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BOLLETTINO '900 - Discussioni / A, novembre 1997
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LUCA LENZINI
AUTONOMIA E BIBLIOTECHE.
APPUNTI CORSIVI E PRELIMINARI
2. La prima osservazione e' di ordine generico, e riguarda
i limiti del dibattito in corso, che mi sembrano - sempre
dal punto di vista di cui sopra - almeno due, e non
secondari. Innanzitutto, che i soggetti della discussione
sul futuro dell'universita' siano "addetti ai lavori" -
nella gran maggioranza docenti, con qualche voce di
sindacalista dal loggione - e' un fatto almeno in parte
inevitabile, ma non contribuisce certo ad eliminare una
certa aria di chiuso, assai poco piacevole per chi non
guardi all'"accademia" come ad un universo separato dalla
societa' e dal mondo del lavoro e dai suoi rapidissimi e
profondi mutamenti. Questi ultimi, ovviamente, riguardano
da vicino anche le biblioteche, e proprio in quanto luoghi
di riproduzione e trasmissione del sapere che sono, ad un
tempo, "servizi": sicche' chi ne sottovaluta le conseguenze,
pensando di rubricare il discorso in un ambito
semplicemente "strumentale", introduce una potente mina a
tempo proprio in quel che intende rinnovare.
Vengo al secondo limite, che non e' senza nessi con il
primo. Uno sguardo di sorvolo al dibattito puo' facilmente
evidenziarne una malformazione: quasi tutta l'attenzione e'
monopolizzata dai problemi che diro', sinteticamente,
dell'*Accesso*. In altre parole, i due temi principali e
prioritari sono: (A) in che modo trasformare il
reclutamento della classe docente, e (B) come e se limitare
l'afflusso degli studenti all'universita'. Ebbene, non c'e'
chi non veda quanto questi aspetti siano importanti, anzi
decisivi, nell'agenda delle riforme; ma la scarsa
riflessione sui modi della gestione concreta, sia sul piano
amministrativo che su quello dei servizi, della "cosa
universitaria", e' la spia significativa di una cultura
riconoscibile e tutta nostrana, per cui da una parte la
controversia si concentra sul contrasto ideologico tra
e'litisti e demagoghi, dall'altra si lasciano in ombra i
meccanismi che, di fatto, regolano il (non)funzionamento
dell'istituzione. Questa e' materia di commissioni
ristrette, di esperti e salvifici *managers*: e cosi' un
sinistro cono d'ombra investe una serie di aspetti
assolutamente centrali per riportare l'universita'
all'altezza del proprio compito, che dovrebbero essere
oggetto di analisi e ampia discussione.
3. Chi ha potuto confrontare le varie esperienze e le
diverse realta' a livello di biblioteche universitarie in
Italia e fuori d'Italia, sa con certezza poche ma chiare
cose. Le biblioteche funzionano non in virtu' di
ordinamenti e regolamenti e legislazioni di particolare
rigore o complessita', ma grazie alla miscela di tre
elementi: investimenti continuativi, bibliotecari con una
formazione professionale, gruppi di docenti impegnati a
svolgere il proprio lavoro. Ora, quanto ho appena nominato
con il linguaggio dell'esperienza e del buon senso
costituisce il nucleo stabile di quel tessuto culturale
preliminare che mentre nel nostro paese esiste solo in
forma episodica, in altre realta' fa parte della
*tradizione* (uso intenzionalmente questa parola desueta,
che dovrebbe pero' esser cara a quanti hanno a che fare con
la ricerca e l'insegnamento). Provate invece a tradurre
ognuno dei tre elementi indicati sopra nella prassi, nella
nostra realta', e vi scontrerete con un alveare di
contraddizioni. Non servono inchieste per sapere che gli
investimenti sono intralciati ed ostacolati dalla
burocrazia, nonche' soggetti a spreco per eccessivo
frazionamento e mancanza di coordinamento; che il quadro
normativo per le assunzioni e' arcaico, ed inservibile
quello che regola i profili; che anni di latitanza nel
governo delle strutture hanno incentivato la
dequalificazione e la deresponsabilizzazione; che la
resistenza a introdurre figure di efficace coordinamento
trasversale, nell'ambito dei servizi di automazione,
consente e perpetua nelle componenti degli arcipelaghi
d'ateneo situazioni paradossali; che le mansioni e le
competenze dei docenti e dei bibliotecari, nei ruoli
dirigenziali, tendono spesso a confliggere anziche'
collocarsi in una cornice definita che e' pre-condizione di
ogni collaborazione efficace; che una nozione autarchica,
se non autistica, dell'autonomia e sovranita' delle
strutture costituisce un *boomerang* eccellente per la
ricerca, tanto piu' se in tempo di recessione.
Non basta, pero'. Puo' essere fuorviante limitarsi a dire
che e' la mancanza di una tradizione a causare guasti ed
inefficienze: occorre aggiungere che, in assenza di essa,
si e' assunto all'interno dell'universita' un *corpus* di
nozioni, atteggiamenti e prassi che provengono da una sfera
esterna: quella delle biblioteche pubbliche statali, a loro
volta dominate fino a ieri, in Italia, da una cultura
conservatrice, insieme astratta ed arcaica, che e' quanto
di piu' inadatto all'universo della ricerca e dello studio
universitario (ma diciamo pure dello studio *tout court*).
E' avvenuto quindi che nei paesi dove esisteva una
tradizione di *public libraries* efficienti, naturalmente
orientate sull'utenza, anche quelle universitarie hanno
avuto un solido punto di appoggio (in senso lato:
culturale), senza dover cominciare da zero; mentre in
Italia (ma non solo in Italia) un'ampia gamma di sinergie
negative ha ancor piu' divaricato la sfera dell'utenza da
quella dei servizi. So di generalizzare fin troppo, ma
siamo al punto in cui per incominciare un discorso non si
puo' evitare di farlo.
4. I risultati prodotti dallo stato di cose appena
riassunto sono sotto gli occhi di tutti. Ed uno di questi
risultati e' un diffuso scetticismo, tra gli stessi
bibliotecari, di trovare nell'universita' un ambiente
capace di stimolare le proprie risorse, e di attivare la
propria professionalita' e progettualita'. E nondimeno, il
quadro offre qualche spiraglio: le nuove tecnologie legate
alla comunicazione hanno recato con se' aperture e forme di
dialogo che hanno indubbiamente arricchito il bagaglio
professionale, e favorito il confronto e lo scambio di
esperienze.
Un altro momento positivo e di crescita, in questi ultimi
anni, e' stato inoltre quello in cui si e' inserito gli
studenti nelle biblioteche, grazie a borse di studio sia
pure "leggere". Fosse soltanto quello di aver ampliato gli
orari di apertura, in una situazione che vede limitazioni
indecorose in questo campo, il merito dell'iniziativa
sarebbe gia' notevole; ma vi sono altri effetti collaterali
non meno apprezzabili. Timidi o baldanzosi, molti di questi
studenti sono usciti dal circuito chiuso esami-lezioni per
scoprire che le biblioteche non sono soltanto il luogo in
cui si fanno le fotocopie. A volte ritornano.
Ma detto questo, credo che un punto di partenza molto
empirico per entrare nella questione-biblioteche possa
riassumersi nella domanda seguente: che cosa ha cambiato,
negli ultimi anni, l'orizzonte di tutti i nostri discorsi
sull'universita', quindi anche sulle biblioteche che ne
sono parte integrante e vitale?
Tralasciando le *querelles* ideologiche, la risposta non e'
complicata: lo scenario e' mutato completamente da quando
appunto l'*utenza* studentesca, ritualmente evocata come
quintessenza dell'istituzione, e' divenuta un soggetto
*economico* fondamentale dell'esistenza degli atenei. Da
quel momento, tanto la didattica che i servizi sono il
primo banco di prova per chi si rivolga al "mercato" delle
universita'; e tanto minore e' l'offerta, tanto minore la
risposta in termini di iscrizioni e di permanenza a livello
studentesco. Contano i fatti. E' ormai in gioco, anche se
non ancora la sopravvivenza di Facolta' e di Atenei, il
loro sviluppo futuro e la loro stessa credibilita'; ed e'
su questo piano, di conseguenza, che occorre spostare il
dibattito: sottraendolo, infine, alle fumose discussioni ed
alla cultura delle "circolari", cosi' cara ai ministeri ed
ai loro funzionari, per portarlo dentro lo spazio
*operativo* aperto dalla reale autonomia degli atenei. E
qui - *hic Rhodus, hic salta* - c'e' poco tempo da perdere:
ogni ritardo contribuira' a peggiorare la situazione.
5. Come agire, quindi? In parte, ho gia' risposto. La
parola e' agli atenei, anzi alle strutture che ne
costituiscono la forza trainante, quasi sempre lontana dai
riflettori: il lavoro da fare e' *alla base*, non nel
chiuso dei rettorati ne' nelle stanze dei ministeri. A
questi ultimi spetterebbe, se mai, incentivare tale lavoro
e facilitarlo, ovviamente sorvegliando sugli abusi e gli
sconfinamenti; il che non sarebbe compito da poco.
Sul piano locale, un test significativo della reale
capacita' di affrontare i problemi e' dato, nell'immediato,
dalla stesura dei regolamenti amministrativo-contabili. Non
sembri in contraddizione con quanto ho appena osservato
sulla relativa importanza di ordinamenti ecc.: mentre e'
tutto sommato un bene che gli Statuti non pongano troppi
vincoli, limitandosi all'enunciazione delle linee-guida,
nel caso specifico delle biblioteche non si puo' non porre
chiarezza, e da subito, sul punto essenziale che riguarda
la loro effettiva autonomia di spesa. Compromessi e
pasticci sarebbero esiziali in questo campo, in cui il
fattore-tempo e' decisivo ed il controllo gestionale deve
riguardare il completo iter dell'acquisizione.
Non voglio pero' concludere questi appunti, pur svelti e
generici, citando un problema di ordine tecnico-
amministrativo. Il da fare e' implicito nel succinto (e
persino risaputo) *cahier de doléance* accennato sopra; ma
un punto mi pare da mettere in rilievo, in un ideale ordine
del giorno per il futuro immediato. In questi mesi in molte
facolta' si discute il riordino della didattica, si tentano
nuove strade che passano obbligatoriamente per una maggiore
assunzione di responsabilita' da parte di chi ne ha a cuore
- e non sono pochi - lo sviluppo e una maggiore efficienza.
Allora e' bene che l'esistenza ed i problemi delle
biblioteche non restino a margine, appendice passiva della
discussione (parlo in particolare per l'ambito umanistico,
ma non credo in troppe differenze, a questo livello).
Occorre invece che in tutte le sedi in cui e' possibile
farlo sia rivendicata alla biblioteca la funzione di
momento formativo essenziale nel *curriculum*
dell'apprendimento: e' a partire da questa ovvia
considerazione che conseguono tutte le altre, ivi compresa
la necessita' di soggetti professionali in ogni livello dei
servizi (non soltanto le direzioni, pure troppo spesso
vacanti). Porre il problema del funzionamento delle
strutture sganciandolo da questo sfondo, e pensando
soltanto agli aspetti legati all'approvvigianamento, e' una
tentazione ricorrente nel mondo accademico, ma non fa onore
a chi appartiene alla cosiddetta comunita' scientifica; ed
investire in libri ma non in bibliotecari e' a dir poco
un'opzione miope.
Al contrario, l'informatica e le risorse di rete consentono
di recuperare un profilo alto al ruolo di mediazione del
bibliotecario, che e' naturalmente risospinto la' dove era
il suo luogo di nascita: a diretto contatto con i soggetti
della ricerca e con chi studia. Per invertire la rotta
bisogna insomma riavvicinare in tutti i modi possibili la
biblioteca ai propri destinatari, con una doppia azione:
favorire l'integrazione di chi vi opera con le strutture
che regolano la didattica e la ricerca, rendendo possibile
ai bibliotecari di farsene interpreti attivi e non
ricettori passivi; dall'altra, attivare all'interno
dell'iter di formazione dello studente momenti d'incontro
prolungato e approfondito con gli strumenti di studio (di
qualsiasi genere), rompendo quel circuito chiuso esami-
lezioni a cui accennavo prima e valorizzando la risorsa-
tempo (e' infatti solo in prossimita' della tesi, cioe'
troppo tardi, che lo studente ha la reale possibilita' di
approfondire i suoi strumenti). Per far questo, certo,
occorre recuperare una progettualita' che ne' la dirigenza
degli atenei, ne' le organizzazioni sindacali, hanno
dimostrato di possedere piu' da tempo; ma farlo significa
investire nel proprio futuro, ed il momento e' quello
adatto.