato può rovesciarsi in pubblico e viceversa, in una specie di osmosi carnevalesca. Ma sempre, in tutte le sue metamorfosi, lo schermo mantiene i caratteri di bordo, di soglia, di confine, di porta esterna, di stipite che ricorda a chi lo guarda di essere fuori. Dello schermo del computer possiamo regolare la risoluzione senza necessariamente influire sulla costituzione digitale di ciò che esso mostra, scegliendo tra le modalità pittoriche del «ritratto» e del «paesaggio». E inoltre lo schermo espone le interfacce, incornicia le cornici. La finestra invece è inclusa, è dentro: quando è in primo piano, e attiva, rappresenta il visitatore non meno del cursore, ma ritagliandone lo spazio operativo sullo schermo. La finestra è un cursore «di area», inventato per permettere la compartecipazione e la condivisione di uno stesso ambiente da parte di più persone. Ha più del corridoio, in realtà, che della finestra: può contenere entrate, strumenti e oggetti, dà accesso a un interno ulteriore, anche quando si fa luogo di un dialogo con un altro computer e con le persone che ci stanno dietro, o quando permette un accesso remoto, che è sempre un entrare, un logging in. E di fatto ci si può imbattere, in certe modalità d'uso, come ad esempio la chat, nel cursore altrui.
I rapporti tra queste due semi–entità, tra queste due modalità d'essere, in realtà, non sono che l'epifenomeno di una complessità profonda, che non si mostra in superficie, ma di cui la superficie è in un certo senso la prova di verità. La superficie sembra più importante dei «dati» non per meri motivi di usabilità e di comunicazione, ma per motivi di strutturazione cognitiva, di inveramento e uso culturale di quei dati. Le superfici si moltiplicano, e si fanno struttura, racconto, argomentazione, schedario e teatro.

Se nello spazio attivo di quelle superfici i due aspetti che si sono descritti convivono, ovvero se nel nostro uso del computer si alternano stati e processi, se la nostra presenza si divide e si contempera, se usiamo dispositivi di entrata, di uscita, di collegamento, di determinazione spaziale, di scelta di opzioni, di interrogazione, di bricolage, siamo già all'interno di ciò che si può definire, in senso ampio, ipertesto. Qui si propone l'ipotesi che l'ipertestualità, e non il database, sia la modalità dominante, o, per meglio dire, modellizzante del mondo digitale nel suo complesso.4 La strutturazione e la configurazione ritmica, spaziale, simbolica e pragmatica delle superfici (delle interfacce) sembra essere la logica che tiene insieme, coordina e permette un nuovo tipo di discorsività, cioè di organizzazione e costruzione delle nostre rappresentazioni e descrizioni del mondo: una discorsività architettonica, dotata di caratteri morfologici già abbastanza delineati, la quale, pur non dando luogo a prodotti o manufatti altrettanto individuabili nelle loro funzioni e nel loro ruolo, sembra candidarsi ad assolvere certe precise funzioni culturali e sociali.
In effetti, se ci chiediamo con che cosa, in realtà, abbiamo a che fare, quando mettiamo le mani sul computer, con che ordine di oggetti, di là dalla contrapposizione di ipertesto e database, davvero ci mancano i parametri per una individuazione. Sicuramente sappiamo che il carattere di «memoria pragmatica» del computer sta crescendo a dismisura rispetto ad altre funzioni più antiche: quella di calcolo, che tende a essere dimenticata (chi chiama più il computer «calcolatore»?), che costituisce per così dire il cervello limbico dello strumento; e quella comunicativa, che comunque si è trasformata ed è sempre gremita di oggetti intermedi tra un comunicatore e l'altro, di un fare insieme, di un manipolare documenti, che non è più semplicemente comunicare, ma non è nemmeno il mezzo divenuto messaggio: è invece qualcosa al tempo stesso di relazionale e di estremamente etero–referenziale, che potrebbe chiamarsi con–vivere, community without propinquity. Infine, quel che rimane, quel che si apre ancora a un grande sviluppo, è la memoria operativa, corticale, della rete. Ovvero, in ultima analisi, la sua ipertestualità.

La forma ipertestuale spinge a una armonizzazione di tre modelli di raccolta, elaborazione e presentazione del sapere: enciclopedico, argomentativo e narrativo. Sono in fondo i tre tipi di discorsività che dominano ancora il nostro universo cognitivo. Ma non basta: essa poi recupera altre forme, mimetiche, iconiche, ludiche, deittiche, diagrammatiche. E infine sviluppa la capacità di pensare e rappresentare contesti plurimi, ibridi, stratificati, fatti di numeri e di corpi, e di spazializzare la loro relazione. Tutto ciò è molto diverso e molto di più di un database, così come è molto di più di un videogame. Ma è anche più della digitalità stessa.
E proprio osservando alcuni frammenti di questa discorsività realizzata, quelli meglio riusciti, se ne ha la precisa impressione. Sarebbe difficile ad esempio descrivere Il cane di terracotta di Camilleri5 in versione digitale come un «database» oppure come un «videogioco». Certamente è altro. È un ipertesto che coordina e chiama a sé molte funzioni autoriali: un disegno molto accurato, un'esecuzione del testo altrettanto efficace, la sceneggiatura, l'animazione, gli inserti documentali, le musiche originali. Tutto ciò comporta anche aspetti di archiviazione e di gioco, ma sarebbe comunque inesatto mettere in primo piano solo questi ultimi, vista l'armonizzazione particolarmente felice con l'insieme. Così tuttavia definisce l'ipertesto Michael Heim: «From the computer science point of view, hypertext is a database with nodes (screens) connected with links (mechanical connections) and links icons (to designate where the links exist in the text)».6 Sarebbe come dire che il libro è un insieme di caratteri mobili. È un riduzionismo che a volte può essere efficace, ma di cui, a quanto mi sembra, ora non abbiamo affatto bisogno.
Spesso, in effetti, il progetto di un'interfaccia suggerisce più idee sulla costituzione di una base di dati di quante non ne suggerisca la strutturazione di una base di dati riguardo alla configurazione dell'interfaccia. La logica ipertestuale (comporre, delimitare, strutturare, collegare, simulare) impone un rapporto continuo con l'esterno, ha qualcosa di sperimentale, che sembra perfino travalicare il dominio retorico e di mercato. È una forma di adattamento aperto al reale. E perciò è anche, per natura, creativa.
È provato, per fare un esempio su larga scala, che il Web – con la sua logica e il suo funzionamento – abbia influenzato lo sviluppo di database orientati all'oggetto, rispetto ai semplici database relazionali. Un esempio classico, invece, di database che ha determinato – forse troppo – lo stile e la costituzione della superficie, cioè dell'interfaccia, è la LIZ di Eugenio Picchi e Pasquale Stoppelli. Ma di là dalla casistica nostrana, la maggior parte dei manufatti digitali soffre o di uno scollamento delle ragioni dell'interfaccia da quelle della banca dati, o di un'apposizione improvvisata di un'interfaccia gradevole su un database di tutt'altra natura, o, quel che è peggio, della presenza di un'interfaccia gradevole sopra il nulla. Dovrebbe essere ciò che vogliamo ottenere a guidare l'architettonica complessiva di un manufatto digitale, ma il fatto è che non è ancora per nulla chiaro quello che vogliamo ottenere. Allo stesso modo è l'uso culturale che vogliamo fare di un testo che ci può dire come codificarlo, ma ci vorrà forse un secolo per assimilare e comprendere quell'uso possibile, e intendersi sulle ragioni, sulle convenzioni e sulle modalità della cultura digitale. Eppure, se ci sono certezze, riguardo agli oggetti digitali, queste sembrano riguardare una sorta di morfologia, metodologia e fisiologia del pensiero. Potranno cambiare i supporti: il mondo digitale è anzi alla ricerca disperata di supporti che offrano maggiori sicurezze, in termini di durata e stabilità, rispetto a quelli attuali, del tutto inaffidabili; potranno cambiare i canali, attualmente lenti e primitivi; ma certe forme di base sembrano ormai acquisite, così come certe funzioni fondamentali che permettono di «agire» i nuovi tipi di testualità. E inoltre sembrano acquisiti certi meccanismi, certe procedure, certi stili che costituiscono una forma generale del connettere, dell'interrogare, e del disporre: l'ipertestualità sta creando una nuova forma di spazialità culturale, ovvero un luogo dove muoversi nella doppia modalità che si è descritta paradigmaticamente come presenza simultanea di puntatore e cursore.
Le interfacce liquide che si stanno sperimentando ora, a partire da «Aqua», nuovo ambiente di Apple, o certe ambientazioni Flash dove il contesto dinamico si trasforma al passaggio del visitatore, probabilmente tenderanno ad annullare la scissione tra cursore e puntatore, contrassegno fenomenico dell'ipertestualità: il puntatore ridiverrà una presenza più piena, più operativa: costituirà quasi una sorta di «soggettiva» tattile, come avviene già in molti giochi elettronici. Ma se solo la liquidità si interromperà, se si può dir così, un solo istante, allora si sarà di nuovo calati in un ambiente ipertestuale. L'ipertesto è una logica che governa e sorregge molti generi e forme differenti, e possiede una grande forza inclusiva.
Se il semplice fatto che il visitatore sia rappresentato, sullo schermo, da un alter ego virtuale o da due fa la differenza tra scrittura e scena, tra ipertesto e realtà virtuale, è anche vero che l'ipertestualità è una forma di scrittura che contiene la scena, e in certa misura la realtà virtuale. Sembra lo strumento più efficace inventato dall'umanità per permettere l'accostamento non osmotico di differenze.

 

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II. Le idee

Se c'è un carattere sorprendente della rivoluzione digitale è la sua vocazione all'«incondizionato». Fomenta cioè quelle idee che non alloggiano nella realtà, né – direbbe Kant – «rendono possibile» l'esperienza, ma cercano di trascenderla. Due idee ricorrenti e contraddittorie di questa illusoria esuberanza della ragione informatica,7 riprodotte in dichiarazioni e interpretazioni di ogni ordine e grado, sono la Libertà e la Sorveglianza. Sarebbe superfluo documentare la ricorrente insistenza con cui, fin dalla nascita della rete, si afferma da una parte che il mondo digitale è strumento di emancipazione, libertà e creatività, dall'altra che esso porta al controllo totale, all'aumento del divario sociale e geopolitico, e alla società disciplinare: di generalizzazioni di questo tipo si possono trovare esempi ovunque. Basti citare due esempi opposti. Di solito la metafora preferita per l'esaltazione delle virtù liberatorie del mondo digitale è proprio l'ipertesto. Non si sottrae alla tentazione del mito della libertà ipertestuale nemmeno Pierre Lévy, che afferma, in un libro del 1995: «Il navigatore partecipa alla redazione o quantomeno all'edizione del testo che "legge" poiché è lui a determinare la sua organizzazione finale (la dispositio della retorica antica) […]; il navigatore può divenire autore in modo più profondo che percorrendo una rete prestabilita: partecipando alla strutturazione dell'ipertesto, creando nuovi collegamenti […] i lettori possono modificare i collegamenti, aggiungere e cambiare dei nodi […] unire due iperdocumenti in un unico ipertesto o tracciare dei legami ipertestuali tra una moltitudine di documenti. Oggi questa pratica è ampiamente utilizzata in Internet, segnatamente nel World Wide Web».8 Ora, dove Lévy potesse vedere nel Web tale «pratica ampiamente utilizzata», allora come oggi, resta un mistero. Sembra piuttosto che scambi un desiderio per un fatto. Forse si arriverà un giorno a rendere agevole e ampiamente diffusa l'interconnessione diretta di un proprio piano di lavoro (ad esempio uno schedario ipertestuale o una banca dati) con delle risorse esterne (già oggi è in parte tecnicamente possibile, anche se assai laborioso e raro): ma la difficoltà, più che tecnica, è culturale. Manca, e mancherà ancora per generazioni, la nuova competenza testuale necessaria perché un simile tipo di co–autorialità (anche nella forma di una creazione a più mani di risorse remote) divenga una pratica corrente. Un proto–esempio di una simile costruzione collettiva è rappresentato da «Reti medievali», un insieme di risorse accademiche che un gruppo di storici medievalisti ha collocato su diversi server, intrecciate insieme: una sorta di sito distribuito che permette che ciascuno aggiorni e sviluppi la sua parte indipendentemente, ma armonicamente, condividendo il progetto e gli intenti, alcune regole e alcune forme grafiche.9 Anche in questa forma, tuttavia, è difficile ovviamente definire una simile iniziativa come il caso del «lettore che può…»: questa pratica scrittoria riguarderà, almeno in tempi brevi o medi, un'esigua minoranza – non dico di persone in generale, ma perfino di studiosi. Il lettore resta pur sempre lettore, ma deve diventare superlettore, cioè acquisire competenze testuali molto articolate e nuove. Allora forse, esattamente come nel mondo della carta stampata, potrà aspirare a diventare anche iperautore, ovvero coordinatore di autorialità differenti (senza necessariamente diventare «editore»). Altri fenomeni di scrittura pubblica, come le liste di discussione, sono ben lontani dall'assegnare ai partecipanti i ruoli iperautoriali descritti da Lévy. Ancor più lontani sono fenomeni di condivisione di documenti e di risorse, come quello che ha avuto il suo episodio più noto nella costituzione di Napster. Si è creata, in quel caso, una folta comunità di appassionati di musica che condividevano attraverso la rete un certo numero di file musicali. Tramite un software dedicato ogni utente metteva a disposizione degli altri utenti collegati in rete una o più cartelle del proprio computer e i file in esse contenuti. Ma contrariamente a qualche assunto iniziale (che prevedeva gruppi indipendenti che mettono a disposizione la propria musica autoprodotta), si trattava in realtà di una comunità di consumatori di musica fatta da altri.

Tornando ora alle nostre idee contrapposte di libertà e controllo, vorrei citare un esempio anche per il secondo caso. Di solito le metafore ispiratrici per indicare le inclinazioni della rete alla sopraffazione e alla sorveglianza sono due. La prima è il panopticon di Bentham, ovvero un edificio chiuso, prototipo delle carceri speciali, che permette la piena osservazione di chi è rinchiuso. La seconda, più vicina alla nostra sensibilità reticolare, è il «grande fratello» di Orwell (peraltro il Grande fratello televisivo, almeno nell'edizione italiana, è stato un noioso tentativo di sintesi, involontariamente parodico, di entrambi i modelli). Tuttavia è intuitivo che entrambi mal si adattano a rappresentare il lato oscuro della rete: se non altro perché si ispirano a un'idea di totalità che non è più concepibile, e perché – per giunta – pretendono di contenere o essere quella totalità, piuttosto che filtrare, escludere e procedere ad accesso casuale. L'esempio che voglio riportare è invece più serio, e sembra riguardare la struttura profonda dell'ipertesto, nel senso ampio che ho impiegato qui. Inoltre, prende in considerazione un aspetto del mondo digitale che è stato a lungo trascurato, ossia la sua territorialità. Mi riferisco al fascicolo speciale di «Limes», I signori della rete, uscito recentemente.10 Quel che colpisce, riflettendo sui materiali che vi sono proposti, è una sorta di isomorfismo che si può cogliere tra le diverse scale del fenomeno digitale. Il mondo digitale è stratificato e strutturato in domini gerarchici, dal bit alla rete globale. E così appare anche il mondo sociale che vi gravita attorno. Si conferma che il digital divide, ossia il divario tra chi può accedere alle risorse digitali e chi invece non può (si tratti di individui, gruppi sociali, paesi, o addirittura continenti), sta crescendo.11 Il dato più rilevante tuttavia riguarda appunto il «controllo» della rete.12 Con indicatori più raffinati del semplice conteggio degli accessi si constata che il divario è ancor più netto in termini di potere e gestione. Sembrano intanto rovesciarsi alcuni luoghi comuni sull'era digitale: i legami sociali che i sociologi davano per irrimediabilmente allentati si rafforzano e si gerarchizzano; i luoghi, che sembravano rarefarsi e indifferenziarsi, assumono più che mai importanza. Com'era del resto prevedibile, la rete diviene territorio di conquista, e il «"dove stare", nell'economia digitale, conta più che mai».13
Naturalmente il quadro offerto da questa seconda idea è più realistico del precedente, ma contiene a sua volta delle insidie semplificatrici. In effetti troviamo, nel digitale, la presenza costituzionale di rigidissime gerarchie, ma anche – è indubbio – molteplici possibilità di scavalcarle. E ancora: da un esame interno della stessa testualità digitale si può desumere una grande complessità gerarchica: ogni testo ha molti livelli, dal linguaggio macchina ai linguaggi di marcatura, dal software che ci permette di aprirlo alla sua mera superficie visibile. Tuttavia proprio in seno a tale complessità troviamo in un certo senso lo spazio che ci fa capire l'estrema mobilità e apertura di tali strutture, che preludono, nel bene e nel male, alla società che vi si rispecchierà e ne farà uso.

Tuttavia questa non è l'unica contrapposizione di idee «incondizionate» che riguardano il mondo digitale. Ve ne sono molte altre, alcune delle quali «interne», legate agli usi e alle scritture di chi opera già quotidianamente nel mondo digitale. Una di queste, che forse si può considerare riassuntiva anche di altre, è quella che si delinea tra due modi differenti di considerare il digitale, due strategie che si propongono di raggiungere obiettivi differenti. Sono due diversi tipi di forma mentis, che si potrebbero designare come information retrieval e information architecture. O, più scherzosamente, Digital Mind (DM) e Digital Body (DB). Il primo atteggiamento (DM), si potrebbe dire, rappresenta la digitalità stessa: consiste nel ridurre l'informazione a una semplice relazione differenziale e nel pensare principalmente in base a tale categoria. Il secondo (DB), molto più confuso e problematico nei suoi intenti e nei suoi metodi, consiste nel mettere insieme e nel dare un ordine a materiali eterogenei, informazione e non–informazione, oggetti digitali e pseudo–analogici. Il suo laborioso ufficio comincia a manifestarsi proprio sull'interfaccia. In realtà il suo potere di connettere e mettere sullo stesso piano non è che un effetto di DM, ma non appena si svincola friendly da queste radici informazionali, DB vive poi di vita propria. Il problema di questi due atteggiamenti è che, pur essendo indissolubili l'uno dall'altro, comunicano tra loro con grande difficoltà. Ognuno cerca di generalizzare i propri caratteri e di imporsi all'altro. Sono atteggiamenti che conducono a veri e propri abusi concettuali: ad esempio cercando di estendere la portata di idee nate sotto il proprio dominio e facendone una sorta di prescrizione: due esempi sono il concetto di combinabilità, nato sotto l'egida di DM, e il concetto di multimedialità, cresciuto all'ombra di DB. Entrambi i concetti, che hanno costituito quasi due «poetiche» della digitalità, sono teoricamente deboli, ma assai diffusi, e influenzano stabilmente tanto le interpretazioni quanto gli usi delle risorse elettroniche. Eppure il loro limite, ancora una volta, è che, se tenuti artificialmente separati, non sono in grado di produrre ibridi, ossia una circolarità che, per così dire, carica il numero di carne e indicizza il corpo. Nel mondo digitale il discorso non è più meramente verbale, ma include oggetti, valori già precostituiti, agglomerati che contengono modelli del mondo e interpretazioni rimasticate. L'ermeneutica quotidiana che corrisponde a questa discorsività diviene ostensiva e deve fare ricorso all'ekphrasis e all'ipotiposi. Deve anch'essa configurare, mostrare ed essere oggetto di interpretazione. Diventa cioè «riflessiva», nel senso che Katherine Hayles assegna a questa parola: «Reflexivity is the movement whereby that which has been used to generate a system is made, through a changed perspective, to become part of the system it generates».14 In altre parole noi non interpretiamo, non traduciamo, non comunichiamo qualcosa, ma prendiamo parte ad un sistema che prende parte in noi. Come nel racconto di Borges, un sognatore crea uno studente, ma il sognatore a sua volta è sognato da qualcun altro, e così via, in un gioco di sineddoche sbilanciate. Come ha scritto Pierre Lévy, noi non mandiamo un messaggio, ma cerchiamo di modificare un contesto. Comunichiamo strutture, dotate di flebile soggettività e storicità, che appartengono alternativamente e contemporaneamente ai due domini di DM e DB, e al tempo stesso in qualche modo li contengono.
A rifletterci, tuttavia, questa compresenza di idee e atteggiamenti così contraddittori è sintomo di una grande e tumultuosa forza. Anche se questa dialettica, in fondo, è insita in ogni tecnologia, è raro che si assista a una simile diffusa contrapposizione di interpretazioni «generali», legate a qualcosa che è banale e rivoluzionario insieme.

 

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III. Le pratiche

Usare questi nuovi strumenti digitali, immergersi nelle loro interfacce, visitarne gli spazi non euclidei, comporta la possibilità di variare il registro della propria «partecipazione al discorso», cioè la possibilità di passare rapidamente dalla contemplazione all'analisi, dalla ricerca alla costruzione. Un aspetto importante di questa nuova discorsività è che essa, come si è visto, è cosparsa di oggetti. E tali oggetti eterogenei, che possono essere visivi, uditivi, cinestetici, costituire pragmemi e sistemi di relazioni, sono caratterizzati dal fatto che, attraverso tecniche pittoriche, architettoniche e drammatiche, vengono addensati e composti in strati (le interfacce), legati tra loro da legami e processi. Gli stumenti di manovra per visitare questi strati, i pragmemi, descrivono e offrono al tempo stesso una serie di scelte operative, e ancor più le descrivono eseguendole. Le «immagini» che risultano coinvolte in questo tipo di costruzione discorsiva sono evidentemente molto differenti dalle immagini descritte da certe riflessioni sulla presunta «civiltà delle immagini» e sulla «cultura audiovisiva»: sono infatti paradigmi, composizioni dotate di profondità strutturale, strumenti di azione. Sono strategiche nella costruzione di discorsi, nel senso foucaultiano del termine, perché si pongono in quella zona dove si creano ibridi,15 dove si stabiliscono rapporti tra le parole e le cose. Sono immagini architettoniche e dinamiche che danno profondità e operatività allo schermo. Se ci si limita a un aspetto di questa operatività, la regolazione della distanza, che richiama le categorie esposte sopra dell'esperienza e della riflessione, del contatto e della lontananza, si può dire che tali configurazioni permettono continuamente di saltare, per usare i concetti di Adolf von Hildebrand, dalla «visione da vicino» alla «visione da lontano».16 Questo movimento può avvenire anche attraverso strumenti specifici, come lo zoom, ma si produce soprattutto in senso lato: non solo è possibile allargare o restringere l'immagine, ma anche compiere operazioni su diversa scala. Come scriveva Richard Lanham, «A zooming session leaves the student of rhetoric with a renewed and expanded sense of how much basic decisions about reading, writing, and speaking have to do with scaling arguments, fitting them to time and place. Enlarging and diminishing them is the basic figure/ground decision that empowers human vision».17

La prima messa a punto tecnica di questa possibilità di cambio di scala, in realtà, così come l'identificazione dell'esigenza di manipolare l'immagine e al tempo stesso di tematizzare tale manipolazione, appartengono già ad altre arti. La fotografia ha reso possibile per così dire una forma «scritta» di riduzione e ingrandimento, laddove le lenti permettevano solo l'esperienza di un cambio di visione. Il cinema a sua volta si è costruito sopra questa potenzialità di mutamento dei piani, non nel senso di un'esaltazione della variabilità, ma come strumento di penetrazione multipla nel reale. E ha anche in un certo senso esibito questo aspetto, facendone occasione di riflessione meta–cinematografica. Basti pensare a L'uomo con la macchina da presa di Dziga Vertov (1929), che è un esempio principe di una ristrutturazione metodologica dello sguardo, o a Blow–up (1967) di Michelangelo Antonioni, dove un fotografo si serve dell'ingrandimento, del ritaglio, della copia – operazioni ereditate poi dalle tecnologie digitali – per cercare di risolvere un giallo. Qui la possibilità tecnica dell'ingrandimento trova una sua composizione narrativa, viene configurata come modello di ricerca della verità fuori dall'esperienza. È un tentativo di simulazione (medializzazione) e straniamento controllato, per così dire, dell'esperienza. In Antonioni, se si vuole, si esprime un punto di crisi, dove alla fine quel che risalta è la distanza tra l'individuo e il frangersi – l'esplodere – del reale/immagine. Il giallo, a pensarci bene, ha spesso comportato il problema di come raffigurare l'enigma, di come fare i conti con l'addensamento pittorico della scena del delitto, da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957) a Profondo rosso (1970).18
Quel che voglio rilevare qui, però, è che nel film di Antonioni, così come anche nel film di Vertov, si comincia a mostrare con chiarezza un passaggio dalla rappresentazione alla manipolazione esplorativa. In altre parole sembra che ci sia il tentativo di passare dal laboratorio, che del resto è mostrato (la camera oscura) in entrambi i film, alla ricerca sul campo. Ovvero l'immagine non è già più simulacro, né tanto meno mimesi, e tuttavia si intravede, oltre la crisi, un cambiamento profondo del suo rapporto con la parola, con la narrazione e con le cose. Siamo lontani dalle epifanie primonovecentesche, alle quali bene o male sottostava una «fiducia nella iconicità della lingua e nel primato ontologico della percezione»,19 ma anche dal mondo che «semplicemente è» e «rende lo sguardo» di Alain Robbe–Grillet.20 Qui si prepara una forma di «saggio del reale», di uso della distanza, che non si propone più di trovare un adeguamento tra estetica e intelleggibilità del mondo, né, d'altra parte, si limita a registrare la «massa impenetrabile della realtà»;21 bensì si preoccupa di incorporare dei pezzi del fuori, di riscriverli, in un certo senso, e agirli. C'è molto del gioco, ma proprio del gioco digitale come lo conosciamo oggi, del sunnominato videogame.
Eppure tutto ciò è anche debitore di certe incrinature, di certe articolazioni moderniste, come pure di una certa educazione all'uso della superficie. Basti pensare a Lily Briscoe in To the Lighthouse di Virginia Woolf,22 il cui ruolo sembra, di là da una garanzia di visione estetica che compone e illumina, quello di sperimentare una combinatoria di forme significanti e non significanti, una reversibilità di sfondo e primo piano. Dall'altro versante, la stessa fotografia può essere intesa proprio come uno sguardo reso dal mondo, un reale che viene assimilato alla finzione, più che una finzione che si adegua al reale.

E tuttavia non c'è solo questo aspetto. C'è anche qualcosa di questo gioco ridistributivo e manipolatorio che riguarda un fattore temporale, la molteplicità degli stati e la loro rappresentazione simultanea. Anche questo aspetto nasce, come ha mostrato Ian Hacking,23 con la fotografia. Nel 1885 Charcot e i suoi allievi documentarono fotograficamente i diversi «stati di personalità» di un paziente «isterico», ponendo i presupposti per la costruzione della categoria clinica di «personalità multipla».24 Ora, non è tanto l'episodio in sé, riprodotto poi in ogni circostanza quotidiana dalle masse dei fotografi a venire, che conta, ma le sue conseguenze sul modo di concepire l'identità. Forse è prevalsa una visuale conflittuale o dialettica della dissociazione del soggetto, passante obbligatoriamente per Freud, ma qui si assiste alla «riscrittura» simultanea di stati incompatibili, una ricomposizione di intervalli e di manifestazioni. C'è una rottura della narratività che permette una molteplicità di ricomposizioni attraverso una combinatoria, che però non aspira alla ricombinabilità infinita, bensì pretende un aggancio con il reale. Qui abbiamo un primo esempio di «filologia degli stati», che per altri versi avrà un suo pieno sviluppo con le tecnologie diagnostiche, dall'elettroencefalogramma all'ecografia, dalla radiografia alla TAC. Ma ora preme rilevare un altro aspetto dell'episodio ricordato da Hacking. Nel documentare la personalità multipla del paziente gli si richiede, suo malgrado, quasi una prestazione da attore. Ed egli, di fatto, «posa» per i fotografi. Ne rimane una molteplicità di maschere, un «io multiplo» e drammatico che sospende la «favola dell'io», interpone interruzioni, pause e riconsiderazioni d'insieme a ogni scioglimento narrativo. Ogni maschera richiede, per così dire, di essere completata, si offre addirittura come manifestazione di una «personalità» da ricostruire sempre di nuovo nei suoi caratteri e nel suo ruolo. L'immagine è qui dunque una superficie da «approfondire», da porre a differenti distanze, e reca una propria intenzionalità.
Ora, se l'esperimento di Charcot offre il pretesto per mettere in relazione le nuove tecnologie «di rilevamento» (munite delle loro rappresentazioni sintetiche) e la drammatizzazione dell'identità, con le nuove tecnologie digitali il problema della configurazione simultanea di stati, ossia della resa su un medesimo piano di entità discrete e separate, offre la possibilità di qualche ulteriore considerazione sulla spazialità drammatica dell'ipertesto. Il motivo «viennese» della lontananza e della vicinanza, del tatto e della vista, ha avuto del resto un lungo corso, da Hildebrand a Riegl, a Benjamin, fino ad approdare, parzialmente rovesciato di segno, nel McLuhan della Galassia Gutenberg. Sarebbe interessante seguire le trasformazioni e le deformazioni di questo topos compiute da questi pensatori. Ma quello che qui interessa rilevare è l'aspetto del diverso grado di partecipazione del «visitatore», a seconda del tipo di rapporto (ottico o cinestetico) che si instaura con l'opera, con il manufatto o con l'ambiente, che tutti costoro non mancano di ridiscutere.

Se la pittura ha ciclicamente sperimentato le due dimensioni della vicinanza e della lontananza, e la prospettiva ne ha, in qualche modo, regolato i rapporti, l'ipertestualità sembra avere la capacità di teatralizzarle, di drammatizzare profondità e superficie. Già Roland Barthes, in un libro che è stato considerato giustamente – anche se con qualche generalizzazione eccessiva – un prototipo teorico dell'ipertestualità,25 affermava che: «I codici di rappresentazione esplodono oggi a vantaggio di uno spazio multiplo il cui modello non può più essere la pittura (il «quadretto») ma se mai il teatro (la scena), come aveva annunciato, o almeno desiderato, Mallarmé. E poi: se letteratura e pittura non vengono più prese in una riflessione gerarchica, una fungendo da retrovisore dell'altra, a che scopo renderle ancora come oggetti a un tempo solidali e separati, in una parola: classificati? Perché non annullare la loro differenza (puramente sostanziale)? Perché non rinunciare alla pluralità delle "arti", per meglio affermare quella dei "testi"?».26 Sembra una professione di strutturalismo dinamico, più che di post–strutturalismo, anche se sotto forma di una difesa delle «enunciazioni» nei confronti delle «discipline»; vorrei però soffermarmi per un altro momento sul rapporto con il teatro. In realtà nel campo della scrittura questo è un problema che riemerge ogni volta che la parola, al cospetto dell'immagine, acquista una sua autonomia figurativa, una sua presenza grafica, ed entra, come ha scritto Giovanni Pozzi, «in scena».27 O, viceversa, quando la trasparenza della grafia lineare viene interrotta dall'irruzione di «bizzarrie» figurative. Ma con particolare evidenza emerge là dove le enunciazioni e le figure acquistano una pari dignità, come nel caso della scrittura elettronica, e in particolare dove il visitatore diviene segno, e trova posto in questa con–figurazione. Non per nulla Brenda Laurel ha proposto, per quanto riguarda la «scena digitale», una teoria drammatica dell'interazione uomo/computer,28 dove esperienza e riflessione giocano sull'alternanza di questi differenti spazi scenici. Siamo di fronte, in ogni caso, a particolari configurazioni estetiche e discorsive in cui si produce una combinazione inedita di quelle che Wladyslaw Tatarkiewicz chiamava «forma–composizione» e «forma–aspetto».29 Si tratta di un punto cruciale forse non soltanto per la storia dell'estetica: l'idea di «forma–composizione», sviluppatasi in particolare nell'ambito delle arti visive, ha a che fare con il rapporto insieme–parti più che con l'opposizione forma–contenuto, che invece contraddistingue la «forma–aspetto». Le poetiche novecentesche hanno particolarmente trascurato la composizione, privilegiando invece il significato o, viceversa, il significante. Tuttavia questa funzione «compositiva» che, almeno fino alla fine dell'Ottocento, era svolta forse con più efficacia dalle arti figurative, sembra ora ritornare al centro della nuova discorsività architettonica tipica delle nuove tecnologie. Il compito è arduo: si tratta forse di ricomporre senza unificare, senza sistematizzare e senza concludere. Si tratta di ridare sempre di nuovo all'individuo una parte di questo compito ricostruttivo, ovvero dare spazio alla sua responsabilità autoriale, attiva e pubblica. Comunque sia, ogni discorsività futura rischierà di urtare continuamente la nostra sensibilità ironica, e sarà costretta a mostrare, come antidoto, la compresenza – forse versione aggiornata, meta–ironica, del pirandelliano sentimento del contrario. Eppure tale discorsività sembra in grado di ricomporre in modo non prospettico (vale a dire che non definisca sfondo e primo piano in modo stabile), in modo non meramente e rigidamente gerarchico (che non stabilisca distinzioni semplici tra alto e basso), in modo non naturalistico (bensì simulatorio), in modo che sia conservata e mostrata la pluralità anche incommensurabile, in modo che non sia perduta la memoria (che ne sia fatta una virtù potenziale), in modo che non sia perduta l'aderenza al mondo delle cose (che mantenga serenamente una vocazione etero–refereferenziale e sperimentale), e tante altre cose senza le quali difficilmente la potremmo accettare. La spazialità virtuale architettonica dello schermo digitale e delle reti, al tempo stesso «ottica» e «aptica», sembra essere adatta a questo compito. Qui la scrittura si predispone a una drammatizzazione ripercorribile, si potrebbe dire, che la discorsività umana non ha forse mai conosciuto.

 

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Giugno 2001, n. 1


 

 

 

 

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