Elisabetta Baccarani
Tozzi e gli aforismi delle Barche capovolte

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Sommario
I.   Gli aforismi in Tozzi
II.  Apetti diaristici
III. Scritture dell'io
IV. Il passato, il sogno
V.  Vita dell'anima
VI. Barche capovolte


§ II. Apetti diaristici

I. Gli aforismi in Tozzi

La denominazione di «aforismi», che Tozzi stesso ha scelto per Barche capovolte, lascerà forse perplesso chi si avvicini al testo scortato dall'idea comune, correntemente diffusa, di aforisma. D'altro lato, mentre questi aforismi rimandano, attraverso vari segnali, anche ad altri generi letterari (e dirò subito che è con alcuni aspetti del diario che intendo confrontare Barche capovolte), in altri luoghi dell'opera di Tozzi - non molti, per la verità - accade di incontrare e individuare a colpo sicuro aforismi riconoscibili come esemplari decisamente più canonici.
Se la scrittura aforistica, essenziale e scabra, è scrittura che condensa e concentra, che pesa, soppesa e tira le somme, che astrae, scarta, sgrossa e lima finché termina in punta (o si fa circolo come una sassata nell'acqua - è un'immagine di Bruno Barilli -, o si chiude a riccio, come voleva Friedrich Schlegel); se l'aforisma è conciso perché ha deciso, perché, ligio alla propria etimologia, traccia limiti e confini, indica orizzonti e racchiude in serrate geometrie verbali,1 allora gli aforismi di Tozzi non sono molti e, in ogni caso, vanno probabilmente cercati anche fuori da Barche capovolte. Ne troviamo, per esempio, fra le ultime Persone («Quando m'è venuta voglia di morire, allora ho vissuto più intensamente»), fra gli abbozzi di Adele, in Paolo e nella novella In campagna («Noi soffriamo per la vita che ci è mancata»), dove però non appartengono alla voce del narratore. Compaiono infatti nelle pagine di diario che il protagonista Guglielmo redige perché vuole «analizzare la sua vita, scrivendo quello che prova».
Ma l'aforisma, rispetto all'idea comune che normalmente lo individua e che ho cercato di descrivere per sommi capi, è anche altro, ha molti modi e tipi.
Secondo Gino Ruozzi, in Barche capovolte Tozzi si attiene quasi esclusivamente al modello della riflessione.2 Ed è vero: pur non mancando l'impiego di altri modelli (la definizione e l'affermazione, per esempio, ma anche l'enigma; e c'è perfino un dialogo inconfondibilmente zarathustriano), molti aforismi hanno l'estensione più ampia propria del pensiero, della riflessione, appunto, e si sviluppano in forma di ragionamento, più o meno breve, a partire da un'asserzione iniziale.
Al configurarsi degli aforismi come riflessioni contribuisce senz'altro il fatto che Barche capovolte è l'opera in cui Tozzi «ricorre alla cultura».3 Non, però, nei modi della citazione esplicita né in quelli dell'allusività (dell'intertestualità e del pastiche), che saranno invece pratica costante degli aforisti novecenteschi. La cultura, in Barche capovolte, passa come imitazione ed emulazione, almeno per ciò che concerne la componente che chiameremo sommariamente simbolistico-dannunziana, sulla quale tuttavia - così come sul debito contratto da Tozzi, per linguaggio e immagini, con gli autori mistici - si è già scritto in abbondanza. Più delicato è, a mio parere, il problema di come agisca la lettura di Nietzsche, in Barche capovolte e altrove: una volta rintracciate immagini ed intonazioni di provenienza nietzscheana (lavoro compiuto con intuito raffinato da Marco Marchi - ma già qualche anno prima Alberto Bertoni aveva indicato quella strada),4 bisognerebbe vedere dove si tratta di assunzione pacifica e dove, probabilmente, di consapevole ribaltamento di senso. Ma il discorso ci porterebbe troppo lontano.
Infine, la componente culturale che più di altre fa di Barche capovolte una raccolta di riflessioni è senza dubbio quella costituita dai testi di psicologia (come risulta anche dall'aforisma conclusivo dell'opera, in cui Tozzi la definisce, appunto, un «libro di psicologia»). E per le letture psicologiche, alle quali l'autore si dedica, avidamente e forse un po' disordinatamente, fin dai primissimi anni del secolo, rinvio alle preziose ricerche intorno alla «biblioteca di Tozzi» effettuate, di nuovo, da Marco Marchi.5
Tuttavia, anche sull'opportunità di assegnare a Barche capovolte l'etichetta di «riflessioni» - lo stesso Ruozzi ne è ben consapevole - si potrà avanzare qualche riserva. E questo perché alla conoscenza del reale Tozzi sembra pervenire non tanto attraverso la capacità di analisi razionale, quanto nei modi di una partecipazione violentemente emotiva ad esso (Tozzi non conosce il distacco dal mondo che è proprio di molti scrittori di aforismi). Accade allora che il «linguaggio fluido e disteso»6 in cui la riflessione dovrebbe scorrere, di fatto, non si distende che per brevissimi tratti; e se nella maggior parte di Barche capovolte è assente la tensione che, in aforismi più canonici, ha origine dalla concentrazione estrema, dalla struttura antitetica del pensiero e delle forme, l'assenza di questa tensione viene però compensata da una tensione diversa, una forte tensione lirica, che si libera in una retorica dove analogie, similitudini e metafore hanno il predominio assoluto. In questo modo, la scrittura aforistica di Tozzi, estranea ad ogni procedere di carattere argomentativo, così come ai ritmi spiegati, al respiro più largo del taglio saggistico, si mostra alla fine non del tutto riducibile nemmeno al modello della riflessione e, come giustamente dice Ruozzi, si avvicina forse a quello della prosa lirica.7

 

§ III. Scritture dell'io Torna al sommario dell'articolo

II. Apetti diaristici

Mettendo ora da parte la questione relativa al particolare tipo di cui, entro il genere vasto e vario dell'aforisma, le Barche capovolte si possano considerare rappresentative, vorrei fermarmi su alcune osservazioni di Andrea Battistini intorno alla «simbiosi» di aforisma e di diario. L'aforisma, scrive Battistini, è un

genere letterario che bene si sposa con il diario, per essere entrambi appuntati sull'interiorità dell'uomo, sulla coscienza individuale, sui problemi personali dell'esistere. Con la loro simbiosi si bilanciano le remore moralistiche contro chi, mettendosi in mostra col parlare di sé, è esposto al peccato della vanagloria. Il procedimento aforistico interviene allora a sublimare le tendenze troppo particolaristiche, perché per un verso è il prodotto dell'osservazione empirica […], ma poi il distillato che se ne ricava viene presentato in forma universale.

Ancora, dice Battistini a proposito di Bruno Barilli,

la brevità imposta dall'aforisma garantisce contegno, prudenza, reticenza, bloccando sul nascere ogni indugio sull'effusione. In altri termini, la massima economia verbale genera la virtù del pudore.8

Ora, per quanto riguarda Barche capovolte, va constatato che il meccanismo di sublimazione del particolare in universale qualche volta, sì, funziona, ma si tratta probabilmente degli aforismi peggio riusciti. Va constatato, inoltre, che gli spunti teorici offerti dalla psicologia prefreudiana non di rado si smagliano, e lasciano filtrare le effusioni di un io che meno prudente, meno reticente e meno pudico non potrebbe essere. In gran parte delle brevi prose, poi, il modo oggettivo e la forma impersonale si intrecciano con un discorso soggettivo (a volte intimistico) e personale, anche nella grammatica. «L'anima» diventa facilmente «la mia anima», «la volontà» è «la mia volontà», e via di seguito.
Non intendo con questo - sia detto a scanso di equivoci - proporre una lettura di Barche capovolte come diario intimo. Intendo invece individuare alcuni punti di contatto fra questi aforismi e certi aspetti della scrittura diaristica e, al tempo stesso, mettere in luce che il Tozzi di Barche capovolte (siamo, lo ricordo, all'incirca tra il 1910 e il 1911), mentre legge William James, Théodule-Armand Ribot e Pierre Janet, sta intanto facendo i conti con il suo problema della «vita interiore» e con un materiale autobiografico che, alla fine, come è stato sostenuto, riuscirà a trasformare nel suo punto di forza. E, nel fare i conti con il suo problema autobiografico, fa anche i conti con il problema del genere letterario: al 1910 risalgono - oltre a questi particolarissimi aforismi - la novella In campagna (che contiene, come ho già accennato, il diario del protagonista, e che è racconto contesto di materiali autobiografici) e il primo nucleo del romanzo-diario Ricordi di un impiegato.
Barche capovolte, dicevo - e fra breve lo vedremo meglio - presenta alcune caratteristiche che richiamano il genere del diario. Ma soprattutto colpisce il fatto che - siano affidati all'«io» o a un «si» impersonale credibile ora più ora meno - i contenuti più significativi (gli stati dell'animo e quelli della mente, le luci della coscienza e le ombre dell'anima, le illuminazioni e le ossessioni della memoria), in questo Tozzi definito da qualcuno «irriconoscibile»,9 sono in parte gli stessi del diario del giovane impiegato Leopoldo, oltre a trovarsi nel coevo racconto In campagna. Sarà poi opportuno ricordare, parallelamente, che Tozzi non tenne mai un «diario puro»: annotava freneticamente osservazioni, impressioni, bozzetti su taccuini e quaderni, ma di diario vero e proprio non si può parlare se non per poche cartelle risalenti ai primi anni del periodo romano. Il diario in quanto tale, allora, pare non essere congeniale a Tozzi. Egli trova praticabile, invece, il diario interno alla finzione narrativa (In campagna) e, soprattutto, il romanzo in forma di diario (il diario che coincide con la finzione narrativa), se l'elaborazione dei Ricordi copre, a più riprese, un intero decennio.

Il diario - dice Blanchot -, oltre al vincolo formale imprescindibile del calendario, dell'appuntamento quotidiano con la scrittura, ha come esigenza fondamentale la sincerità: «Nessuno più di chi scrive un diario è tenuto a essere sincero». Inoltre, sostiene il filosofo, «il diario è legato alla strana persuasione che sia possibile osservarsi e che bisogna conoscersi».10 Leggiamo allora, tenendo conto delle parole di Blanchot, qualcuno degli aforismi di Tozzi: il penultimo innanzitutto, dove Tozzi dichiara la possibilità per ciascun uomo di comprendere quello che avviene in se stesso prestando la dovuta attenzione al prepararsi degli eventi interiori, e, subito dopo, quello intitolato Sincerità, importante per le indicazioni metatestuali che contiene:

Ciascun uomo comprende sé stesso. Egli solo può sapere bene di quel che gli è avvenuto.
E nessuno stato mentale può sfuggire alla necessità onde è stato tratto.
Molte volte ci meravigliamo di quel che troviamo in noi, perché non avevamo prestato attenzione al suo prepararsi […] (Il passato dinanzi al presente)
Voglio descrivere l'anima quale è quotidianamente. Non voglio adoperare nessuna mistura. Quando scrivo, l'anima, senza sospendere il suo lavoro segreto, permette a me di osservarla. (Sincerità)

Scrivere consente a Tozzi di guardare la propria anima come altro da sé, di assumerla, da un punto di vista impersonale, come oggetto di studio - come fosse l'anima di un altro - se, all'inizio dell'aforisma Sincerità, egli dice «voglio descrivere l'anima», non già «la mia anima». Varrà la pena, a questo proposito, ricordare alcune parole di Amiel intorno alla «puissance d'objectivation» che caratterizza il diario intimo: «le journal intime me dépersonnalise tellement que je suis pour moi un autre». I propri «stati anteriori», le proprie «configurazioni e metamorfosi» - secondo Amiel - diventano, per chi scrive un diario, «objets … de contemplations ou d'étude».11

Vediamo infine una parte dell'ultimo aforisma di Barche capovolte, intitolato Conclusione:

Io non so se ho scritto soltanto per me o anche per altrui. Ma un libro di psicologia non può avere alcuna conclusione, perché deve essere l'analisi minuziosa e ininterrotta di quel che avviene in noi.
Molte volte mi sono accontentato di un ramicello fiorito per tagliarmi una siringa, con la quale ho detto tutto quel che ho provato.

Ritroviamo qui la dichiarazione di aver messo sinceramente l'anima a nudo, e di averlo fatto, però, quasi con volontà sistematica, secondo un procedimento di «analisi minuziosa e ininterrotta» effettuata dicendo «tutto quello che si è provato». Procedimento che ricorda molto da vicino la motivazione fornita ai lettori dal narratore di In campagna quando inserisce nella novella il diario del protagonista (quindici pagine minuziosissime e ininterrotte, un terzo esatto della novella, che molto somigliano, sotto certi aspetti, ai taccuini dello stesso Tozzi): «Guglielmo volle analizzare la sua vita, scrivendo quel che provava». Bisognerà chiedersi, a questo punto, se il tentativo di «tenere aggiornato il ruolino di marcia dell'esperienza più oscura» - così si esprime ironizzando Blanchot - alla fine, per Tozzi, funzioni, e in che modo.
Gli aforismi delle Barche capovolte, il romanzo-diario di Federico-Leopoldo e il diario incorniciato in novella di Federico-Guglielmo sono legati - parafrasando Tozzi aforista - dal proposito di leggere le pagine dell'anima, di «interpretarla» (Disattenzione) e di determinare la sua «composizione» (Il destino), di scandagliare il profondo indagando gli stati mentali ed emozionali; di interrogarsi sulla coscienza, che Tozzi, in questo modernissimo, non considera più «forza attiva» ma «effetto», e per giunta «impotente» (La coscienza). Muove questo lavoro la volontà di «trovare la regola per l'assestamento definitivo di questo spirito, che ha patito così tanti danni» (Io non so quel che porto). Quanto al modo in cui l'indagine viene compiuta, comune ai tre casi è l'osservazione attenta della vita interiore, l'auscultazione dell'io attuata attraverso il filtro distanziante e oggettivante della scrittura. In Barche capovolte, ciò si coniuga con un tentativo di analisi razionale per la quale l'autore si avvale del supporto di strumenti culturali usati con capacità di assimilazione e rielaborazione ora maggiore ora minore: Barche capovolte vuole essere anche un «libro di psicologia» e il cosiddetto velo simbolista non vela proprio nulla delle parti scopertamente e volutamente teoriche, scientifiche. Nei Ricordi e nel diario di In campagna, invece, alla trascrizione della vita interiore si affianca l'annotazione della vita esterna, delle cose e delle persone, dei rapporti, degli eventi e dei fatti: fatti dei quali, rispetto all'importanza che assumono nella nostra vita interiore, esiste solo la durata dell'attenzione che diamo loro (giusta l'aforisma intitolato Presso le luci).

 

§ IV. Il passato, il sogno Torna al sommario dell'articolo

III. Scritture dell'io

Battistini osserva, citando Elias Canetti, che la scrittura del diario avvolge ostinatamente sempre e soltanto l'io, ed è «scandita sempre sulle stesse ossessioni, sugli stessi tormenti personali».12 Ora, il tormento personale di Tozzi aforista e diarista si chiama passato, e all'ossessione del passato13 è legato, nei modi che mi propongo ora di esaminare, l'altro tema fondamentale, quello dell'anima immobile, della paralisi interiore e della rinuncia.
Il nucleo più vitale di Barche capovolte, quello attraverso il quale l'opera, rispetto all'insieme degli scritti di Tozzi, guarda anche avanti e non solo indietro - non solo a Paolo e a Adele - è costituito, a mio parare, proprio dal dramma autobiografico del passato che immobilizza, del passato da decifrare o da dimenticare, dal dramma del ricordare e del cancellare, della volontà di vivere e agire e della continua rinuncia. è questo aspetto degli aforismi che trova espressione compiuta nel romanzo-diario-autobiografia Ricordi di un impiegato, il quale porta un titolo tutt'altro che pacifico e neutro, se ad essere poi affrontato come problema, nelle pagine del romanzo, è, fra l'altro, proprio il meccanismo stesso del ricordo. Ed è, allora, questa vena fertile che varrà la pena di «salvare» in Barche capovolte, anziché concentrarsi ora sul «dannunzianesimo di bassa lega» (per usare un'espressione che Annamaria Cavalli Pasini, molto opportunamente, ha adoperato per Adele),14 sul misticismo languido e sul nietzscheanesimo esteriore, ora su ciò che l'indagine dell'inconscio di stampo tardopositivistico-prefreudiano, per certi versi sorprendentemente lucida, ha di esibita teoria; su ciò che, fra tante immagini di grande energia poetica, è sfoggio di aggiornate nozioni psicologiche fresche di manuale.

Se si volessero schematicamente organizzare i temi cui ho accennato in una traccia che valga ad orientare una possibile lettura di Barche capovolte, si potrebbe considerare il tema dell'anima come necessariamente determinata dal passato. È utile allora - possiamo domandarci - per comprendere l'anima com'è allo stato attuale, custodire il passato, farne «ricordi»? Il passato, è vero, ci determina e ci spiega, ma, al tempo stesso, si proietta su di noi come un'ombra tragica e pesante. Il passato ci trattiene nel rimorso, nel pensiero di ciò che non abbiamo fatto, di ciò che poteva essere e non è stato, e, intanto, ci impedisce di guardare davanti a noi, di trasformare il progetto in lavoro; spezza le nostre energie, rende inerte la nostra volontà: e allora è immobilità, è paralisi.
Ed è desiderio di dimenticare il passato, desiderio ossessivo almeno quanto il passato stesso, perché se l'anima insiste nel voltarsi a guardare indietro, il danno è maggiore (Le ombre tragiche). Al tempo stesso, l'impulso a indagare la vita interiore con gli strumenti della coscienza e della volontà viene frenato da sorprendenti risoluzioni a «non adoperare troppo in fretta la coscienza, la quale è come una spada che taglia ovunque la volgiamo» e a «non fare che aperture troppo grandi si producano in noi» (Contentezza di sé), a "non guardare mai troppo dentro noi stessi" (La sapienza): «l'anima, molte volte, ha paura della propria ombra» (L'ombra dell'anima). Il sogno stesso, il sonno, la dimensione onirica intesa letteralmente e in senso metaforico e lato, come si vedrà, viene a svolgere una funzione che potremmo definire di difesa, di rifugio e protezione, ed è conforme al bisogno di incanto dell'anima.15
C'è un aforisma il cui significato, nelle intenzioni di Tozzi, è evidentemente metaforico, ma che, preso alla lettera, sembra toccare nel vivo il problema di una scrittura legata al rimuginare insistente e vano su se stessi:

Badate di non scrivere la vostra vita sopra le pagine di un libro caduco. Poi che molte volte dobbiamo abbandonare quello che avevamo ottenuto con tutti i nostri sforzi. Anzi, molte volte non sappiamo né meno leggere quello che avevamo scritto noi stessi.
Vi sono lontananze interiori, in cui è vano l'indugiarsi. Vi sono superfici non consistenti. (Il libro caduco)

Tenendo conto del fatto che, sotto certi aspetti, il genere del rimuginare è per eccellenza il diario (e ricordando intanto, però, che il diario dei Ricordi è un romanzo in forma di diario, dove ciò che conta, rispetto al problema della comprensione di sé, non è l'annotare contemporaneo al vivere e all'accadere - come per Guglielmo di In campagna - ma l'irruzione spontanea del ricordo da cui partire per ricostruire il passato: la memoria involontaria, insomma), giungono ancora a proposito alcune osservazioni di Blanchot su diario intimo e racconto:

La singolarità di questa forma ibrida [il diario], apparentemente così facile, compiacente, irritante a volte per la compiaciuta ruminazione di se stessi che essa consente […], è che si tratta di una trappola. […]Si scrive per ricordarsi di sé, ma, dice Julien Green: «io mi immaginavo che le mie note avrebbero ravvivato in me il ricordo del resto, di tutto il resto… ma oggi non restano che delle frasi affrettate e insufficienti che mi danno della vita passata solo un riflesso illusorio». Alla fine dunque, non si è né vissuto né scritto, doppio fallimento, a partire dal quale il diario ritrova la sua tensione e la sua gravità.

È interessante, in particolare, la nota che Blanchot appone alle ultime battute trascritte:

Chi, più di Proust, desidera ricordarsi di sé? Per questo non c'è scrittore più lontano dall'annotare giorno per giorno la propria vita. Chi vuole ricordare deve affidarsi all'oblio, al rischio del buio assoluto e a quel singolare caso che diventa, allora, il ricordo.16

Proprio questo è ciò che accade in Tozzi: infatti, è proprio l'insistenza spontanea di alcuni ricordi a produrre vere illuminazioni, aperture inattese da cui muovere per decifrare il passato, e può verificarsi che in meno di un'ora si acquisti «coscienza di quasi cinque anni della propria giovinezza, che si sentiva perduta per sempre» (Persone,p. 68). Sarebbe d'obbligo, a questo punto, rileggere la famosa pagina dei Ricordi di un impiegato (datata 18 marzo) sui «ricordi che avrebbero la pretesa di essere considerati da più di quel che siano», che hanno importanza non di per sé, ma perché «cercano di accomodarsi a certi stati d'animo che mi vengono adesso. Sono direi, come rispondenze simboliche: scherzi inutili del passato, senza né meno che mi venga in mente d'andare proprio io a buttarlo all'aria». Il resto è storia nota: è quella narrata da Debenedetti nelle pagine del Romanzo del novecento sulla memoria che - cito letteralmente, abbreviando - si presenta a Tozzi come memento, come l'ingiunzione di un esattore per il debito insoluto verso le cose accadute senza che ancora ne sia stato trovato il senso. Oppure, la storia di Tozzi che è fatto narratore proprio dalla sua incapacità costituzionale di assimilare il passato. É, infine, la storia narrata da Debenedetti, commentatore degli Egoisti, sull'ispirazione artistica in quanto alimentata dalla memoria e dall'assillo dei ricordi.17

 

§ V. Vita dell'anima Torna al sommario dell'articolo

IV. Il passato, il sogno

Nel seguire questo tema del passato inassimilabile, vorrei ora procedere accostando alcuni passi tratti dai Ricordi di un impiegato, dalla novella In campagna e dagli aforismi di Barche capovolte.

Quando penso che io sono fatto di tante strisce che corrispondono ad altrettanti giorni, mi domando se esisto io o le cose che ora ho dinanzi agli occhi. E mi domando cosa significa vivere. (Ricordi di un impiegato)
La nostra vita passata è come un sogno, col quale l'anima è in comunicazione. […] Nessuna influenza ha per me. Ma io riconosco da lei tutto il mio presente. (In campagna)
L'anima può confortarsi da sé stessa.
Molte delle sue determinazioni, anche quelle che sembrano improvvise, hanno le radici nei recessi del passato. (Il futuro dei diademi)

Accanto alla lucida consapevolezza che il passato ci «costituisce», ci determina, si manifesta il bisogno ossessivo di dimenticarlo, di staccarsene come da ciò che copre ed opprime l'anima, che le impedisce di salpare alla conquista di nuovi territori e di creare lei stessa il mondo (per esprimerci con due immagini del Tozzi lettore di Nietzsche): «Perché dunque, - si domanda Leopoldo nei Ricordi - io non potrò mai dimenticare i miei anni passati; che si sono sparsi come muschio sopra le pietre?» Poco dopo, Leopoldo si abbandona ad uno stato onirico di armonia perfetta con la natura e totale oblio della realtà, che commenta dicendo: «Mi sentivo tanto contento di essere solo, e non mi ricordavo affatto di niente». Qualche pagina più avanti, concluderà alcune riflessioni sui temi del pentimento, del rimpianto e del rimorso auspicando, per sé, che le giornate finiscano presto e attraversino «senza lasciarvi il segno, lo spessore della sua giovinezza».
In Barche capovolte, poi, gli inviti rivolti all'anima affinché non indugi fra i ricordi si incontrano ad apertura di pagina («conviene - secondo una bella immagine del poema in prosa Paolo - essere come i cristalli, che non ritengon niente di quel che hanno riflettuto»):

Tutto il mio sforzo è questo: dimenticare il passato. (Il passato)
Io insisto nel dire che l'anima non deve occuparsi dei ricordi.
Che cosa facciamo sotto l'ombra malefica di un ricordo? Non viviamo veramente; ma è come se il nostro io tornasse sui suoi passi. […]Bisogna sbandare tutti i ricordi. (Le rimembranze)

L'anima, invischiata nel proprio passato, è al contempo trattenuta in una dimensione onirica e separata dal quotidiano, se ne sta raccolta in un rifugio dove estasi e visioni, pensieri, immagini e sogni la dominano e la proteggono dal mondo. E c'è per Tozzi - e lo si trova espresso con grande consapevolezza e chiarezza - uno stretto rapporto fra gli elementi del sogno e il passato che ritorna nel rimpianto delle cose non fatte, nella nostalgia di ciò che non è stato; questi sentimenti di nostalgia e rimpianto sono suscitati da ciò che Tozzi chiama i «ritardamenti». I «ritardamenti» sono le «feste interiori» che arrivano troppo tardi, come gli scopi che si presentano quando ormai non volevamo più raggiungerli. Sono «fuochi di stoppia», perché «l'anima vi sente tutte le sue stanchezze, i suoi tentativi non proseguiti». Ma - dice Tozzi - «come giudicare di quel che non abbiamo fatto?» è meglio che questi ritardamenti «si mescolino agli elementi del sogno, cioè a quella parte di noi stessi la quale sta separata dalle attività quotidiane». (Ritardamenti)
Nel racconto In campagna, Guglielmo annota sul diario: «Non so bene di che io sia annoiato; ma bisognerebbe, forse, che la mia anima non sognasse più invano»; mentre nei Ricordi di un impiegato, il passato che Leopoldo dichiara di dover ritrovare e superare è un passato di separatezza ed estraneità rispetto al reale quotidiano e diurno:

E dovevo convincermi, subito, per intuizione, che il mio sentimento si era sviluppato soltanto in sogni ed in estasi; che non avevano niente a che fare con l'esistenza che dovevo condurre.

Una condizione analoga è descritta nell'aforisma intitolato Effetti:

A volte io sento che una parte della mia anima è incantata. Qualche parte migliore in me è come illuminata da una luce speciale, che non si comunica alle rimanenti. è come se io assistessi a una festa interiore, senza che io fossi chiamato. è come se io vedessi i miei pensieri innalzarsi a guisa dei fuochi pirotecnici, e girare sempre in un luogo medesimo.

E riguardo alla dimensione onirica come possibile dimora dell'anima, riguardo al sogno e al sonno stesso, investito di una funzione quasi difensiva e protettiva, le citazioni opportune sarebbero tante (soprattutto se volessimo allargare il discorso alle opere maggiori di Tozzi, a Con gli occhi chiusi e a Bestie):

Il sonno è necessario all'anima. Ma non crediamo che essa se ne stia inerte. Basterebbero i sogni a provare che qualche cosa avviene in essa. Siano pure i riflessi innumerevoli di cose avvenute, deve accadere un riposo o una pausa che prepara le stratificazioni resistenti al giorno susseguente. Se l'anima non producesse ogni notte quasi una corteccia protettrice, si noterebbero grandi difformità. (Barche capovolte, Il sonno)
Quando mi pigliava sonno, sentivo tutta la forza della mia vita. Io avevo fiducia nei miei sogni, che si facevano padroni di me; ed ero per entrare in un silenzio pieno di verità.
Ed io, piangendo, potevo dire alla mia giornata di già partita senza tornare, e lontana: soltanto ora la mia anima è soddisfatta. (Cose, 40)

Gravata dal passato, ferma a rimuginare, sospesa a sognare, l'anima diviene incapace di volere e di agire, inadatta a vivere (le anime - dice Tozzi nell'aforisma I pascoli ignoti - vengono assalite dalla vita «con modi che esse non si aspettavano», sono colte impreparate; «E, allora, avvengono le catastrofi irreparabili»):

E quante volte la mia anima s'è dovuta fermare! Non m'importava che il gallo cantasse; io non avevo dentro di me l'energia necessaria per espandermi. Dovevo attendere che gli impulsi impotenti se ne andassero via. (Impulsi)
L'immobilità è la cosa più dolorosa dell'anima. (Le esitazioni)
Se la mia anima dovesse velarsi, vorrei piuttosto sparire. E sembra che molte cose in me divengano inerti! C'è, talvolta, come una massa di materiali che si sono fatti solidi, ingombrando il mio piccolo orizzonte. Il quale si richiude.
Sento, di là da questi materiali, tante voci che mi chiamano; e non mi posso muovere.
[…]Sono sotto l'incubo di una inibizione perpetua.
[…]Devo guardare tutto questo movimento di uomini che salgono le scale per accendere i fanali; devo vedere camminare dinanzi a me e presso, senza che questa vita mi appartenga. (Tedio)

(Qui occorrerebbe dedicare alcune parole ad un altro tema centrale in Tozzi, quello della sua barca arenata, ferma a riva, e delle barche altrui che egli vede navigare al largo; basta pensare al Leopoldo sempre escluso, mai partecipe a nulla dei Ricordi di un impiegato).

 

§ VI. Barche capovolte Torna al sommario dell'articolo

V. Vita dell'anima

Il dramma dell'immobilità, la paralisi dell'anima, sortisce, almeno, due diversi effetti. C'è, da un lato, la sofferente consapevolezza di una esistenza fatta di esitazioni e rinunce, di occasioni mancate e percorsi interrotti, di treni persi e di arrivi in ritardo agli appuntamenti con la vita:18

Che cos'è la preoccupazione? è la stanchezza dell'anima. Da ogni parte l'anima è per cadere e non cade.
Voi sentite bene che siete impacciati, non sapete scegliere o non sapete quel che sia per accadere.
Non solo non potete prendere una determinazione, ma è necessario che attendiate.
Da ogni parte dell'anima affluiscono le impossibilità; ogni sforzo quando voglia opporsi, perde la sua punta. Anzi, gli sforzi divengono le impossibilità. (Preoccupazione)
Sento che la mia anima ha rinunciato a qualche cosa, non compiendo il movimento iniziato. Sembra come una vela ripiegata, che i venti sfiorano in vano. E le rinunce mi attediano; a poco a poco il mio spirito si capovolge, attratto nell'oblio.
[…]Quante dispersioni!
Ed ora la mia anima cerca un adattamento, un sogno più intenso. Le rinunce sono informi; non sappiamo se si sarebbero aperte da vero, per farne uscire la farfalla.
[…]Alcune volte, acquistano un fascino strano. Ma è impossibile esaminarle. Si disfano inutilmente.
Una rinuncia potrebbe essere l'abbozzo di un regno, ma anche la sterilità di un deserto […]. (Le rinunce)

Ma l'immobilità dell'anima, la paralisi della volontà, produce parallelamente, come dicevo, un esito diverso. Viene a crearsi, cioè, una specie di mito compensatore (e legittimante) che di difetto fa virtù, rivestendo tutto ciò che rimane incompiuto del fascino dell'indefinito (o dell'«indeterminato», per usare un aggettivo caro a Tozzi), e a ciò che resta incompiuto si guarda non più per quello che non è stato ma per la riserva di possibilità che avrebbe costituito. Si preferiscono, allora, le cose che devono ancora nascere rispetto a quelle già nate, le cose incominciate e poi lasciate perdere rispetto a quelle portate a termine:

Oh, di quante cose cominciate io mi ricordo, le quali non ho voluto proseguire! E così ho fatto, perché l'anima aveva bisogno di averle incompiute.
Io credo che molti di noi in sé trovino queste imperfezioni.
Ma che varrebbe portarle a compimento?
Molti stati mentali sono quasi come larve; molti pensieri han bisogno di non uscire dal loro segreto.
Si ha piacere che l'anima è capace di questi iniziamenti; onde si dà più valore alle che cose che per noi sarebbero state soltanto possibili. è come un argomento per provare la nostra abilità.
Io le chiamerei primavere eterne.
Tutte queste energie, raccolte e non consumate, ci consolano. (Le cose cominciate)
A me piacciono più le cose che sono per nascere che quelle già mature. (Le cose non nate)

L'«inerzia derivante dall'incapacità di scelta» - dice Battistini rimandando a B. Didier - è propria di chi scrive un diario, genere la cui natura è «di per sé passiva» e induce «ad attribuire, nella scrittura, un atteggiamento, una coloritura di arrendevolezza anche ai suoi fruitori che nella vita reale attuano il decisionismo».19 Non ci stupiremo, allora, nel constatare che il personaggio-uomo e aforista, che una certa lettura di Barche capovolte sembra delineare (sotto le patine simbolistiche e dannunziane, sotto i veli cateriniani ed evangelici e sotto quelli nietzscheani più volte indicati dai critici), abbia molti tratti in comune con l'impiegato diarista Leopoldo, quale Debenedetti lo descriveva all'inizio degli anni Sessanta.
Leopoldo nasce «con una specie di inadattabilità»; un «misto di pudore e di passività, inerzia, infingardaggine, paralisi dell'iniziativa» gli impedisce di interagire normalmente con gli altri. E, benché giunga alla consapevolezza della sua inettitudine, «non arriva a tirare le conclusioni attive, capaci di portare rimedio». Confonde la propria debolezza con la bontà, pervenendo a «quegli aggiustamenti con se stessi che permettono, per esempio, ai nevrotici di coltivare la propria nevrosi». Sa che il suo vivere è un continuo rinunciare, un «mettersi fuori tiro», ma, invece di ovviare a «quei difetti di intraprendenza e incapacità di reagire, cerca di conservarsela, farsene bello, sfruttarla a fini moralistici di autoeducazione: "Ho quasi il desiderio di trovarmi a cose simili, per avvezzarmi a tutto"».
Leopoldo lascia che la propria «sterile e gratuita e infeconda immaginazione» si abbandoni a vuote fantasticherie e progetti inconsistenti, ai quali deve alla fine rinunciare. Egli «vuole senza un contenuto del proprio volere […]: le sue piccole, confuse, sbriciolate iniziative sono legate da una sola coerenza: quella di somigliarsi tutte, in quanto tutte sono sbaglio, scarto, arbitrio, capriccio, quasi del tutto ignare di una qualsiasi finalità che non sia la voglia istintiva di vivere, anzi di sopravvivere per una vita che non si ama». Perfino la fedeltà di Leopoldo ad Attilia «non è che un pretesto della sua ignavia», perché virtù e abnegazione «sono qualche cosa di attivo», mentre Leopoldo è incapace «di foggiarsi un destino che sia qualcosa di diverso dall'abulico e monotono ripetersi delle prove della sua inadattabilità»: nemmeno il trasferimento con cui si conclude il romanzo è sua iniziativa, giacché è il padre a farlo trasferire.20

 

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VI. Barche capovolte

Il trasferimento di questo figlio i cui destini vengono decisi dal padre ricorderà forse, al lettore di Tozzi, un altro trasferimento, un altro viaggio imposto da un padre ad un figlio. Mi riferisco a Adele, abbozzo di romanzo che impegna Tozzi fra il 1909 e il 1910 e di cui ci restano i frammenti pubblicati da Glauco. Nelle ultime pagine, Fabio, amante di Adele, si trova costretto a seguire il padre a Roma per un breve viaggio di lavoro al quale non vorrebbe prendere parte. Tozzi inserisce a questo punto - ma è uno dei brani che sul dattiloscritto si trovano espunti - una descrizione psicologica che potrebbe sicuramente adattarsi a Leopoldo e a certe situazioni di vita interiore che ritroviamo in Barche capovolte:

Fabio non avrebbe voluto accompagnare il babbo, ma egli era in quello stato d'animo passivo che lascia scorrere gli avvenimenti, subendoli con disagio, ma senza alcuna iniziativa d'opposizione. Soltanto si aspetta che questo malessere, quasi volontario, abbia termine presto a costo di qualsiasi cosa; ma si assomiglia a chi non ha più la forza di risalire onde inconsideratamente è disceso; e quel che occorre si aspetta che capiti, soffrendo molto intanto.

«Tale indolenza dolorosa», conclude Tozzi lettore di Janet, esibendo la cartella clinica del suo personaggio,21 «è un fenomeno di psicastenia». E «l'indolenza dolorosa» di Fabio, poche righe dopo, dove si narra dell'attraversamento del fiume Ombrone, trova il suo correlativo oggettivo in un'immagine che varrà la pena recuperare: «Essendoci poca acqua, emergeva uno strato di ghiaia asciutta, su la quale giaceva capovolta una barca sfondata».
Ma, naturalmente, questi sono ritorni normali all'interno del corpus di qualunque autore (le barche, poi, letterali e metaforiche, sono un vero e proprio leitmotiv del primo Tozzi, nel quale non di rado le immagini di navigazione, e quelle genericamente marine, sembrano intrattenere un dialogo fitto quanto poco scontato nei significati con i loro precedenti nietzscheani). Se ho voluto, concludendo, richiamare il titolo Barche capovolte, è invece perché non trovo del tutto condivisibile l'interpretazione data da Gino Ruozzi. Dopo aver descritto, in generale, la retorica dell'aforisma come basata principalmente sulle figure d'opposizione (antitesi, antimetabole, ossimori, chiasmi, contrapposizioni, paradossi), che vanno ovviamente di conserva con la componente ludica, di vero e proprio gioco linguistico, che è alla base dell'aforisma nelle sue forme più canoniche, Ruozzi sostiene, e a ragione, che la scrittura aforistica si fonda su strutture di opposizione perché esprime una diversità, un rovesciamento di valori, e li esprime a partire dall'impianto formale che la contraddistingue; infine dichiara molto eloquente, a questo proposito, il titolo Barche capovolte.22 A me sembra invece che l'idea di manifestare in limine una volontà di capovolgimento dei valori sia lontana da Tozzi almeno quanto sono estranei alla sua scrittura il gusto formale dell'antitesi, del paradosso, dell'arguzia, dell'equivoco e l'esibizione divertita di artifici linguistici (come, del resto, manca in Tozzi «ogni reagente ironico o umoresco»).23 Credo allora, tornando a Barche capovolte, che la spiegazione che Ruozzi ha suggerito per questo titolo vada corretta considerando l'immagine della barca capovolta come una metafora (banale, forse, oltre che di seconda mano)24 della condizione di paralisi dell'anima che ho cercato di ricostruire e individuare fra le pagine di questo «irriconoscibile» Tozzi.

Altre letture di Barche capovolte si sarebbero potute tentare considerando altri aspetti. Si poteva puntare su Barche capovolte come precoce tentativo di esplorazione dell'inconscio. Soprattutto, si poteva - si doveva, forse - rintracciare quegli elementi che permettono di riconoscere in Barche capovolte aforismi tutto sommato abbastanza canonici (dalla scelta dei modi verbali, che non esclude l'imperativo e l'indicativo futuro, alle strutture iterative che ricalcano quelle del discorso biblico; dalla forma dell'enigma, che è una delle forme classiche per l'aforisma di argomento religioso, alla presenza di alcune clausole di tono effettivamente lapidario, e così via), anziché fissare l'attenzione sui punti in cui l'etichetta di «aforismi» appare non del tutto appropriata. Ma l'intento era un altro; era quello di esplorare un genere marginale percorrendone i margini, con il rischio, calcolato, di finire per dissolverli.

 

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Bollettino '900 - Electronic Newsletter of '900 Italian Literature - © 2001

Giugno 2001, n. 1